Fonta:Vita.it
Intervista al vicecapo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, che entra nel cuore dei problemi del carcere e indica i passi da compiere: "Bisogna far uscire i detenuti dalle celle, società e istituzioni facciano la loro parte".
È ora di una vera rivoluzione carceraria. Ma attenzione: a dirlo non sono i detenuti, ma chi li detiene: il Dap, Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, che nel comunicare le nuove linee guida per il 2013 non bada a mezzi termini: "I dati statistici descrivono un quadro nazionale di circa 66mila detenuti, dei quali 39mila definitivi e tra questi oltre 10mila con un residuo pena di un anno, 4mila un fine pena entro 18 mesi, e per oltre 8mila il fine pena è stabilito nei tre anni. Ventimila persone, quindi, che potrebbero usufruire di misure alternative a vario titolo, dall'affidamento in prova alla semilibertà alla detenzione domiciliare.
Questi dati danno contezza della necessità di dover procedere alla razionalizzazione del sistema se si intende migliorarne l'efficienza e l'efficacia".
Far scontare la pena fuori dalla cella (e abbattere il sovraffollamento), e farlo presto: questo l'impegno del Dap?
"Sì, ma non solo", risponde a Vita.it Luigi Pagano, da 33 anni nell'amministrazione penitenziaria e oggi vicecapo del Dap. "Siamo pronti a quella che chiamiamo Rivoluzione normale. Vogliamo riformare i circuiti penitenziari per tipologie di detenzione, ma soprattutto far capire alla società, ai politici, che sono loro i primi a non dovere abbandonare il detenuto a sé stesso".
In cosa consiste la "Rivoluzione normale" del Dap?
È un'operazione che vuole mettere mano alle norme e cambiarle. Iniziando a creare circuiti penitenziari più omogenei, differenziando i ristretti in base alla loro 'pericolosità', alla durata della pena e alla territorializzazione, per agevolare il potenziamento delle attività tratta mentali e favorire il miglioramento delle condizioni di detenuti e, di riflesso, del personale. Siamo a corto di fondi e, quindi, di operatori carcerari? Concentriamoli dove serve, ovvero in strutture pensate ad hoc per chi sconta lunghe pene: chi ha un anno di carcere da fare non si mette a scalare muri, a tagliare sbarre come invece è successo pochi giorni fa nel carcere di Avellino. Nello stesso tempo, con una maggiore omogeneità si migliorano anche i programmi di reinserimento, perché chi ha poca pena residua è già pronto, ad esempio, per l'esecuzione penale esterna, mentre con chi deve rimanere a lungo si possono attuare altre iniziative.
Fino ad ora, per molti versi, non ha funzionato così. Questo cambio di marcia parte dall'autocritica, quindi?
Certo. Negli ultimi mesi ci siamo guardati indietro, abbiamo visto che negli ultimi 20 anni si sono avvicendati 15 capi del Dipartimento ma non si è mai fissato un programma normativo da cui partire, oltre naturalmente alle leggi in vigore. Oggi, nell'attuale situazione di crisi, è il momento di rimboccarsi le maniche e provare nuove strade, oppure di mettere nero su bianco quelle che sono state ipotizzate in passato ma mai realizzate, come i circuiti penitenziari su base territoriale. Il Dap, quindi, si assume le proprie responsabilità. Ma la società deve fare lo stesso, altrimenti non si va da nessuna parte, perché essa è responsabile almeno all'80% del successo del reinserimento di un detenuto alla fine della pena: la formazione professionale, il lavoro extra murario, le relazioni quotidiane, sono tutti aspetti che sono a carico degli enti locali, delle Regioni, dell'imprenditoria. Bisogna che tutti assieme creiamo le condizioni per rendere positivo il passaggio dalla reclusione alla libertà. Il carcere è di tutti, e tutti dobbiamo contribuirci. A ben vedere, è una questione culturale.
In che senso è una questione culturale?
Alla base di ogni ragionamento deve esserci un punto fermo: è assolutamente essenziale "portare fuori" il detenuto dal carcere, dargli la possibilità di pene alternative. Lo dice la logica: la recidiva si abbatte del 70% quando una persona durante la reclusione sperimenta strade diverse dallo stare tutto il giorno in cella senza fare niente. Per non parlare poi dei casi specifici, uno su tutti: i tossicodipendenti. Persone finite in carcere ma che spesso non ci dovrebbero stare, o meglio dovrebbe essere in cura altrove, e che quindi necessitano di percorsi differenziati da quelli di ristretti per altra natura.
In questo senso, è il momento in cui noi del Dap, le istituzioni, il mondo del lavoro, il volontariato, fondamentale ma che spesso suo malgrado agisce da supplente delle mancanze del settore pubblico, concorriamo a ribaltare la percezione che buona parte della società ha del carcere. Attenzione, non è un problema di risorse. O meglio, le risorse oggi sono poche, ma queste, se investite bene, possono portare a una vera rivoluzione: noi vogliamo utilizzarle per motivare la persona, non per renderla ancora più delinquente...
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.