
Dal 1994, anno dell’istituzione dell’Autorità nazionale palestinese, le condanne a morte sono state 133 (di cui 107 emesse a Gaza e 26 in Cisgiordania), 27 delle quali eseguite (25 a Gaza e 2 in Cisgiordania).
Da quando Hamas ha assunto il controllo di Gaza, nel 2007, i suoi tribunali hanno emesso 47 condanne a morte, compresa quest’ultima, 14 delle quali eseguite.
La condanna a morte di Faraj Abed Rabbo ha mobilitato le organizzazioni internazionali per i diritti umani e, non è una novità, quelle palestinesi, tra cui la Commissione indipendente per i diritti umani e il Centro palestinese per i diritti umani.
Le due organizzazioni hanno definito “estrema e inumana” la condanna a morte di Faraj Abed Rabbo e ne hanno chiesto la sospensione, sollecitando un nuovo processo, equo e di fronte a un giudice civile.
Le loro preoccupazioni e richieste, però, vanno al di là del singolo caso.
A essere chiamato in causa è quel ginepraio di legislazioni contraddittorie e in parte illegali, applicate nei processi capitali: la legge n. 74 del 1936, la legge giordana n. 16 del 1960, il codice penale rivoluzionario dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina del 1979 e il codice di procedura penale palestinese n. 3 del 2001.
Da un punto di vista strettamente giuridico, nessuna di queste leggi è stata ratificata dal parlamento palestinese. Inoltre, nessuna condanna a morte eseguita a Gaza dal 2007 è stata firmata dal presidente palestinese Mahmoud Abbas. Hamas non riconosce questa prerogativa ma ciò non rende comunque legittima la procedura d’esecuzione delle condanne a morte.
L’obiettivo finale delle organizzazioni palestinesi per i diritti umani è quello di sospendere l’uso della pena di morte in vista della sua abolizione.
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