Famiglia Cristiana
“Vol spécial”, un film distribuito in Italia da Zalab, denuncia le condizioni degradanti dei Cie svizzeri e in particolare dei voli di rimpatrio per chi si oppone all’espulsione.
“L’unico reato che abbiamo commesso è aver osato chiedere asilo in Svizzera”, spiega Geordry, figlio di un oppositore politico del Camerun, fuggito in Europa dopo l’assassinio della madre e dei suoi fratelli. Lo spiega “rinchiuso in una gabbia come un animale” in uno dei 28 centri di espulsione della Svizzera, dove sono detenuti i “clandestini” e i richiedenti asilo la cui domanda è stata rifiutata. Quella di Geordry è una delle storie raccontate nel film “Vol spécial”, presentato lo scorso anno al Festival di Locarno e ora distribuito in Italia da Zalab.
Ogni anno, nel nostro continente, circa 600.000 persone “illegali”, compresi i bambini, sono detenuti, spesso per un semplice illecito amministrativo. Per la prima volta in Europa, una troupe è potuta entrare per nove mesi in uno di questi centri, a Frambois (Ginevra). Racconta il regista Fernand Melgar: “Avevamo legami privilegiati con quasi tutti i detenuti. Abbiamo trascorso diversi mesi con loro e conoscevamo bene le loro storie, le loro famiglie e le loro paure. Nel momento in cui la polizia veniva a prenderli per imbarcarli su un volo speciale, noi eravamo presenti ma non potevano mai salutarli. La disperazione dei loro ultimi sguardi mi ossessiona ancora oggi”.
Frambois è un carcere per innocenti, dove donne e uomini vengono incarcerati senza processo né condanna. La versione svizzera dei Cie (Centri di identificazione e di espulsione) italiani. Spiega Melgar: “In Svizzera, la maggior parte dei 150mila sans papiers lavora, paga le tasse e versa i contributi alle assicurazioni sociali. Si occupa dei nostri anziani, bada ai nostri bambini, pulisce i nostri appartamenti e i nostri ospedali. Senza di loro, molti alberghi e cantieri potrebbero chiudere per carenza di manodopera a buon mercato. Ciò che li accomuna è la spada di Damocle che incombe sulle loro teste: in qualsiasi momento, potrebbero essere arrestati, posti in detenzione fino a due anni, e quindi espulsi”.
Quando succede, “la vita è distrutta e ci uccidono in silenzio”, racconta Serge. Come capita a Jeton, kosovaro, quando nell’ora di visita incontra la sua famiglia. Interroga il figlio di 6 anni: “3+3”, “6”, “6+6?”, “12”. Ma poi può solo dare una caramella quando il bambino gli chiede: “Quando torni?”, e suo fratello gli spiega: “Non dorme la notte, continua a ripetere: ‘Dov’è papà?’. Non dorme e non va più a scuola. Non ne può più, non mangia da due giorni”.
I figli sono sempre presenti, anche quando non appaiono. Quelli che vivono nascosti per non essere espulsi, come il figlio di tre anni di Ragip, kosovaro da 20 anni in Svizzera, che dice: “I bambini non capiscono, piangono”. O come i figli di Alain, a cui il padre preferisce scrivere perché venire a Frambois “potrebbe deprimerli e non voglio si ricordino di questa cosa”. Ma i protagonisti di Vol spécial sono anche gli operatori del centro di detenzione. Melgar ne indaga il faccia a faccia con i detenuti, segnato da rispetto e ribellione, gratitudine e tradimento, amicizia e odio.
Da una parte, una piccola squadra di brave persone, unite e motivate, che cercano di fare in modo umano il proprio compito, ma sono immerse nella violenza istituzionale e nel suo implacabile ingranaggio amministrativo; dall’altra, uomini alla fine della loro corsa, vinti, esauriti dalla paura e dallo stress. Vivono sospesi, in attesa di un “vol spécial”, un volo speciale, gestito dall’Ufficio federale della Migrazione (Ufm). Quelli che si rifiutano di partire sono infatti costretti alla soluzione estrema: sono imbarcati con la forza su un “vol spécial”, legati con cinghie e nastro isolante sulla bocca, ammanettati e costretti a indossare elmetti e pannolini.
Queste condizioni di rimpatrio, che hanno già provocato tre morti, sono al centro di molte proteste: ad esempio, l’Associazione svizzera dei medici si oppone ai voli speciali per ragioni mediche ed etiche. Un volo, che effettua solitamente vari scali, può durare fino a 40 ore nel corso delle quali le persone rimangono legati ai loro sedili. Fino a tornare in un paese che da anni non è più il loro. E, alle volte, a pagarne le conseguenze. Come Geordry, tornato in Camerun, incarcerato poco dopo il suo atterraggio e torturato per aver sporcato l’immagine del suo paese. Colpevole di “aver osato chiedere asilo in Svizzera”.
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