C’è un tempo per costruire e un tempo per distruggere. Oggi la voglia di distruzione sembra avere qualcosa di furioso, globale, e pare virtù. Ma distruggere senza un progetto di ricostruire, sanando gli errori passati e recuperando i traguardi falliti, può diventare un salto avventuroso nel buio.
Il prossimo 31 marzo chiuderanno gli ospedali psichiatrici giudiziari. È da pazzi, che ci siano ancora: perciò tutti fuori i 1.400 internati. Per andare dove? È da pazzi non saperlo ancora, non avere il nuovo indirizzo.
Quando fu il tempo di costruire i manicomi criminali, si ragionò così: non è giusto punire un pazzo, perché non è responsabile. Non è però neppur giusto che la società sia esposta al rischio della sua irresponsabile devianza, perché ha necessità di sicurezza. Insomma, per dirla con Lombroso “la prigione è un’ingiustizia, la libertà un pericolo”. Perciò niente prigione, ma ospedale (con le sbarre); non per un tempo di castigo secondo il delitto, ma per un tempo di pericolo, secondo la malattia. Custodire e curare (l’immagine di una “famiglia” dentro un fortino).
Che cosa abbia rappresentato in pratica l’internamento per i malati di mente non imputabili e giudicati pericolosi, ci sono voluti gli urti di cronache spaventose a spiegarcelo, se allacciamo i resoconti della Commissione Marino alle testimonianze interne sul vissuto degli internati (nell’emozione solitaria dei “traditi” o dei “rinnegati”) in una sofferenza torturante, anche se son passati più cent’anni da quando Lombroso trovava somigliante un manicomio criminale “a un’immensa latrina”. E ci si può finire per un episodio da niente (da pazzi), che so, un urlo e uno spintone a un carabiniere, per farne sortire resistenza e lesione e interruzione di servizio e poi la pericolosità che fa scattare due anni minimi di internamento per l’imputato “benevolmente prosciolto”.
Due anni, prorogabili s’intende. La riforma del 1978 (legge Basaglia) ha appena scalfito questo scenario. La Corte costituzionale ne ha in parte corretto l’impostazione, accentuando il controllo giudiziario e i suoi poteri flessibili. Ma l’impianto sta ancora sui pilastri dell’imputabilità negata e della sicurezza postulata, e la chiusura degli Opg lascia intatto il processo penale e i suoi schemi e le sue angustie, solo cercando un indirizzo diverso al quale spedire i prosciolti.
E questa la nuova incognita. Lo si sapeva, lo si era impostato cinque anni fa, col decreto che avviò il trasferimento della sanità penitenziaria alla sanità ordinaria, e adesso il tempo stringe, il tempo scade. Bisogna ospitare 1.400 persone “malate”, reputate “pericolose”, in strutture abitative che le Regioni devono allestire, di dimensioni contenute, con organizzazione tipicamente sanitaria, lasciando alla vigilanza periferica, perimetrale, la sicurezza.
Bisogna che le Regioni procurino, udite, “forme di inclusione sociale adeguata”. Che parole difficili e nobili, che hanno dentro il pieno o il vuoto, il tutto o il nulla, e paiono frattanto il momento di rimorso e della vergogna per l’esclusione sociale che ha fatto, in una lunga storia, le carceri e i manicomi simili a discariche. Non siamo pronti, non siamo pronti, è tutto un gridare. Anche assennato, se si vuole, psichiatri in testa, perché il tempo di costruire chiede fatica maggiore del radere al suolo. Inventando, si prega, soluzioni diverse dai micro-manicomi. Difficile compito, assolvibile se si tiene salvo quel “pensiero pazzo” che governare è vocazione e fatica di servire.
Il prossimo 31 marzo chiuderanno gli ospedali psichiatrici giudiziari. È da pazzi, che ci siano ancora: perciò tutti fuori i 1.400 internati. Per andare dove? È da pazzi non saperlo ancora, non avere il nuovo indirizzo.
Quando fu il tempo di costruire i manicomi criminali, si ragionò così: non è giusto punire un pazzo, perché non è responsabile. Non è però neppur giusto che la società sia esposta al rischio della sua irresponsabile devianza, perché ha necessità di sicurezza. Insomma, per dirla con Lombroso “la prigione è un’ingiustizia, la libertà un pericolo”. Perciò niente prigione, ma ospedale (con le sbarre); non per un tempo di castigo secondo il delitto, ma per un tempo di pericolo, secondo la malattia. Custodire e curare (l’immagine di una “famiglia” dentro un fortino).
Che cosa abbia rappresentato in pratica l’internamento per i malati di mente non imputabili e giudicati pericolosi, ci sono voluti gli urti di cronache spaventose a spiegarcelo, se allacciamo i resoconti della Commissione Marino alle testimonianze interne sul vissuto degli internati (nell’emozione solitaria dei “traditi” o dei “rinnegati”) in una sofferenza torturante, anche se son passati più cent’anni da quando Lombroso trovava somigliante un manicomio criminale “a un’immensa latrina”. E ci si può finire per un episodio da niente (da pazzi), che so, un urlo e uno spintone a un carabiniere, per farne sortire resistenza e lesione e interruzione di servizio e poi la pericolosità che fa scattare due anni minimi di internamento per l’imputato “benevolmente prosciolto”.
Due anni, prorogabili s’intende. La riforma del 1978 (legge Basaglia) ha appena scalfito questo scenario. La Corte costituzionale ne ha in parte corretto l’impostazione, accentuando il controllo giudiziario e i suoi poteri flessibili. Ma l’impianto sta ancora sui pilastri dell’imputabilità negata e della sicurezza postulata, e la chiusura degli Opg lascia intatto il processo penale e i suoi schemi e le sue angustie, solo cercando un indirizzo diverso al quale spedire i prosciolti.
E questa la nuova incognita. Lo si sapeva, lo si era impostato cinque anni fa, col decreto che avviò il trasferimento della sanità penitenziaria alla sanità ordinaria, e adesso il tempo stringe, il tempo scade. Bisogna ospitare 1.400 persone “malate”, reputate “pericolose”, in strutture abitative che le Regioni devono allestire, di dimensioni contenute, con organizzazione tipicamente sanitaria, lasciando alla vigilanza periferica, perimetrale, la sicurezza.
Bisogna che le Regioni procurino, udite, “forme di inclusione sociale adeguata”. Che parole difficili e nobili, che hanno dentro il pieno o il vuoto, il tutto o il nulla, e paiono frattanto il momento di rimorso e della vergogna per l’esclusione sociale che ha fatto, in una lunga storia, le carceri e i manicomi simili a discariche. Non siamo pronti, non siamo pronti, è tutto un gridare. Anche assennato, se si vuole, psichiatri in testa, perché il tempo di costruire chiede fatica maggiore del radere al suolo. Inventando, si prega, soluzioni diverse dai micro-manicomi. Difficile compito, assolvibile se si tiene salvo quel “pensiero pazzo” che governare è vocazione e fatica di servire.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.