Se il caso dei due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, in India in attesa di giudizio per la morte di due pescatori, è diventato una questione di Stato che ha messo in discussione le relazioni internazionali italiane, è anche la punta di un iceberg di cui si parla poco. Nelle prigioni straniere, infatti, sono detenuti 3.103 italiani, secondo i dati del 2012 forniti dalla Farnesina: 2.394 in attesa di giudizio, 647 sono già stati condannati, 32 in attesa di estradizione. I174,9% di loro (2.323 persone, secondo gli ultimi dati raccolti dalla Farnesina e riferiti al 2012) si trova in istituti di pena dei Paesi dell’Unione europea, soprattutto nelle nazioni dove maggiore è la presenza di comunità italiane, a cominciare dai 1.115 connazionali dietro le sbarre in Germania. Ma anche in Spagna e Belgio le percentuali di detenuti italiani sono alte. Un altro 15,9%, pari a 494 detenuti, si trova Oltreoceano. Ma se negli Stati Uniti, principale meta turistica e Paese che ospita il maggior numero di italiani, i connazionali in carcere sono 69, la cifra lievita a 76 in Perù, 81 in Venezuela, fino al picco di 83 persone in Brasile. Persino in Honduras c’è un italiano dietro le sbarre. Quelli che mancano all’appello sono equamente distribuiti nel resto del mondo: 129 (4,2%) nei Paesi europei non comunitari, 76 (2,4%) in Asia e Oceania con un picco di 24 detenuti in Australia, 64 (2,1%) nei Paesi del Mediterraneo e mediorientali, 17 (0.5%) nell’Africa sub sahariana, dove diversi italiani sono in cella in Congo e Tanzania. Sono in carcere principalmente per reati connessi all’uso o al traffico di sostanze stupefacenti. Le loro storie non sono facilmente reperibili, ma quelle di chi ha vissuto l’esperienza della detenzione all’estero, soprattutto in Paesi extracomunitari, raccontano che alle volte non si tratta di pericolosi trafficanti. Basti pensare alla vicenda di Lorenzo Bassano, fermato nel 2007 all’aeroporto Dubai, dove si era recato per lavoro: nella tasca di un pantalone, in valigia, c’erano 0,8 grammi di hashish, che gli hanno fatto rischiare una detenzione da quattro anni all’ergastolo. Per fortuna è stato graziato. Oppure la storia di Daniele Tanzi, colpevole ma detenuto in condizioni ben peggiori di quelle delle carceri italiane (che pure non scherzano), ricordata sul suo blog da Katia Anedda, tra le fondatrici di “Prigionieri del silenzio”, organizzazione che si occupa proprio dei detenuti all’estero: “Daniele Tanzi, arrestato anche in Brasile per traffico di stupefacenti, aveva nascosto della droga in un finto gesso alla gamba. Un giornale nazionale ha raccontato di 15 italiani, tra cui appunto Daniele, erano segregati in un carcere con celle sottoterra. All’epoca la cosa fece scalpore, ma ora tutti hanno dimenticato quell’inferno e nessuno si è accertato che i nostri italiani siano stati riportati in una situazione civile”. O ancora, proprio in India, si ricorda il caso di Angelo Falcone, in favore del quale si mobilitò l’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino. “Falcone nel 2009 è stato incastrato, insieme con un suo amico, dalla polizia che gli aveva sistemato 18 chili di hashish in camera, e che gli aveva fatto firmare una confessione scritta in indu, senza l’ausilio di un avvocato né di un traduttore” racconta Elisabetta Zamparutti che, da parlamentare, accompagnò il padre di Angelo a trovare il figlio condannato in primo grado a dieci anni, visto che in carcere gli negavano anche le telefonate: “Abbiamo presentato una serie di interrogazioni parlamentari sulla vicenda che si è conclusa in secondo grado con un’assoluzione. La famiglia ha assunto il miglior avvocato indiano. E per pagarlo ha dovuto vendere praticamente tutto quello che possedeva”. In India ci sono in totale sette italiani condannati, mentre altri dieci prigionieri attendono di essere giudicati come i marò dell’Enrica Lexie. Tra loro ci sono anche Tommaso Bruno, di Albenga, e la torinese Elisabetta Boncompagni: sono stati entrambi condannati in primo grado all’ergastolo per aver ucciso il fidanzato di lei, Francesco Montis. Strangolato, per le autorità indiane, forse vittima dell’asma secondo la tesi sostenuta dalla difesa. Il mese scorso, i genitori di Bruno e Boncompagni sono tornati per l’ennesima volta in India, nella speranza che il braccio di ferro italiano per la vicenda dei marò, “non si ripercuota sui nostri ragazzi”. Per loro, come per gli altri, la Farnesina fa quel che può, attraverso la rete dei consolati e delle ambasciate che, lo scorso anno, “ha consentito di assistere 3.200 casi di questo genere, attraverso una serie di visite al detenuto, il reperimento di legali in loco, la cura dei contatti con i familiari, nonché l’assistenza medica e la fornitura di diversi generi di conforto al detenuto”.
di Sonia Oranges
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.