Una rivoluzione popolare basata sulla richiesta del rispetto dei diritti umani è scomparsa da qualsiasi angolo informativo. E’ la lotta disperata del Bahrain.
di Riccardo Cristiano
Chi si ricorda più di Piazza della Perla? Vi si radunavano i giovani del Bahrain per chiedere il rispetto dei più elementari diritti umani. La loro situazione è rimasta tale, dopo l’intervento “fraterno” dell’Arabia Saudita al fianco del regime di Manama, ma di quel che accade laggiù non si parla. Un silenzio totale.
Era il nove aprile del 2011: la polizia del Bahrain entrò a casa del leader del movimento per il rispetto dei diritti umani e lo trasse in arresto. Lo picchiarono e quindi lo portarono in ospedale. Qui invece di curarlo lo torturano. E poi lo condannarono all’ergastolo.
Cosa voleva Abdel al Khawaja? Fondamentalmente chiedeva che la maggioranza della popolazione del Bahrain, di religione sciita, avesse gli stessi diritti della minoranza sunnita. Non gli piaceva che per via della loro appartenenza all’altra famiglia islamica venissero chiamati dagli agenti della sicurezza “topi di fogna”. Andava e va così, visto che in Bahrain regna una famiglia reale sunnita, che riserva ai propri “correligionari” tutti gli incarichi, i privilegi, i ruoli di comando e potere.
La figlia di Abdel, Zeinab al Khawaja, dopo l’arresto del padre si rese protagonista di una protesta solitaria: si piantò davanti a una camionetta della polizia, con un cartellone in mano: vi si chiedeva il rilascio dei prigionieri politici. Da quel momento però di prigionieri politici in Bahrain ce ne è stato uno in più: lei. Condannata, da allora non ha mai potuto vedere suo figlio, che aveva al tempo tre anni.
Zeinab ha una sorella più piccola, Batoul. E’ diplomata con pieni voti, un’infermiera con i fiocchi, ma non può lavorare: le viene impedito di iscriversi all’elenco delle persone che possono essere assunte in una qualsiasi struttura pubblica o privata del Paese.
La moglie di Abdel al-Khawaja ha perso il lavoro e suo suocero è sparito. Sparito dal 2011. Per la colpa di essere il padre di Abdel al-Khawaja.
La memoria di tutto questo è sparita, cancellata dai giornali del mondo. Ci ritorna qualcuno con brevi tamburini quando l’altra figlia di Abdel al-Khawaja, Maryam, viene invitata a qualche conferenza sui diritti umani. Maryam è cittadina danese, perché quando suo padre fu esiliato nel 1966, lui prima portò la sua famiglia a Damasco, poi in Danimarca, dove grazie al cielo la legge sull’asilo politico c’è.
Abdel e la sua famiglia rimasero in esilio fino al 1999, quando la morte dell’emiro portò al varo di un’amnistia. Rientrarono, ma Maryam nel frattempo aveva acquisito la cittadinanza danese (quel che monti vorrebbero che non accadesse, restringendo le norme sull’asilo politico agli “stranieri”). E grazie al suo passaporto parla, racconta. Racconta la storia della sua famiglia, uguale a quella della grande maggioranza del suo popolo. Di tantissime famiglie sciite del Bahrain che non si chiamano Khawaja, ma hanno lo loro stesso destino. Nel silenzio di tutto il mondo.
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