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domenica 30 giugno 2013

Il Marocco e la tratta di esseri umani - Le Nazioni Unite intervengono su un tema delicato

L'Opinionista
L'esperto delle Nazioni Unite sui diritti umani Joy Ngozi Ezeilo, ha sollecitato il Marocco a concentrare gli sforzi contro la tratta di esseri umani. Il Relatore, specializzato sulla tratta di persone, specialmente donne e bambini, ha esortato il governo marocchino a un approccio mirato verso le vittime di questo fenomeno. 


Le sue osservazioni, giungono alla conclusione della visita ufficiale in Marocco avvenuta dal 17 al 21 giugno scorso, dove ha esortato il governo a ratificare il Protocollo delle Nazioni Unite sulla tratta di esseri umani e ha sollecitato che gli standard del protocollo vengano tradotti in azioni concrete per proteggere meglio e assistere le vittime, prevenendo il traffico di persone e punendo i colpevoli di questo crimine.

"Il Marocco si trova ad affrontare molte sfide, e la portata di questo problema dovrebbe essere visto più in profondità.I migranti irregolari sono più vulnerabili alla tratta in quanto utilizzati per il lavoro forzato, per la servitù domestica e per lo sfruttamento sessuale”, ha dichiarato la Ezilo.

Pur accogliendo con favore l'impegno del governo per combattere la tratta di esseri umani, il relatore speciale ha osservato che la preoccupazione più immediata è la mancanza di un quadro giuridico adeguato per la lotta contro la tratta di persone. Un aspetto del problema è la mancanza di adeguati strumenti e protocolli di identificazione delle vittime. Rimanendo non identificati i più sono confusi con i clandestini, ha detto l'esperto delle Nazioni Unite.
Secondo lei, il Marocco dovrebbe istituire un meccanismo appropriato per raccogliere i dati atti a determinare la prevalenza e le varie forme e manifestazioni del fenomeno della tratta nel paese. Nonostante gli sforzi del governo sulle misure di prevenzione per ridurre la vulnerabilità delle vittime della tratta, in Marocco, in particolare per i bambini, il Relatore Speciale ha espresso preoccupazione per la mancanza di servizi e di soccorso relativi alla protezione delle vittime.
In tal senso, ha sottolineato che la disponibilità e l'accesso ai rifugi rimangono molto limitati per le persone esposte a varie forme di violenza e di sfruttamento, nonché i rischi legati alla tratta di persone. 

La signora Ezeilo ha invitato, quindi, il governo ad attuare una serie di misure politiche efficaci e quadri istituzionali per la lotta contro la tratta di esseri umani, come ad esempio lo sviluppo di un piano d'azione nazionale, la creazione di un'agenzia nazionale per coordinare le azioni delle agenzie governative in materia di lotta contro la tratta.
Si è raccomandata, inoltre, per la nomina di un relatore nazionale la cui missione deve essere quella di sorvegliare l'attuazione, il progresso e l'impatto della legislazione sul traffico in materia di diritti umani, tra cui l'istituzione di un sistema di identificazione delle vittime della tratta.

Durante questi cinque giorni di visita, la signora Ezeilo ha incontrato i rappresentanti delle autorità competenti, la magistratura e le istituzioni nazionali coinvolte nella lotta contro il traffico, oltre a rappresentanti di agenzie delle Nazioni Unite, le organizzazioni internazionali e la società civile, ma anche le vittime della tratta di persone e dei loro rappresentanti. 

Il Relatore Speciale ha visitato i centri di Rabat, Casablanca e Tangeri e il 20 giugno, il ha visitato anche Dakhla, nel Sahara Occidentale, dove ha incontrato diverse parti interessate al problema.
Ha accolto con favore la determinazione delle autorità a istituzionalizzare le buone pratiche identificandole anche nelle risposte mediche e legali relative all’assistenza delle donne vittime di violenza. Tuttavia, ha esortato ancora una volta, le autorità locali a potenziare la capacità di individuare i casi di tratta di persone e ad adottare ulteriori misure per ridurre la vulnerabilità delle potenziali vittime e per garantire un'adeguata protezione dei migranti e delle loro famiglie.
Estratto di Foto Marocco fonte: www.agendaonline.it

Tentato suicidio nel carcere di Marassi, intervento degli agenti salvano il detenuto.

genova24.it
Genova. Agenti della polizia penitenziaria hanno sventato un suicidio nella VI sezione del carcere di Marassi. L’intervento ha salvato la vita ad un detenuto marocchino, che ha tentato di togliersi la vita la scorsa notte.

Lo rivela Roberto Martinelli segretario generale aggiunto del sindacato Sappe.
Il sindacato ricorda che nel 2012 in carcere ci sono stati 56 suicidi (30 italiani e 26 stranieri) e 97 decessi per cause naturali (82 italiani e 17 stranieri).

I suicidi sventati sono stati 1.308. ”E’ merito della polizia penitenziaria, i cui
organici sono carenti di circa 7 mila unità, se l’ordine e la sicurezza negli oltre 200 Istituti penitenziari e garantita, ma a costo di enormi sacrifici personali, mettendo a rischio la propria incolumità fisica, senza perdere il senso del dovere e dello Stato”.

Mauritania - La tortura non risparmia neanche i minorenni

Corriere della Sera
“Mi hanno costretto a sedermi. Mi hanno ammanettato, il piede sinistro con la mano sinistra, il piede destro con la mano destra. Poi hanno passato un bastone sotto le ginocchia e lo hanno sollevato fino a poggiarlo sopra a due bidoni dell’acqua. Mi hanno lasciato in quel modo, a penzolare con la testa all’ingiù. Poi sono rientrati e hanno iniziato a bastonarmi”.

Questo è il racconto di un ragazzo di 16 anni, incontrato da Amnesty International insieme ad altri 10 minorenni nel corso di una recente missione in Mauritania.

Allarmata dalla morte sotto tortura di un uomo nella prigione di Dar Naim (nella foto) alla fine dello scorso anno, l’organizzazione per i diritti umani ha deciso di visitare alcune stazioni di polizia e carceri di Nouakchott e il centro di detenzione della Brigata giovanile, sempre nella capitale, specializzato nella custodia e negli interrogatori dei presunti criminali minorenni.

Al termine di oltre 60 incontri con detenuti, il quadro emerso è agghiacciante:uomini, donne e bambini vengono regolarmente torturati per costringerli a rendere confessioni su presunti reati comuni o violazioni della legge antiterrorismo. Una volta arrestato, il sospetto sparisce letteralmente nel nulla per giorni: privo di avvocato, viene torturato a lungo, costretto a sottoscrivere dichiarazioni senza che neanche gli vengano lette e infine sottoposto a un processo farsa che termina con una condanna basata su ciò che è stato estorto con la tortura.
Non è stato un processo. Mi hanno semplicemente letto cosa avevo dovuto dire sotto tortura. Mi hanno chiesto se era vero e ho risposto di no, che ero stato costretto a dire quelle cose con la tortura. Mi hanno risposto che quello era il verbale di polizia e si basavano su quello. Mi hanno dato tre anni di carcere”, ha raccontato un detenuto.
Questo, invece, è il racconto di un compagno di prigionia dell’uomo morto sotto tortura nel dicembre 2012 nella prigione di Dar Naim:
“Ci hanno tenuti per tre giorni in celle di punizione così piccole che non potevamo neanche allungare le braccia e le gambe. C’erano scarafaggi ovunque. Dopo la mezzanotte, ci portavano in un campo, ci costringevano a sdraiarci sulla schiena, ci tenevano fermi coi loro stivali piantati sul petto e ci buttavano getti d’acqua in bocca e nel naso. Ci facevano mangiare la sabbia, ci cospargevano il corpo di sale e poi applicavano la corrente elettrica. Ci ustionavano con coltelli bollenti. Ci legavano mani e piedi e ci picchiavano”.
Quest’altra testimonianza arriva da un rifugiato del Mali, 41 anni, in attesa di processo per presunti reati di terrorismo:
“Mi hanno fatto togliere tutti i vestiti fino a rimanere in mutande, poi mi hanno costretto a sdraiarmi. Mentre un poliziotto mi teneva bloccato con uno stivale sulla schiena, l’altro mi legava le mani ai piedi. Era così stretto che i piedi toccavano la testa. Mi hanno issato a una corda e lasciato sospeso nell’'aria. Mentre mi facevano roteare mi picchiavano coi bastoni, mi prendevano a calci e pugni. È successo due volte, tra le sette di sera e l’una di notte e dalle cinque di sera all’una di notte”.
C’è poi il caso di 14 uomini scomparsi nel maggio 2011 dalla prigione centrale di Nouakchott. Le autorità continuano a non rispondere alle richieste delle famiglie. I loro figli non possono iscriversi alla scuola pubblica né accedere alle cure mediche perché i padri non risultano iscritti all’anagrafe.

Amnesty International aveva già segnalato la diffusione della tortura in Mauritania al Comitato Onu contro la tortura. Il Comitato ha fatto una serie di raccomandazioni al governo. Si spera non sia un vuoto rituale.

Erythrée: Pris entre la persécution politique et la misère des camps de réfugiés

All Africa
Banjul — En février 2013, Mohamed*, 20 ans, comme des centaines de milliers d'autres Erythréens, a fui la dictature brutale dans ce pays d'Afrique de l'est en quête d'une vie meilleure au Soudan voisin.

Mais pour Mohamed et d'autres comme lui, fuir vers les pays voisins n'a apporté aucune fin à leurs souffrances. Beaucoup d'entre eux sont devenus des victimes de trafiquants d'êtres humains et la famille de Mohamed croit que c'était son destin aussi.

Selon le "Rapport mondial 2013" de 'Human Rights Watch' (HRW), l'Erythrée est en proie à des violations de droits humains, et "la torture, les détentions arbitraires, et de graves restrictions de la liberté d'expression, d'association et de la liberté religieuse demeurent une routine". En outre, le service militaire est obligatoire et peut durer indéfiniment.

'Freedom House', une ONG internationale qui fait des recherches et des plaidoyers sur la démocratie, la liberté politique et les droits de l'Homme, a déclaré dans son rapport intitulé "La liberté dans le monde 2012" que l'Erythrée est l'une des neuf sociétés les plus répressives au monde.

Le Haut commissariat des Nations Unies pour les réfugiés (HCR) a annoncé en 2011 que 220.000 des 5,4 millions d'habitants du pays ont fui la persécution dans cette nation.

Mohamed a réussi à traverser la frontière en toute sécurité. Une fois au Soudan, il a téléphoné à sa mère et lui a dit qu'il a pu faire le voyage.

Quelques jours plus tard, il lui a téléphoné encore pour lui dire qu'il avait été enlevé. Sa cousine, Eden*, croit qu'il a été enlevé par des criminels qui travaillent en collaboration avec les agents de sécurité du Soudan.

"Sa mère était abattue", a indiqué Eden à IPS depuis Banjul, la capitale de la Gambie, lors d'une récente visite dans ce pays d'Afrique de l'ouest.

"Les ravisseurs de mon cousin demandaient une rançon de 30.000 dollars. Sa mère est pauvre, alors elle a commencé à demander des dons aux gens", a-t-elle dit.

Emiratos Árabes Unidos - Denuncias de tortura sistemática en las cárceles

Amnesty International
En cartas manuscritas de personas detenidas, sacadas clandestinamente de la cárcel, se afirma que agentes de seguridad del Estado de Emiratos Árabes Unidos (EAU) han sometido a detenidos a malos tratos sistemáticos, incluida tortura. Así lo han manifestado hoy Alkarama, Amnistía Internacional y Human Rights Watch.

Las organizaciones han recibido 22 declaraciones escritas por algunas personas de un total de 94 sometidas a juicio por su presunta participación en una trama para derrocar al gobierno. Los malos tratos descritos en las cartas coinciden con otras denuncias de tortura en centros de seguridad del Estado de EAU e indican que la tortura es práctica sistemática en estos lugares.

En las declaraciones se explican con diverso grado de detalle las condiciones en prisión preventiva. Varios detenidos describen malos tratos que se ajustan claramente a la definición de la tortura del artículo 1 de la Convención de la ONU contra la Tortura y Otros Tratos o Penas Crueles, Inhumanos o Degradantes, que EAU ratificó en julio de 2012. “Me golpearon en todo el cuerpo con un tubo de plástico –explica un detenido–. Me ataron a una silla y amenazaron con aplicarme electrocución si no hablaba. Me insultaron y me humillaron.”

“El sistema judicial de EAU perderá toda credibilidad si estas denuncias se ocultan debajo de la alfombra a la vez que encarcela a quienes critican al gobierno –ha manifestado Joe Stork, director adjunto para Oriente Medio de Human Rights Watch–. Si el gobierno no investiga y toma medidas, será difícil no llegar a la conclusión que la tortura es práctica habitual en EAU.”

[...] 

sabato 29 giugno 2013

Why do we keep executing people? - By Thomas Cahill, CNN Opinion

CNN Opinion
By Thomas Cahill
Thomas Cahill
Editor's note: Thomas Cahill is the author of the Hinges of History series, which begins with "How the Irish Saved Civilization." Volume VI in the series, "Heretics and Heroes: How Renaissance Artists and Reformation Priests Created Our World," will be published at the end of October. He has also written "A Saint on Death Row" about his friend Dominique Green, who was executed by the state of Texas. 
Killing people by lethal injection will soon be as distant a memory as burning heretics at the stake and stoning adulterers -- at least throughout the civilized world. No country that employs the death penalty can be admitted to the European Union, and the practice dwindles daily.

But despite the growing worldwide revulsion against this lethal form of punishment, Texas and a handful of other states continue to take their places among such paragons as North Korea, China, Yemen and Iran in the club of those who attempt to administer the death penalty as a form of "justice."

Death row diary offers a rare glimpse into a morbid worldIndeed, Texas is way ahead of all other states in the administering of such justice. At the end of this month, under the leadership of Gov. Rick Perry, the state is expected -- if all appeals fail -- to celebrate its 500th judicial killing since our Supreme Court in 1976 reinstated the death penalty as a legitimate form of "justice," despite the fact that an earlier court had determined that the death penalty was "cruel and unusual punishment."

No one doubts that the woman who is scheduled to be executed on Wednesday, Kimberly McCarthy, is guilty of the 1997 murder of her neighbor, a 71-year-old woman and a retired college professor. Although we know that upwards of 10% of all death row prisoners are later exonerated for the crimes for which they have been convicted, Kimberly McCarthy will not be one of them. So, why shouldn't we kill her?

For the same reason Warden R.F. Coleman gave to reporters on February 8, 1924, the day the official Texas Death House was inaugurated with the electrocution of five African-American men. Said Coleman then, "It just couldn't be done, boys. A warden can't be a warden and a killer, too. The penitentiary is a place to reform a man, not to kill him."

Warden Coleman resigned rather than pull the switch. Sadly, so many others have failed in the many years since then to follow his heroic example.
And let's not equivocate: Often, and in every age, doing the right thing requires heroism.


Kimberly McCarthy is a black woman. Black people are disproportionately represented on death row, as are blacks imprisoned throughout this country. Many would say (at least in a whisper) that black people are more prone to crime and violence than are white people.

But as a historian, I know that there was a time, long ago, when my people -- Irish-Americans -- were deemed to be more prone to crime and violence than were others. This was in the years after the potato famines of the 19th century that brought so many desperately poor Irish people to these shores.

The police in New York City became so inured to arresting Irishmen that they began to call the van they threw the arrestees into "the Paddy Wagon," a name that has adhered to that vehicle ever since.

But who today would care (or dare) to make a case for exceptional Irish criminality? The immigrating Irish were more prone to criminality not because of some genetic inheritance, but because they were so very poor, so neglected, so abandoned. When I see a vagrant today, snoring on a park bench, clothed in rags and stinking, I think to myself: Whatever happened to this guy, whatever the history that dropped him on this park bench, no one loved him enough when he was a child.

His parents, if he had parents, were too taken up with the pain of living, with the struggle for survival, with their own hideous fears, to tend to him adequately, if at all. No one came to rescue this child, give him enough to eat, adequate shelter, a caring environment — the love that everyone needs in order to grow.

We -- the larger society -- have a profound obligation to such people, an obligation we have largely ignored. Many other societies in the Western world devote considerable resources to keeping poor children (and their parents) from despair. As an American friend of mine who lives in Denmark says: "In Denmark we tax the rich, but everyone is comfortable."

Not everyone is comfortable in the United States. Many children live below the poverty line, millions of them without enough food or adequate shelter and with almost no attention to their educational needs. As for their emotional needs, are you kidding me?

If Texas would pay attention to the needs of all its children, if we would all do the same for all our children, if we would only admit that every child needs to be loved and that we are all obliged to help ensure this outcome, our world would change overnight. We would certainly not need our electric chairs and nooses and lethal injections. We could then say what the poet-priest John Donne said as long ago as 1623, "Any man's death diminishes me because I am involved in mankind."

Any man's death. Any woman's death. Any child's despair.

Israele: violenze sui bambini palestinesi nelle carceri, la denuncia dell'Onu

www.news.supermoney.eu
Secondo un dossier dell'organizzazione, dal 2002 ad oggi 7000 bambini palestinesi torturati nelle carceri israeliane. È stato pubblicato un drammatico dossier dell'Onu che denuncia violenze compiute dai soldati israeliani ai danni di bambini palestinesi detenuti nelle carceri del democratico stato d'Israele. 

Secondo il dossier, compilato dall'Onu, negli ultimi 11 anni sarebbero stati arrestati, torturati e violentati 7000 bambini tra i nove e gli undici anni. Secondo il dossier i maltrattamenti iniziano subito con l'arresto, durante il quale i bambini vengono ammanettati e bendati in modo tale da non far vedere agli arrestati dove vengono portati. 

Solitamente l'arresto viene effettuato contro quei bambini che lanciano sassi contro i blindati israeliani durante le incursioni notturne che questi fanno. Ai genitori di codesti bambini viene nascosto il luogo di detenzione dei figli, e per questo i bambini detenuti non vedono più i loro genitori. Il dossier, lungo 20 pagine spiega che una volta nelle carceri i minori vengono torturati sia fisicamente che psicologicamente, vengono infatti minacciati di morte, gli viene negato il cibo, acqua e l'accesso ai bagni, ed infine spesso vengono violentati. 

Soldati israeliani hanno giustificato il trattamento dicendo che sono metodi per estorcere informazioni utili. Il governo israeliano ha negato la veridicità di questo dossier, ritenendolo poco serio. È però vero che la legge israeliana prevede che i minori palestinesi possono essere arrestati e condannati anche a 20 anni di reclusione con l'accusa di aver lanciato sassi contro i blindati israeliani. Forse questa legge, decisamente eccessiva, in un paese civile non dovrebbe esistere.

di Fadi Musa

Pakistan extends refugee status for over a million Afghan refugees that was set to expire

Fox News
ISLAMABAD – The United Nations says Pakistan has extended refugee status for over a million Afghans living in the country. It was set to expire June 30.

The U.N.'s refugee agency said Friday Pakistan agreed to extend their status while it comes up with a new policy.

Pakistan has been hosting Afghan refugees dating back to the Soviet invasion of Afghanistan three decades ago. There are 1.6 million in Pakistan. Many Pakistanis have become frustrated with the length of time the Afghans have stayed and want them to leave.

Pakistan has said it will not forcibly evict Afghans. However, revoking their refugee status would encourage people to return to Afghanistan.

Refugee status allows Afghans to get a government ID card that they use for everyday activities like banking or registering for school.

Corte dei conti; in Italia record di condanne su violazioni diritti umani

Dire
Un “fattore critico” del bilancio dello Stato è costituito anche “dall'alto numero di condanne subite in ambito europeo per violazioni della convenzione sui diritti umani” nel “settore giustizia e regime carcerario”. 

Nel 2012 “l'Italia è stata condannata a pagare indennizzi per 120 milioni di euro, la somma più alta mai pagata da uno dei 47 stati membri del Consiglio d'Europa”. Lo dice Salvatore Nottola, procuratore generale presso la Corte dei Conti nel giudizio sul rendiconto generale dello Stato. Quanto alle procedure d'infrazione, l'Italia “detiene anche il primato dei ricorsi presentati dalla Commissione dal 1952 al 2012, pari a 633”.

Gran Bretagna: continua il dibattito per il voto ai detenuti

www.west-info.eu
George McGeoch e Peter Chester, due detenuti inglesi, hanno fatto ricorso alla Corte Suprema di Sua Maestà per essere riammessi all'elettorato attivo. Chiedono insomma di avere il diritto al voto anche dietro le sbarre. Un caso che infiamma in questi giorni il dibattito politico in Inghilterra. Dove la legge prevede che con l’ingresso in carcere si perde automaticamente il diritto al voto fin quando la pena non viene espiata. 

Giusto o sbagliato? E ancora quanto previsto dall'ordinamento inglese è la prassi o un’eccezione in Europa? Partiamo dal fatto che nel Vecchio Continente, negare la partecipazione alle consultazioni elettorali come pena accessoria alla condanna è un elemento comune, sia pure in una varietà di forme, a molti ordinamenti. In proposito, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo si è espressa più volte contro un’automatica perdita del diritto di voto. 

Sulla base di un’interpretazione più marcata del diritto alle libere elezioni previsto dall’art. 3 del Primo protocollo alla CEDU. Su 43 membri del Consiglio d’Europa, oggetti di un recente studio comparato sulle restrizioni elettorali per i prigionieri, è possibile fare una distinzione in tre gruppi. Il primo, che non prevede restrizioni alla partecipazione dei detenuti alle elezioni, è composto da 19 nazioni: Albania, Azerbaijan, Croazia, Cipro, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Macedonia, Moldavia, Montenegro, Repubblica Ceca, Serbia, Slovenia, Svezia, Svizzera e Ucraina. All’opposto un secondo gruppo di 7 paesi: Armenia, Bulgaria, Estonia, Georgia, Ungheria, Russia e, appunto, il Regno Unito, privano automaticamente del diritto a votare tutti i prigionieri condannati a scontare pene detentive. 

I restanti 16 stati: Austria, Belgio, Bosnia-Erzegovina, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lussemburgo, Malta, Monaco, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Romania, San Marino, Slovacchia e Turchia hanno adottato un approccio intermedio. In questi casi, infatti, la privazione del diritto elettorale dipende dal tipo di reato e/o dalla durata della pena detentiva. Nel nostro paese, ad esempio, l’art. 28 del Codice Penale sull'nterdizione dai pubblici uffici precisa che il condannato può essere privato “del diritto di elettorato o di eleggibilità in qualsiasi comizio elettorale, e di ogni altro diritto politico”. Una mappa abbastanza complessa, insomma, oltre che variegata. 

La Cedu, però, ha dato un chiaro segnale verso la direzione da seguire. Anche considerando che il diritto di voto è la manifestazione più visibile della partecipazione alla cosa pubblica e allo stesso tempo costituisce uno dei cardini sia al processo di rieducazione del detenuto, sia al suo pieno sviluppo come persona.

L’UE condamne les récents recours à la peine de mort à Gaza

EU NEIGHBOURHOOD INFO CENTRE
Les missions de l’UE à Jérusalem et à Ramallah ont publié une déclaration condamnant les peines de morts prononcées à Gaza au cours de ces dernières semaines, rappelant la «ferme opposition de l’UE, quelles que soient les circonstances, au recours à la peine capitale ». 
Considérée comme une sanction « cruelle et inhumaine », la peine de mort « n’exerce aucun effet dissuasif sur la criminalité » et représente « une négation inacceptable de la dignité et de l'intégrité humaines ».

L’UE est en faveur de l’abolition de la peine de mort, qu’elle considère comme « essentielle pour la protection de la dignité humaine, de même que pour le développement progressif des droits de l’homme ». L’UE a alors appelé les autorités de facto de la Bande de Gaza à renoncer à l’exécution de prisonniers et à se conformer au moratoire de facto sur les exécutions instauré par l’Autorité palestinienne.

venerdì 28 giugno 2013

Norwegian Refugee Council - Alarming conditions for Syrian refugees in Iraq

Norwegian Refugee Council
The International Community is failing to aid the Syrian refugees in the Kurdish region of Iraq, according to a new report from NRC. “The situation in Domiz refugee camp is alarming and deteriorating day by day”, says Acting Secretary General Toril Brekke.

More than 160.000 Syrian refugees are currently seeking safety in Iraq, most of them in the Kurdish region. Domiz refugee camp, the only existing camp for Syrian refugees, is severely overcrowded. Infrastructure, including facilities for water and sanitation, are alarmingly insufficient, and ditches full of dirty water throughout the camp increases the risk of water borne diseases. In addition to the people in the camps, some 90.000 refugees are scattered in and around urban centres in the Kurdish region of Iraq.


The refugees in the urban areas are receiving very limited support. The most vulnerable of them have no resources and no employment. Some of these refugees have occupied unfinished construction sites, and turned to begging and prostitution to survive. This does not only put them in danger, but also contributes to the development of negative perceptions and attitudes from the host communities and local authorities.
“The Kurdish authorities have not received sufficient International support; neither financially, nor in the form of technical expertise to handle the refugee crisis. The assistance should be stepped up immediately to avoid a humanitarian crisis”, says Brekke.

In no other country bordering Syria has the appeal for financial support been equally underfunded. Only 14 per cent of the money needed for the humanitarian response in Iraq this year has materialized.

“The Syrian refugees have the same right to vital assistance, wherever they flee to seek protection. However, it has unfortunately due to various political and economic reasons been very difficult to attract funding to the projects in Iraq, and the refugees are the ones paying the price”, says Brekke.

Until recently, 3,000 refugees arrived every week and the total number of refugees was expected to double by the end of this year. However, the informal border crossings in the Kurdish region were closed one month ago.

“It is vital that the border is re-opened, so that people displaced by the civil war in Syria can seek safety elsewhere”, says Brekke.

“The Kurdish community and authorities have been among the most welcoming in the region, offering Syrian refugees residency and considerable support, but they do not have the capacity to handle the crisis alone”, she adds.

Tiril Skarstein

Israele - Dilaga nel carcere di Saharonim la protesta degli immigrati africani

Nena News
Almeno 300 i detenuti in sciopero della fame. Protestano contro la legge che introduce il reato di immigrazione. In un anno arrestati oltre 2.400 immigrati.

Gerusalemme,  Sivan Weitzman dell'amministrazione penitenziaria israeliana ridimensiona la portata della protesta dei migranti nel centro di detenzione di Saharonim. «Per ora non siamo di fronte a uno sciopero della fame dichiarato, i detenuti hanno solo mandato indietro per due giorni i loro pasti», dice gettando acqua sul fuoco. Non è servito. A Saharonim la protesta si fa più intesa con il passare dei giorni. E in ogni caso, si tratta di uno sciopero della fame a tutti gli effetti, in linea con le iniziative portate avanti nel carcere all'inizio di maggio e nei mesi precedenti, non poche volte avviate da donne che si oppongono alla deportazione nel Sinai egiziano dove, dicono, sarebbero esposte a sequestri di persona e a violenze sessuali. 

La comunità eritrea a Tel Aviv fa sapere che il rifiuto del cibo da parte di almeno 300 detenuti è iniziato domenica in 3-4 blocchi della prigione e che andrà avanti per giorni. I prigionieri chiedono l'annullamento di quello che si configura come un reato di immigrazione a tutti gli effetti per l'inasprimento delle leggi che dalla scorsa estate prevedono il carcere (tre anni e più) per le persone che entrano illegalmente nel Paese.

Saharonim è in funzione già dal 2007, quando accoglieva i migranti in «transito», che dopo una veloce registrazione, nella maggior parte dei casi venivano rilasciati. È stata riabilitata in vista dell'entrata i vigore dei provvedimenti del governo volti a fermare l'immigrazione degli africani dal Sinai e per rispedire a casa quelli già presenti in Israele, peraltro bersaglio di attacchi e proteste da parte di migliaia di israeliani nei quartieri periferici di Tel Aviv. In un anno a Saharonim i detenuti sono passati da poche centinaia agli oltre 2.400. Confini sbarrati anche per i richiedenti asilo. Si contano sulle dita di una mano le richieste accettate da Israele, sebbene a presentarle siano stati sudanesi, eritrei e altri africani che nella maggior parte dei casi scappano da guerre e massacri.

Hotline for Migrant Workers, l'associazione che assiste i migranti, ieri ha esortato le autorità carcerarie a permettere ai giornalisti e a medici esterni di poter incontrare in carcere i richiedenti asilo. Non tutto avviene alla luce del sole. A febbraio Haaretz pubblicò la notizia dell'espatrio forzato e segreto di oltre mille sudanesi, in violazione della Convenzione del 1951, sottoscritta anche da Israele, che proibisce il rimpatrio di rifugiati verso un Paese dove rischiano persecuzioni. Il governo replicò che quei sudanesi avevano accettato volontariamente l'espatrio. Una versione che deve aver insospettito il Procutore dello Stato, Yehuda Weinstein, che proprio ieri ha affermato che queste dichiarazioni di espatrio volontario devono essere filmate e avvenire in presenza di un traduttore.
di Michele Giorgio

Cina: detenuti al lavoro forzato fabbricano cuffie auricolari utilizzate da compagnie aeree

Il Punto
Qantas, Electrolux e altre aziende internazionali avrebbero acquistato prodotti, tra cui le cuffie che vengono distribuite sugli aerei, realizzati in una prigione cinese dove i detenuti vengono regolarmente picchiati e tenuti in isolamento se non rispettavano gli obiettivi fissati.
La notizia arriva da un’inchiesta del giornale australiano Financial Review. La denuncia proviene da Danny Cancian, un neozelandese liberato lo scorso anno dalla prigione di Dongguan, nella provincia meridionale cinese del Guangdong. 

L’uomo, che ha trascorso quattro anni in carcere per omicidio colposo dopo una rissa in un ristorante, ha raccontato di aver assemblato cuffie usa e getta per le compagnie Qantas, British Airways e Emirates. Aggiungendo anche che il mancato rispetto degli obiettivi di produzione, a Dongguan significa “essere portati fuori e colpiti con il taser”: un’arma che tramite una scossa elettrica fa contrarre i muscoli del soggetto colpito. 

L’ex detenuto Cancian, inoltre, ha affermato di aver lavorato anche alla produzione di piccoli componenti per apparecchi elettrici prodotti da aziende locali, tra cui una che rifornisce il gigante svedese Electrolux (elettrodomestici) e la società Emerson Fortute 500 (elettronica consumer e industriale). Tutte le aziende contattate hanno negato di essere al corrente dello sfruttamento del lavoro dei detenuti. Anche se Qantas, Electrolux ed Emerson, fanno sapere di aver avviato delle indagini interne. British Airways ha invece affermato che tutti i suoi fornitori “sono sottoposti a un rigoroso processo di controllo prima della nomina”. 

Anche Emirates si è rifiutata di fornire il nome del suo fornitore, aggiungendo semplicemente che le sue cuffie “sono fatte da un’azienda leader del settore, che fornisce più di 200 compagnie aeree”. La compagnia aerea australiana, viceversa, non si è potuta sottrarre dal fornire maggiori dettagli. Dopo aver spiegato di rifornirsi delle cuffie usa e getta da una società di nome Airphonics, che a sua volta avrebbe subappaltato il lavoro alla Dongguan City Joystar Electronic Company, che faceva produrre le cuffie ai carcerati della prigione di Dongguan. In seguito alla pubblicazione dell’inchiesta, la Qantas ha infine annunciato di aver sospeso i rapporti con la Airphonicse, dicendosi molto preoccupata per le accuse che le sono state mosse. Aggiungendo, però, di essere totalmente estranea alla vicenda. Dopo Danny Cancian, anche un altro ex detenuto del carcere di Dongguan ha confermato di aver prodotto le cuffie per le compagnie aeree internazionali: “Li ho fatti per l’australiana Qantas, quella con il canguro come logo, ma le abbiamo realizzate anche per Emirates, British Airways e molte altre”. 

Entrambi i prigionieri hanno inoltre raccontato, che le cuffie venivano collocate in scatoloni con sopra riportati direttamente i nomi delle società di destinazione, accatastati in un magazzino e pronti per lasciare il carcere. “È però probabile - hanno aggiunto i due - che davvero le compagnie aeree non sapessero dove le cuffie venivano prodotte e, soprattutto, a che prezzo”. 

Cancian, che dopo il suo rilascio è diventato un avvocato per i diritti dei detenuti, ha denunciato che i prigionieri nelle carceri cinesi lavorano per oltre 70 ore la settimana e sono pagati appena 8 yuan al mese (1,40 dollari), poco più del prezzo di una saponetta all’interno del carcere. “Durante la detenzione, ci dicevano che non era vero che ci trattavano come schiavi, perché eravamo regolarmente retribuiti”, ha aggiunto Cancian. I tentativi da parte del Financial Review di intervistare la direzione del carcere di Dongguan, finora, non hanno avuto successo. Le autorità cinesi non hanno mai negato di ricorrere al lavoro dei detenuti, al punto da averlo reso obbligatorio durante l’espiazione della pena.

Carcere - Otto detenuti stranieri su dieci non conoscono i loro diritti alla salute

Adnkronos
Otto detenuti stranieri su dieci non conoscono, sostanzialmente, i loro diritti di salute in carcere. Ma anche gli italiani hanno qualche difficoltà, considerando che l'intera popolazione carceraria ha informazioni sulla riforma della sanità penitenziaria solo nel 60% dei casi.
Mentre meno di un terzo degli operatori di polizia penitenziaria conosce i contenuti delle novità in tema di assistenza sanitaria in carcere. Sono alcuni risultati, presentati questa mattina a Roma, del progetto 'Salute senza barrierè, realizzato dall'Istituto nazionale per Salute migrazione e Povertà e dal ministero della Salute su proposta del ministero degli Interni.

Un'iniziativa nata proprio per promuovere tra i detenuti stranieri la consapevolezza del diritto alla tutela della salute e la conoscenza del funzionamento dei servizi sanitari in carcere. Il progetto - partito il 30 maggio 2012 e in chiusura il 29 giugno - ha interessato 12 carceri italiane a Nord, Centro e Sud e ha coinvolto anche gli operatori sanitari e socio sanitari, gli agenti penitenziari e la dirigenza con diversi tipi di intervento: dai seminari informativi ai corsi di formazione a distanza fino ad una ricerca.

"Il progetto - ha spiegato all'Adnkronos Salute Gianfranco Costanzo dell'Inmp, coordinatore del progetto - ci ha permesso di verificare lo stato di attuazione della riforma sanitaria delle carceri e fare informazione ai detenuti, formazione degli operatori sanitari e coinvolgere i direttori dei carceri e i comandanti della polizia penitenziaria. È stato possibile anche svolgere una ricerca sulla percezione della riforma da parte dei diverse componenti della realtà carceraria".

I risultati hanno dimostrato "una bassa percezione dei propri diritti da parte dei detenuti stranieri", continua Costanzo. "Sono emerse le necessità di poter meglio coordinare il mondo sanitario che ha in carico la salute dei detenuti (e che oggi sta nelle Asl, in attuazione della riforma che ha trasferito le competenze dal Dap al Ssn) con le necessità che sono proprie del sistema detentivo, e quindi della sicurezza della società e delle persone. Serve far combaciare insieme il requisito di sicurezza con quello di tutela della salute, un traguardo a cui ancora non siamo arrivati".

Il progetto si è basato su 3 pilastri: informazione, realizzata attraverso 12 seminari in istituti di pena (Milano Opera, Torino Lorusso e Cutugno, Bologna, Padova, Firenze Sollicciano, Roma Rebibbia, Teramo, Santa Maria Capua Vetere, Catanzaro, Bari, Cagliari, Palermo) con un totale di 1.500 partecipanti; formazione, offerta al personale sanitario e socio-sanitario attraverso 4 percorsi di formazione a distanza con un approccio transculturale.

In questo caso sono stati completati 1202 percorsi formativi, altri 871 sono in fase di completamento, per un totale di circa 2000 percorsi formativi fruiti. Inoltre, sono rilasciati 212 attestati di partecipazione ai seminari informativi presso gli Istituti di pena.

La ricerca, si è basata su 4 questionari strutturati (per detenuti, polizia penitenziaria, direzione carceraria e staff sanitario; quelli destinati ai detenuti sono stati tradotti anche in arabo, albanese, inglese e francese). Una volta compilati e raccolti - 1.230, di cui 833 detenuti, 169 agenti, 208 sanitari, 12 direttori, 8 altri operatori - sono stati quindi analizzati dal gruppo di ricerca dell'Università di Torino, Dipartimento di Giurisprudenza. I risultati hanno indicato un'incidenza significativa delle condizioni strutturali (sia delle celle che spazi comuni ) sulla salute di detenuti e agenti di polizia penitenziaria.

Il sovraffollamento, in particolare, viene considerato tra i principali fattori di trasmissione di rischio per la salute in carcere, per la trasmissione di malattie infettive e responsabile dei maggiori problemi nell'erogazione del servizio sanitario. Diffuso, poi, il malessere personale sia tra detenuti che tra gli agenti. Per quanto riguarda i detenuti il principale sintomo di malessere è legato all'isolamento affettivo e relazionale. I periodi di malattia/infortunio degli operatori di polizia penitenziaria costituiscono un altro indicatore del malessere generalizzato: quasi la metà degli intervistati dichiara di essere stato malato/infortunato fino a 3 settimane negli ultimi 6 mesi. Tutti lamentano carenza di formazione e informazione sanitaria: uno straniero su cinque chiede formazione sull'igiene e cura del proprio corpo.

Carcere - Il ministro Cancellieri insiste sull'amnistia insieme alle misure strutturali per essere in linea con l'Europa

Il Sole 24 Ore
Il governo rilancia le misure alternative al carcere, in linea con l’Europa. Il decreto-carceri varato ieri dovrebbe alleggerire le patrie galere, entro due anni, di 6mila persone, destinate non alla libertà ma a misure alternative, appunto, come detenzione domiciliare o l’affidamento in prova ai servizi sociali.
Fa cadere le preclusioni nei confronti dei recidivi introdotte dalla ex Cirielli nel 2005, rilancia il lavoro, dà impulso all’ampliamento degli istituti penitenziari e punta a recuperare, nel 2016, 10mila nuovi posti letto. Misure strutturali, a cui se ne affiancheranno altre durante l’iter di conversione in legge del decreto (depenalizzazione dei reati minori, particolare tenuità del fatto) comprese quelle, già all’esame dell’aula della Camera, contenute nel ddl sulla messa alla prova e la reclusione domiciliare come pena principale per reati puniti fino a 6 anni. Un’offensiva che non si ricordava da tempo, a 360 gradi. 

E tuttavia non sufficiente a far rientrare un’emergenza cronica, colpevolmente trascinata negli ultimi cinque anni. “Sono ancora convinta che sarebbe necessaria un’amnistia - dice il guardasigilli Annamaria Cancellieri. Darebbe un grande aiuto. L’ultima ha liberato 15-20mila posti e un’uscita dal carcere di queste dimensioni ci consentirebbe di mettere in campo soluzioni più durature, che sono quelle che servono. 

Sì - ribadisce - resto convinta che l’amnistia serva, anche se noi faremo di tutto per riconquistare la nostra dignità in Europa”. Prima di lei il premier Enrico Letta aveva detto la stessa cosa: “L’Italia non può continuare ad essere accusata dagli organismi internazionali per l’incapacità di gestire dignitosamente la vita dei detenuti”. In carcere oggi i posti regolamentari sono 47mila, ma il numero è bugiardo, perché comprende posti letto tali solo sulla carta, visto che tanti padiglioni sono chiusi per ristrutturazione e in molti casi i detenuti vengono accampati in locali destinati ad altro, come la socialità. Perciò gli “esuberi” effettivi sono calcolati in 30mila. 

“Del resto - dice Cancellieri - è dal 1990 che l’Europa ci riprende: siamo tutti capaci di mettere i detenuti negli scantinati o in letti a castello di cinque piani, o a farli mangiare sul proprio letto accanto al bagno. Ma non sono posti che reggono davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo!”. Detto questo, il decreto non “libera” affatto delinquenti pericolosi, come puntualmente sostengono Lega, Fratelli d’Italia e in parte il M5S, ma anzi garantisce la “certezza della pena”, se per pena si intende un percorso sensato destinato al reinserimento sociale e ad abbattere la recidiva. 

Un percorso di misure diverse, dal carcere alla detenzione domiciliare, dai permessi premio al lavoro all’esterno: tutte modalità previste dalla legge per scontare la pena. Il pacchetto fa sì che in carcere vadano i condannati pericolosi, responsabili di reati di particolare gravità. Le misure previste incidono strutturalmente sui flussi carcerari, in entrata e in uscita, e potenziano l’offerta trattamentale ai detenuti meno pericolosi, che sono la maggior parte. 

Perciò sono stati cancellati alcuni automatismi e presunzioni di pericolosità che hanno portato in carcere molte persone, indiscriminatamente, impedendo loro l’accesso alle misure alternative. Con il passaggio in giudicato della sentenza, se la pena non supera i 2 anni (4 per gli over 70, donne in gravidanza, ammalati) il Pm potrà sospendere l’esecuzione della pena dando al condannato la possibilità di chiedere, dalla libertà, una misura alternativa.

 Anche i recidivi per piccoli reati rientrano tra i beneficiari delle misure alternative. Deciderà il Tribunale di sorveglianza. Viene poi ampliata la possibilità per il giudice di ricorrere, al momento della condanna, a una misura alternativa, come il lavoro di pubblica utilità, anche per i tossicodipendenti e per reati non legati allo spaccio. Infine si estende la possibilità di accedere a permessi premio per i recidivi e di concedere il lavoro all’esterno anche se non retribuito.

di Donatella Stasio

giovedì 27 giugno 2013

Nigeria - Pena di morte - Chiesa Cattolica: netta condanna alla ripresa delle esecuzioni

MISNA
La ripresa delle esecuzioni capitali costituisce “un ritorno ai giorni più bui delle violazioni dei diritti umani in Nigeria”: lo dice alla MISNA monsignor Emmanuel Badejo, il vescovo di Oyo, annunciando un’imminente nota della Conferenza episcopale sulla fine di una moratoria durata sette anni.
Monsignor Emmanuel Badejo, il vescovo di Oyo

A Benin City, la capitale dello Stato meridionale di Edo, lunedì sono state eseguite quattro condanne a morte. La massima pena nei confronti dei detenuti era stata comminata nel 1997, due anni prima della fine del regime militare e dell’inizio di un’esperienza liberal-democratica. Con un’ordinanza emessa il 16 giugno scorso, la ripresa delle esecuzioni era stata autorizzata dal presidente Goodluck Jonathan.

Secondo monsignor Badejo, già portavoce della Conferenza episcopale, la Chiesa nigeriana sta preparando un documento nel quale esprime una condanna netta. “La vita è il bene più prezioso – sottolinea il vescovo – perché gli uomini sono stati creati a immagine e somiglianza di Dio e a tutti deve essere data una possibilità di ricominciare”. Monsignor Badejo, del resto, è convinto che “la ripresa delle esecuzioni capitali rischia di aggravare una cultura di violenza in tempi già difficili per la Nigeria”. Il riferimento è anche alla crisi nel nord del paese, con gli attentati del gruppo armato Boko Haram e una repressione delle Forze armate che a volte non risparmia gli innocenti. Secondo il vescovo di Oyo, “Jonathan potrebbe essere stato spinto a firmare l’ordinanza da un senso di frustrazione e dall’idea di dare all’opinione pubblica un’immagine di determinazione e di forza”.

Di certo la ripresa delle esecuzioni capitali è stata condannata dal Consiglio dell’Onu per i diritti umani, da diversi governi e da molte organizzazioni della società civile, sia nigeriane che straniere. E la campagna per una nuova moratoria ha già un obiettivo, concreto e immediato: salvare un quinto detenuto che in questi giorni, sempre a Benin City, rischia la vita.

Usa: in Texas eseguita 500ma condanna a morte dal 1976

AGI
Washington - In Texas e' stata eseguita la 500ma condanna a morte dalla reintroduzione della pena capitale, nel 1976, un record per gli Stati Uniti dove il totale dei giustiziati e' di 1.336. 

La 52enne Kimberly McCarthy, un'ex tossicodipendente giudicata colpevole del brutale omicidio di una professoressa in pensione nel 1997, ha ricevuto un'iniezione letale nel penitenziario di Huntsville.

Corée du Nord : lourdes menaces pour qui quitte le pays sans autorisation

Amnesty International
Soldat nord Coréen scrutant la frontière ©
KIM JAE-HWAN/AFP/Getty Images
Mercredi 19 juin 2013, l’agence de presse de l’État a diffusé une déclaration émanant du ministère nord-coréen de la Sécurité populaire, promettant des « mesures considérables afin de faire disparaître les ordures méprisables » qui quittent le pays sans permission – ce qui constitue un acte de trahison du point de vue du gouvernement.

Les autorités durcissent le ton en affirmant à propos des habitants quittant sans autorisation le pays que "ces sordides ordures humaines ne pourront plus jamais regarder en l’air pour voir le ciel, ni trouver un seul lopin de terre où être enterrées après leur mort".

Amnesty International rappelle que nul ne doit être arrêté, poursuivi ni puni de quelque manière que ce soit pour avoir simplement exercé son droit à la liberté de mouvement en quittant la Corée du Nord.

Les déclarations du type de celle du ministère pour la Sécurité populaire montrent que le gouvernement nord-coréen est bien déterminé à poursuivre sa politique de châtiments sévères contre toute personne interceptée en train de quitter le pays sans permission. Cela expose les personnes franchissant la frontière à un risque de détention arbitraire, de torture et d’autres formes de mauvais traitements, voire à la mort.

Le récent communiqué de la Corée du Nord concernant sa position relative aux personnes franchissant les frontières survient plusieurs semaines après que neuf adolescents nord-coréens aient été renvoyés de force dans ce pays après avoir été arrêtés au Laos.

Ces jeunes gens, âgés de 14 à 19 ans, ont été appréhendés au Laos pour avoir franchi illégalement la frontière chinoise et auraient été renvoyés de force à Pyongyang, la capitale de la Corée du Nord, le 28 mai, accompagnés de représentants des autorités nord-coréennes.

Les Nord-Coréens qui souhaitent se rendre à l’étranger doivent obtenir une autorisation de l’État. En outre, depuis les récentes opérations de répression, il est de plus en plus difficile de franchir la frontière avec la Chine et de fuir vers un pays tiers comme le Laos ou la Thaïlande.

En effet, les autorités chinoises considèrent tous les Nord-Coréens sans papiers comme des migrants économiques et les renvoient de force dans leur pays lorsqu’elles les appréhendent. Les autorités laotiennes arrêtent généralement les Nord-Coréens sans papiers qu’elles trouvent sur leur territoire, et jusqu’à il y a peu permettaient à ceux-ci de se rendre en Corée du Sud.

Selon des chiffres fournis par le gouvernement sud-coréen, le nombre de Nord-Coréens ayant atteint la Corée du Sud l’an dernier était de 1 509, contre 2 706 en 2011.

Siria - Gli sfollati accusano il mondo ci ha dimenticati

Corriere della Sera
Ogni giorno che passa, in Siria, la morte e la distruzione proseguono il loro cammino. Si uccide e si tortura in nome di Assad, si uccide e si tortura in nome di Allah.

Il numero delle persone fuggite dal conflitto è salito a 6 milioni. Dei siriani che hanno trovato un precario riparo oltreconfine, il mondo almeno saltuariamente s’interessa.

La maggior parte delle persone costrette a lasciare città e villaggi si trova tuttora in Siria: quattro milioni e mezzo. La loro agonia, di uomini donne e bambini braccati, inseguiti e isolati dalla guerra, è ignorata.

Amnesty International ha visitato un campo profughi nei pressi di Atmeh, vicino al confine con la Turchia, trovandovi 21.000 persone in condizioni inumane:
“Abbiamo passato tutto l’inverno qui con niente, entrare in Turchia era impossibile. Niente cibo, niente coperte, non si riusciva a tenere le tende isolate dalla pioggia. I bambini si ammalavano continuamente”.
È un miracolo che Umm Husan, madre di cinque figli, sia ancora viva per raccontarlo.

L’amore per la Siria spiega in parte come abbia potuto resistere:
“Non voglio lasciare il mio paese e diventare una rifugiata. Avevamo un paese meraviglioso e tanta terra che ci consentiva di vivere bene. Anche quando i bombardamenti sono aumentati e i nostri vicini sono fuggiti, siamo rimasti per un po’. Dopo, è stato impossibile. Fossi stata sola, avrei preferito rimanere e morire nella mia casa. Ma dovevo pensare a salvare i miei figli”.
Mentre il numero delle vittime del conflitto armato siriano sta per arrivare a 100.000 e non c’è alcun segnale della fine dei combattimenti, per molti sfollati tornare a casa è un sogno irrealizzabile.

Qualcuno ci ha provato. Come Abu Khaled, padre di nove figli, incontrato sempre nel campo di Atmeh:
“I bambini sono traumatizzati dall’orrore che hanno visto tornando a casa… ogni giorno bombardamenti, sempre bombardamenti, i corpi dei vicini fatti a pezzi, i villaggi distrutti. Avrebbero bisogno di cure specialistiche, ma qua non c’è nulla del genere. Manca tutto e di queste condizioni miserabili sono loro a soffrire maggiormente. Io sono loro padre, sono quello che dovrebbe proteggerli e occuparsi di loro ma non riesco a fare né l’una né l’altra cosa. Quello che posso fare è coccolarli, abbracciarli quando mi chiedono qualcosa. A volte mi sento così frustrato che mi allontano da loro pur di non vederli così tristi. Prego Dio che qualcuno ci aiuti”.
Il 7 giugno, le agenzie delle Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie internazionali hanno lanciato il più grande appello umanitario per fornire aiuti di emergenza agli sfollati siriani. Qualcosa si muove, ma non si sa quando tutti i fondi sollecitati saranno messi a disposizione dalla comunità internazionale.
Riccardo Noury

Detenuto romeno suicida in carcere Terni - Si sarebbe impiccato con cintura accappatoio alle sbarre della cella

Ansa
TERNI - Un detenuto romeno di 32 anni è si é ucciso nel tardo pomeriggio di ieri all'interno della propria cella, nella sezione ordinaria nel carcere di Terni (nella foto). Secondo quanto riferito dalla polizia penitenziaria l'uomo, detenuto in una cella singola, si sarebbe impiccato con la cintura dell'accappatoio alle sbarre della stessa cella. Il ritrovamento del corpo poco dopo le 19, da parte di un agente.

L'uomo avrebbe finito di scontare la pena nell'estate 2014.

Sono 27 i suicidi dietro le sbarre del 2013

I tg “dimenticano” le crisi umanitarie - Solo il 4% dei servizi.

La Stampa
Dalle guerre in Africa alla malnutrizione, i servizi sono ulteriormente diminuiti - L’allarme di Medici senza frontiere: «Solo il 4% finisce nei notiziari»
«Le crisi umanitarie stanno inesorabilmente scomparendo dai telegiornali italiani, nonostante il desiderio del pubblico di essere più informato». È questo l’allarme lanciato dall’Ong Medici Senza Frontiere nel nono rapporto sulle “Crisi umanitarie dimenticate dai media nel 2012”, nel quale si evidenzia come, lo scorso anno, «i telegiornali abbiano dedicato solo il 4% dei servizi a contesti di crisi, conflitti, emergenze umanitarie e sanitarie».

Il rapporto, presentato oggi alla sede della Stampa Estera a Roma e realizzato con il supporto dell’Osservatorio di Pavia, prende in esame la copertura delle crisi umanitarie nei principali notiziari (prima serata) della tv generalista (3 della TV pubblica e 4 della TV privata) ed evidenzia alcuni dati chiave: in un anno i tg della sera hanno dedicato solo 7 servizi all’Aids, 3 alla crisi nella Repubblica Democratica del Congo, 4 al Niger piegato dalla malnutrizione, 2 alla popolazione ancora martoriata di Haiti. E non è andata meglio con Iraq (12 notizie), Sudan e Sud Sudan (17 notizie).

mercoledì 26 giugno 2013

Monza: muore in carcere a 22 anni per “arresto cardiocircolatorio”, la mamma chiede verità

Ristretti Orizzonti
Francesco Smeragliuolo aveva solamente 22 anni ed era stato arrestato il 1° maggio scorso per una rapina. È morto nel carcere di Monza sabato 8 giugno, ma la notizia ci è arrivata solo oggi, grazie alla denuncia della madre del giovane, Giovanna D’Aiello. 

La signora D’Aiello chiede con forza di conoscere la verità sulla morte del figlio: “Sono sicura che non è morto di morte naturale, i suoi organi erano sani. Dopo averlo visto a colloquio in carcere, il lunedì prima della sua morte (3 giugno, ndr) avevo fatto presente che mio figlio stava male. Ha perso sedici chili in un mese. Avevo chiesto lo mettessero in una struttura adeguata, che lo aiutassero. Lui non aveva problemi di salute. Se aveva sbagliato, doveva rispondere per quello che aveva fatto, ma non è giusto che sia morto così. Voglio sapere cosa è successo, voglio la verità”.

“Io mi rivolgerò a tutti, non mi fermo qui - ha proseguito - perché la morte di Francesco deve servire da monito per tanti ragazzi. Avrei voluto che morisse tenendo la sua mano nella mia. E invece è andata in questo modo atroce”.

I famigliari escludono anche l’ipotesi del suicidio. In una lettera recente alla fidanzata Francesco pensava “ai tanti progetti insieme”.

Su disposizione del magistrato è stata effettuata l’autopsia, che (per quanto è dato sapere) ha escluso che la morte di Francesco sia avvenuta per cause violente o per intossicazione da farmaci o droghe. Il responso è stato “decesso causato da arresto cardiocircolatorio”.

Nel solo mese di giugno sono già 11 i detenuti morti: 4 per suicidio, 3 per malattia e 4 per cause “da accertare”. Da inizio anno i detenuti suicidi sono 27 e il totale dei decessi in carcere è di 85. (Dati dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere).

Da sottolineare che in NESSUNO di questi casi la comunicazione è arrivata direttamente dall’Amministrazione Penitenziaria, che pure sarebbe tenuta a dare informazione sulle morti in carcere, come previsto dalla Circolare GDAP-0397498-2011 “Sala Situazioni. Modello Organizzativo e nomina Responsabile”, all’Articolo 5, Comma 6, che recita: Per garantire una trasparente e corretta informazione dei fenomeni inseriti nell’applicativo degli “eventi critici” le principali notizie d’interesse saranno, inoltre trasmesse al Direttore dell’Ufficio Stampa e Relazioni esterne per le attività di informazione e comunicazione agli organi di stampa e la eventuale diffusione mediante i canali di comunicazione di cui dispone il DAP (rivista istituzionale, newsletter siti istituzionali).

A noi non risulta che questa disposizione sia rispettata e le notizie delle morti in carcere si basano di solito sulle segnalazioni che arrivano dai parenti dei detenuti, dai volontari, dai sindacati della polizia penitenziaria… partendo da queste segnalazioni inizia un lavoro di “ricostruzione” giornalistica, con telefonate alle Direzioni degli Istituti di Pena, agli Ospedali (nel caso il detenuto sia stato trasportato ancora in vita), etc., etc.

Ciad, condizioni umanitarie inaccettabili per i rifugiati e i rimpatriati

Medici Senza Frontiere
Decine di migliaia di rifugiati e rimpatriati in Ciad, fuggiti dai violenti scontri nel vicino Darfur dall’inizio di gennaio, hanno ancora disperato bisogno di acqua pulita, ripari adeguati e accesso all’assistenza sanitaria
Prima dell’arrivo di Medici Senza Frontiere (MSF), agli inizi di aprile, Tissi non aveva nessun ospedale operativo. MSF ora gestisce un centro di salute a Tissi, un presidio sanitario a Dukkum Um e una clinica mobile a Gadar e Ab Gadam. A oggi, le équipe di MSF hanno visitato 4.700 pazienti, inclusi i rifugiati, i rimpatriati e la popolazione locale in tutte e tre le sedi, e più di 200 bambini sono stati curati per malnutrizione negli ambulatoriali e nei centri nutrizionali terapeutici. Da quando MSF ha iniziato a supportare l’ospedale di Tissi, il 24% di tutti i ricoveri è legato alla violenza.

“Siamo preoccupati per le persone che non sono in grado di raggiungere i campi nel Ciad e sono esposte alle violenze in corso o non hanno accesso all'assistenza umanitaria”, afferma Tom Roth, responsabile delle operazioni di MSF in Ciad.

MSF è preoccupata anche per il peggioramento delle condizioni di oltre 22.000 ciadiani che avevano trovato rifugio in Darfur, per sfuggire alle violenze in Ciad. Possono ricevere solo aiuti limitati. La maggior parte dei rimpatriati e rifugiati sono donne con un gran numero di giovani e bambini sotto i cinque anni, i quali sono particolarmente vulnerabili.

MSF ha aumentato la distribuzione di generi non alimentari, con una recente distribuzione di 2.500 kit ai rimpatriati in diversi luoghi e sta sostenendo direttamente il campo rifugiati Ab Gadam con la costruzione di 200 latrine, fornendo anche un servizio di trasporto di acqua. La situazione nel campo rimane critica, con 10 litri di acqua distribuiti ogni giorno per ogni persona, la metà della quantità minima raccomandata, universalmente riconosciuta per coprire le esigenze di base.

“Con l’inizio della stagione delle piogge, siamo preoccupati che lo scarso accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari possa far scoppiare un’epidemia, come il colera”, afferma Jason Mills, capo missione di MSF in Ciad. “Stiamo anche assistendo a crescenti livelli di malnutrizione e temiamo che la limitata assistenza alimentare ai rimpatriati possa aggravare la situazione.”

In seguito al trasferimento dei rifugiati da Tissi a Ab Gadam, a 30 chilometri di distanza, MSF ha diviso la sua équipe per rispondere ai bisogni urgenti sul campo, e rimarrà nella zona per fornire interventi di emergenza fino alla fine della stagione delle piogge, nel mese di novembre.

Rapporto Amnesty International; troppe vittime della tortura… anche in Italia

L'Unità
Nel 2012 secondo il Rapporto Annuale 2013 di Amnesty International, 112 Paesi hanno torturato i loro cittadini. Inflitto un'acuta sofferenza fisica o/e psichica, a colpi di percosse fisiche o raffinate tecniche di distruzione, a nemici presunti o reali nel nome di un fine superiore. 

Punire, intimidire, estorcere informazioni, confessare. Non esistono nel mondo zone libere dalla tortura e le agghiaccianti immagini di Abu Ghraib avevano rivelato al mondo che il problema non è limitato alle dittature militari o ai regimi autoritari, né appartiene al passato, ma è una pratica odierna, diffusa anche negli Stati più democratici. 

Come definita in sede Onu, la tortura si distingue da altri maltrattamenti crudeli, degradanti e inumani, in quanto è commessa da un pubblico ufficiale (o simile): attiene all'esercizio del potere punitivo dello Stato. Si esercita sul corpo. Degrada la persona. Non a caso il concetto di dignità umana è stato una pietra miliare della storia relativamente recente per l'abolizione della tortura a livello internazionale. 

Nel 1984 viene adottata dall'Assemblea delle Nazione Unite la Convenzione contro la tortura (ratificata da 151 Paesi), seguita nel 2002, dal Protocollo Opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura che prevede meccanismi di controllo nei luoghi di detenzione. (L'Italia lo ratifica solo lo scorso 24 ottobre 2012). Con la svolta della guerra al terrorismo internazionale sono sempre più diffusi i massacri e le sparizioni forzate, c'è una lenta globale erosione del diritto e la diffusione di pratiche che sono riconducibili alla tortura. 

In Italia - seppure il nostro Paese abbia ratificato nel 1998 la Convenzione delle Nazione Unite contro la tortura, che prevede l'obbligo giuridico di conformare i propri codici alle norme internazionali - la tortura non è reato. Lo scandalo, come illustra Patrizio Gonnella in "La tortura in Italia. Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica", uscito di recente per i tipi di DeriveApprodi, non è solo la mancata legislazione. Ma l'omertà di tutta la classe dirigente italiana, durata venticinque anni. Un vuoto di legge, che come denunciava Amnesty all'indomani della sentenza di Cassazione sui maltrattamenti e abusi di Bolzaneto lo scorso 14 giugno, ha permesso ai responsabili di rimanere impuniti (come per Asti e le altre violenze di Genova). Torturatori impuniti. Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi, Carlo Saturno e tanti altre vittime del potere. 

Perché non si tratta di incidenti isolati o di mele marce, ma qualcosa di organizzato e di sistemico, un miscuglio di consenso e di identificazione dello Stato con la sicurezza e le proprie forze dell'ordine: un "sistema" che produce tortura, la promuove, la protegge. Come sottolinea con forza il libro del presidente di Antigone, che ci fa entrare nel cuore buio dello Stato e dei suoi poteri, nella sub-cultura che la legittima. 

Le zone d'ombre dell'impunità sono ancora tante, come le potenziali vittime fra le persone in custodia dallo Stato; carceri italiane sovraffollate, Cie con stranieri reclusi, ma anche respingimenti, che rimandano migranti verso Paesi (la Libia in quel caso) dove il rischio di torture è concreto. 

La tortura quindi è sempre pronta a riproporsi. Per questo deve d'urgenza essere "nominata", come scrive Mauro Palma nella postfazione al libro di Gonnella, codificata, e introdotta come reato specifico nel codice penale nel Paese. E l'appello che rivolge, da un quarto di secolo, la società civile al legislatore italiano. Non a caso è la prima delle tre leggi di iniziative popolare lanciate con la campagna "Tre leggi per la Giustizia e i Diritti" promossa da Antigone, Unione Camere penali, decine di associazioni e sostenuta dai Radicali. 

Da domani, in 100 piazze di tutta Italia sarà possibile firmare per colmare un gravissimo ritardo. In molte città italiane, decine di banchetti di raccolta firme, eventi a tema, concerti, mentre a Roma si terrà una manifestazione concerto a piazza Farnese dalle 18 alle 23 e l'evento-spettacolo Di tintori e altri demoni, con la regia di Nube Sandoval e Bernardo Rey, presso il Teatro Palladium e un monologo di Erri De Luca La slegatura.

USA - Guantanamo - Continua lo sciopero della fame di 142 detenuti su 166 in un regime rigidissimo

Il Manifesto
INTERVISTA DAVID REMES, GIURISTA E LEGALE DEI DETENUTI. SCIOPERO DELLA FAME AL QUINTO MESE
«Guantanamo regime crudele, siamo al 2002»


«Con il muro di gomma della nuova brutale carcerazione il rischio è che nemmeno si saprebbe della morte o del suicidio di un detenuto»
«A Guantanamo lo sciopero della fame dei detenuti è al suo quinto mese. I secondini dalla fine di aprile hanno nuove direttive crudeli, impartite dalla nuova gestione del regime a Guantanamo del colonnello Bogdan, che puntano ad utilizzare ogni mezzo e misura coercitiva per spezzare lo sciopero della fame dei disperati di Guantanamo. Sono 142 su 166 detenuti che non intendono sospendere lo sciopero della fame sino alla loro liberazione. Le condizioni sono degradate al punto che possiamo sicuramente parlare di un ritorno alla Guantanamo del 2002. E inoltre nessun giornalista né alcun legale dei detenuti ha piu la possibilità di avere accesso al carcere».

È con questa agghiacciante denuncia del degrado delle condizioni dei prigionieri di Guantanamo che David Remes, giurista statunitense e avvocato di oltre dodici detenuti di Guantanamo descrive nell'incontro con il manifesto quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi e nel silenzio di gran parte dei media. 

Il Pentagono, questa settimana, ha ammesso ufficialmente che è salito a 44 il numero dei detenuti a nutrizione forzata («per motivi umanitari», viene aggiunto. «Rifiutando il cibo sappiamo bene il rischio di morte giorno dopo giorno. E la scelta che abbiamo fatto - ha raccontato Samir al Hasan Moqbel in una telefonata all'organizzazione di Londra Reprieve e pubblicata come editoriale del New York Times - Ma la situazione ora è disperata. Non esiste né speranza né fine alla nostra detenzione a Guantanamo. 

È la nostra scelta di fronte alla crudeltà ed alla sofferenza. Spero soltanto che le sofferenze che subiamo possano servire a destar ancora l'attenzione su quello che accade a Guantanamo prima che sia troppo tardi». Purtroppo fino ad ora le pressioni al massimo livello internazionale e istituzionale di Navi Pillar, Commissario dell'Onu per i diritti umani, di Amnesty International e della Croce Rossa internazionale sull'amministrazione statunitense del premio Nobel della pace Barack Obama hanno portato a scarsissimi risultati. Anzi il vero risultato sono nuove, estreme misure coercitive.


«Dopo l'irruzione violenta nelle celle il 15 aprile scorso dei militari in uniforme d'assalto armato (joint extraction operation), la carica con pallottole di gomma e l'isolamento in celle singole nel settore di "massima custodia e sicurezza" - ci spiega il giurista Remes - è stata introdotta una doppia tortura: la nutrizione forzata aggiungendo anche la perquisizione fisica "strip searching", una volta denudati e i detenuti che protestano vengono palpati per tutto il corpo con controlli invasivi dei genitali per chiunque avesse intenzione di comunicare con il proprio legale o con i propri familiari. 
La conseguenza è stata che nessuno dei miei clienti ha più dato notizie pur di evitare questa ulteriore tortura». 
«Guantanamo - prosegue David Remes - così è tornata indietro alle condizioni barbare del limbo legale del 2002. Il compito di instaurare le direttive di questo brutale regime con il muro del silenzio da e verso il mondo esterno è stato affidato recentemente al colonnello Bogdan, un capitan Bligh (quello del Bounty) dei giorni nostri. Che in cella ha tolto le lettere dei familiari, il dentifricio, la tv , l'illuminazione 24 al giorno, imponendo la nutrizione forzata e svegliando i detenuti ripetutamente mentre dormono di notte. Non mi meraviglierei se tutto ciò anziché spezzare lo sciopero della fame dei detenuti disperati li incoraggi alla "scelta con rischio di morte" di cui parla Samir Moqbel». 

Chiediamo a Remes delle reazioni dei suoi clienti alle promesse di rescindere la moratoria per gli 86 yemeniti, prosciolti gia nel 2006 da Bush e nel 2009 da Obama. Ancora una risposta lapidaria: «Il preventivo di 550 milioni di dollari. per iristrutturare Guantanamo - risponde Remes - è stato fatto prima dell'elusivo discorso di Obama al paese sulla "National security". La promessa della periodica revisione governativa comprende caso per caso, da sottoporre a mesi di procedure burocratiche ancor prima di essere avviata.

E poi , dopo 11 anni a Guantanamo quale testimonianza possono ancora fornire questi detenuti innocenti per l'82%? È un assurdo kafkiano». E intanto, in questo muro di gomma instaurato con il nuovo regime di detenzione ferrea, come si viene a sapere se qualcuno muore o si suicida? «È proprio quello che temiamo», risponde concludendo Remes.

'Iran, l'ayatollah Khamenei concede amnistia a 1.249 detenuti in occasione festività religiosa

Ansa
La guida suprema dell'Iran, l'ayatollah Seyed Ali Khamenei, ha graziato un alto numero di detenuti condannati da tribunali di tutto il paese. 

Come riporta l'agenzia di notizie Fars, nel weekend Khamenei ha concesso l'amnistia a 1.249 detenuti in occasione di una festività religiosa. Il provvedimento arriva su richiesta del capo della magistratura Sadeq Amoli Larijani. 

L'articolo 110 della costituzione della Repubblica Islamica attribuisce alla guida suprema la facoltà di graziare o ridurre le sentenze dei prigionieri su raccomandazione del capo della magistratura.