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lunedì 10 giugno 2013

“Fine pena: mai”. Vivere senza speranza nelle carceri italiane

La Stampa
Sono 1500 i detenuti condannati all’ergastolo più duro che non prevede permessi nè sconti. Come resistono?
Sui certificati di alcuni detenuti c’è una scritta che dice così: «Fine pena: mai». 

La leggono, accanto al proprio nome, uomini e donne che hanno commesso crimini terribili: spesso, che hanno ucciso. In Italia è aperto da tempo un dibattito. C’è chi dice che l’ergastolo è giusto perché se certi colpevoli sono condannati a stare in carcere tutta la vita, le loro vittime sono già sotto terra. Altri obiettano che l’ergastolo è contrario ai principi stessi della Costituzione, la quale prevede la rieducazione del reo e il suo reinserimento nella società. 

In Italia esistono due tipi di ergastoli. C’è quello cosiddetto semplice, che dà la possibilità al condannato di uscire, se ha mostrato di meritarlo, dopo trent’anni; e dopo quindici, a metà pena, per qualche permesso.

 Millequattrocento nostri detenuti hanno invece l’ergastolo «ostativo»: il più duro, quello che non prevede, fino alla morte, né permessi né semilibertà.
Ho incontrato tre ergastolani nel carcere di massima sicurezza Due Palazzi di Padova. Due di loro, Musumeci e Cataneo, hanno l’ergastolo ostativo; Dinja quello semplice. Ho chiesto loro se si può vivere anche così, apparentemente senza speranza.

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