Pur avendo iniziato una serie di riforme "democratiche", il paese asiatico continua l'annientamento dei diritti della popolazione e le diverse etnie che compongono il variegato mosaico del Paese
ROMA - Le agenzie di viaggi di casa nostra descrivono la Birmania, ribattezzata Myanmar dalla giunta militare centrale nel 1989, come il Paese dalle mille pagode, che ci riporta a culture millenarie non ancora contaminate dalla modernità. Le grandi multinazionali occidentali, invece, vedono nella Birmania, incuneata tra le potenze dell'India e della Cina, una possibile nuova "Tigre asiatica" dove poter fare grandi affari, grazie alle numerose risorse naturali che il Paese offre e grazie alla manodopera, spesso molto giovane, a bassissimo costo. Quello che però di solito non viene detto è che la Birmania, pur avendo iniziato una serie di riforme "democratiche", continua la sua brutale repressione verso la popolazione e le diverse etnie che compongono il variegato mosaico del Paese.
Leggi repressive ancora in vigore. Il presidente birmano, l'ex-generale Thein Sein, per rispettare l'impegno assunto nel recente viaggio diplomatico in Europa, dove ha promesso la liberazione, entro la fine dell'anno, di tutti i prigionieri politici, ha annunciato di aver appena liberato 73 dissidenti. Il problema, però, come sottolinea Thet Oo, un attivista per i diritti umani in Birmania, è che le "leggi repressive che permettono di mettere i prigionieri politici in carcere sono ancora in vigore". Ed è dunque necessario "fermare gli arresti e far cadere le accuse verso coloro che si battono per i diritti dei cittadini". Attualmente, secondo quanto riferito dal governo birmano, il numero dei prigionieri politici rimasti in carcere è di circa un centinaio.
Dieci anni di reclusione per una manifestazione. A conferma di quanto viene detto da Thet Oo, c'è il caso di Aung Soe, membro del People's Support Network che è appena stato condannato a scontare dieci anni di reclusione per "minaccia alla sicurezza nazionale". La colpa di Aung Soe è quella di aver promosso una serie di manifestazioni contro la realizzazione di una discussa miniera di rame sino-birmana - situata nei pressi del monte Letpadaung, in una regione agricola della Birmania settentrionale - che potrebbe avere un impatto devastante sull'ambiente. La costruzione della miniera, attualmente ferma, fa parte di un progetto congiunto tra il Ministero birmano delle Miniere e dell'Industria - molto vicina alla leadership militare - e la Myanmar Wanabo Mining Copper, una componente del gigante statale cinese North China Industries Corp. (Norinco).
Scontri a fuoco contro i Kachin. Nel nord-est della Birmania, al confine con la Cina, si registrano scontri a fuoco contro l'etnia Kachin, rincominciati, nel giugno del 2011, dopo diciassette anni di "cessate il fuoco". Anche qui, molto probabilmente, a dispetto della volontà degli abitanti della regione, si celano interessi economici che la Birmania vuole mantenere con il suo storico partner cinese. I combattimenti, infatti, sono iniziati quando i leader Kachin si sono rifiutati di abbandonare una postazione considerata strategica, vicino a dove deve essere realizzata la diga Myitsone, sul fiume Irrawaddy. Il progetto, promosso in collaborazione tra il governo birmano e quello cinese, è stato sospeso, ma non annullato, alla fine del 2011.
I birmani non fermano i rifornimenti militari. Anche a nord dello Stato Karen, al confine tra Birmania e Thailandia, la guerriglia del Karen National Liberation Army, contraria allo sfruttamento incontrollato dei propri territori a favore di grandi multinazionali, sta opponendo una forte resistenza contro la costruzione della diga Hat Gyi, sul fiume Salween. In queste zone, nonostante l'inizio di un accordo firmato nel gennaio del 2012 tra la Karen National Union, componente politica dei Karen, e il governo birmano, la minaccia che la guerra torni in maniera continuativa è sempre alle porte. "Molte persone sono preoccupate perché i militari birmani avanzano nei territori Karen rafforzando le loro basi militari che sono anche state ricostruite con materiali più moderni e resistenti". A sostenere questa posizione è Saw Greh Moo del Salween Institute for Public Policy, che aggiunge: "Molti Karen sono stati cacciati dalle proprie terre per far spazio alle costruzioni idroelettriche".
Scontri a carattere religioso. Nella Birmania dei processi "democratici" non mancano neanche gli scontri a carattere razziale-religioso. Nell'ovest del Paese, nello Stato Rakhine, al confine con il Bangladesh, le violenze tra la maggioranza buddista - spesso accusata di essere appoggiata dalla polizia - e la minoranza musulmana dei Rohingya, hanno provocato centinaia di morti. Secondo le Nazioni Unite, i Rohingya sono una delle etnie più perseguitate al mondo. Questo gruppo etnico, presente in Birmania in circa 800mila unità, vive nella povertà più assoluta e non è riconosciuto dalle autorità, anche se i suoi componenti emigrarono nel Paese a partire dal VIII secolo.
Il business prima di tutto. Da una parte, è chiaro, il presidente Thein Sein, vuole aprire tutti i contatti possibili con l'Occidente, anche sfruttando l'entrata in Parlamento del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Dall'altra, tutto il mondo, è interessato alle grandi potenzialità economiche della Birmania, ricca - soprattutto nelle zone controllate dalle diverse etnie - di petrolio, gas e legname. Meno interesse, purtroppo, viene dato ai diritti umani, alle richieste dei diversi gruppi etnici e ai numerosi territori incontaminati che vorrebbero rimanere tali.
di FABIO POLESE