A San Pedro vivono 2.500 detenuti con famiglia senza guardie a controllarli. Lavorazione e vendita di droga all’interno erano note, ma dopo le voci di violenze il governo pensa di chiudere.
Il governo di Evo Morales ha annunciato di voler chiudere definitivamente il carcere di massima sicurezza di San Pedro, situato nel cuore della capitale. Dal 18 luglio non saranno più ammessi nuovi detenuti, che saranno trasferiti verso altre strutture. Il carcere di San Pedro è oggi il più grande del Paese, inizialmente concepito per ospitare 700 detenuti, accoglie attualmente una popolazione stimata di oltre 2500 carcerati.
Sono proprio loro, i detenuti, ad essere insorti in seguito alla decisione presa dal governo: “La nostra vita è qui, nella prigione, non possiamo neppure concepire un’altra vita altrove”. Nonostante l’opposizione di chi nel carcere ci vive ormai da anni, la decisione del governo e del capo della polizia penitenziaria sembra determinata: si è diffusa la voce che una ragazza di appena 12 anni, figlia di uno dei detenuti, sia rimasta incinta all’interno del carcere dopo una lunga serie di abusi subiti forse con la complicità del genitore.
Un portavoce dei prigionieri, Ever Quilche, ha rapidamente dichiarato alla BBC che le accuse sono infondate e ha assicurato che la ragazzina continua a vivere in carcere e sta bene. Mentre le autorità stanno ancora conducendo le indagini in cerca di prove, il carcere torna ancora una volta a far parlare di sé: già conosciuto come uno dei maggiori “punti caldi” per la raffinazione e la distribuzione della cocaina in Bolivia, la struttura penitenziaria detiene un altro sorprendente primato, essendo l’unico caso al mondo di carcere totalmente autogestito, in cui i detenuti scontano la pena vivendo assieme alle famiglie, dalle mogli ai figli, lontani da ogni forma di supervisione.
Le guardie, che si limitano a perquisire gli ospiti in entrata e ad impedire ai detenuti di uscire, dichiarano di non aver mai messo piede all’interno della struttura.
La nostra richiesta di essere scortati tra le corti interne del carcere è stata accolta con incredulità: “Noi non possiamo entrare, sarebbe troppo pericoloso per noi”, dichiara una guardia all’ingresso. Fino al 2009 accedere al carcere era piuttosto semplice e molti turisti si concedevano una visita per acquistare della droga a basso prezzo, questo almeno fino a che un “gringo” non è stato ucciso all’interno della prigione, causando notevole imbarazzo al governo boliviano che si dichiarava all’oscuro di tutto.
In seguito a questi fatti e al successivo silenzio stampa dell’amministrazione l’entrata nel carcere è stata rigidamente vietata a stranieri e giornalisti, ma dopo mesi di tentativi siamo riusciti ad ottenere un permesso speciale, una possibilità di testimoniare quella realtà unica, da cogliere con o senza la scorta della polizia. I primi passi nel carcere di San Pedro si svolgono in un grande cortile, dove i detenuti accumulano tutta la spazzatura in attesa che venga portata fuori una volta alla settimana.
Questo è ciò che di fatto vedono le guardie dalla loro posizione all’ingresso, le tracce meno nobili di una vita clandestina trascorsa nelle sezioni più interne, lontana da ogni supervisione. Superato il primo cortile, ogni passo verso il cuore della prigione è accompagnato da un senso di incredulità e stupore: mentre i detenuti, per lo più narcotrafficanti, assassini o stupratori, ci raccontano le proprie storie, i loro figli giocano vicino a loro, mentre le mogli bevono qualcosa in uno dei numerosi ristoranti sorti spontaneamente nelle aree più interne del carcere. Alcuni detenuti stanno lavando i vestitini delle figlie più piccole, altri stanno acquistando un gelato o giocando a dama seduti nei tavolini all’ombra di un bar.
Passando per i tunnel che collegano una corte all’altra ci spostiamo nell’area dove risiedono i detenuti condannati per reati violenti, dall’omicidio allo stupro: tra loro una donna incinta sta cullando la figlia mentre il marito pulisce i pavimenti dei bagni delle “signore”, vicino a loro, totalmente inconsapevoli del paradosso che rappresentano, un gruppo di bambini sta giocando a guardie e ladri.
Nel carcere di San Pedro i detenuti possono vivere con le proprie famiglie: le mogli possono entrare e uscire liberamente, spesso lavorano tutto il giorno fuori dal carcere per poi raggiungere i mariti la sera, altre volte lavorano in uno dei numerosi negozi ed esercizi commerciali che i prigionieri costruiscono e gestiscono all’interno della struttura, dagli alimentari alle saune e alle piscine.
I bambini escono la mattina per andare a scuola, ma il pomeriggio ritornano in carcere dove trascorrono gran parte del proprio tempo. Quando chiediamo se si verifichino mai abusi o violenze nei confronti di donne e bambini ci viene subito spiegato che, a differenza del mondo esterno dove i crimini possono restare impuniti, all’interno della prigione vige una politica di tolleranza zero nei confronti di ogni reato: “Questi bambini sono figli di qualcuno e quelle donne sono le mogli di qualcuno, e quel qualcuno è uno di noi, per questo non danneggi solo quella particolare persona o la sua famiglia, ma ci danneggi tutti”.
Esistono ovviamente delle regole non scritte, per cui la pena è sempre proporzionata al crimine a va dalla mutilazione a, nei casi più estremi, l’omicidio. “C’è anche un italiano tra noi, è dentro da poco per narcotraffico, ve lo andiamo a chiamare”. Vittorio, di Brindisi, è entrato da poche settimane per aver trasportato “appena” 4 chili di cocaina oltre il confine boliviano, ma sembra avere già le idee chiare su come funzioni la vita a La Paz: “Sono stato per un periodo nel carcere di Busto Arsizio, ma questo non è neppure paragonabile, se quello è un carcere, allora questo non lo è. Qui se hai i soldi puoi vivere da Dio, con 7000 dollari compri una cella privata e stai da solo o con la tua famiglia. Le donne? Qui la gente fa più sesso di quanto ne faccia fuori in una vita intera, oltre alle mogli ci sono anche le prostitute… In generale puoi trovare qualsiasi cosa, da mangiare, da bere o anche ogni tipo di droga” ci racconta Vittorio all’ombra di un grosso cartellone pubblicitario della Coca Cola in uno dei cortili del carcere. “Ad un altro italiano che è stato qui per il mio stesso reato hanno dato 4 anni, io ora sono ancora in attesa del processo. Spero vada tutto bene, ma certo qui non posso dire di passarmela male, ci sono anche diversi detenuti che stanno imparando l’italiano. Poi Abbiamo i cellulari, la televisione in camera, internet, ci sono giochi e saune un po’ dappertutto, se hai abbastanza soldi puoi vivere benissimo”.
Nel carcere si ripropongono quindi le differenze sociali del mondo esterno, se si hanno abbastanza soldi si può vivere con lussi nemmeno immaginabili in altri istituti di detenzione, ma se non puoi permettertelo l’unica alternativa sono le stanze comuni, da 25 posti ognuna, senza nemmeno i letti. Eppure i detenuti non vogliono lasciare il carcere, si oppongono alla sua chiusura e a volte decidono di rimanere anche dopo aver scontato la propria pena: per molti il carcere è - o è diventato - l’unica alternativa di vita, dove poter lavorare, vivere dignitosamente con la famiglia e, in alcuni casi, anche arricchirsi. Se molti scelgono la via dell’onestà e decidono di aprire una bottega all’interno del carcere, altri approfittano del fatto di vivere, di fatto, nell’unico posto in Bolivia dove la polizia non può arrivare e si dedicano quindi ad una delle attività più proficue della prigione: la sintesi e la distribuzione della cocaina. In Bolivia la produzione e il consumo della coca non è illegale, ma la raffinazione in cocaina è invece severamente punita.
All’interno del carcere di San Pedro esistono però le “cucine”, dei laboratori improvvisati, chiusi a chiave con grossi lucchetti e guardati a vista, dove alcuni detenuti si dedicano ad un’incessante attività di produzione di cocaina. La distribuzione è spesso affidata ai bambini, che la nascondono negli zaini quando vanno a scuola la mattina. Alcuni dicono, forse non senza ragione, che un traffico di questa entità non potrebbe avvenire senza il tacito consenso del personale giudiziario. Il carcere di San Pedro ha quindi la capacità di far parlare di sé, nel bene o nel male: estraneo ad ogni definizione nota, è l’unico caso al mondo a sfuggire completamente al dibattito (attualissimo anche in Italia) sull’utilità e la missione di ogni struttura carceraria, tra i sostenitori di un carcere riabilitativo e quelli invece di una prigionia punitiva. San Pedro è un terzo polo, una forma di allontanamento dalla società ma non di isolamento, un modo per dire: “non potete certo vivere nella nostra società civile, vediamo come ve la cavate nella vostra”.
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