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sabato 13 luglio 2013

Pasticcio kazako, l'Italia non è un Paese per i rifugiati politici. Tutti gli scivoloni governativi da Ocalan in poi

Il Sole 24 Ore
Difficile dire quanti metri cubi di gas del Nord del Caspio provenienti dal ricco campo di Kashagan possano valere una rendition in piena regola (anche se molto all'amatriciana nel modus operandi) come quella con la quale la polizia italiana ha rispedito nelle braccia di un leader non proprio democratico come il presidente kazako, Nursultan Nazarbajev, moglie e figlia (Alma Shalabayeva e Alua) di Mukhtar Ablyazov, principale oppositore del regime kazako in esilio a Londra

Rassicura, per il momento, che Enrico Letta davanti al Parlamento abbia promesso di fare piena luce sull'episodio con un'inchiesta senza fare sconti a chicchessia («ineludibili ulteriori approfondimenti», ha detto il premier durante il Question Time alla Camera, in quanto «non saranno tollerati ombre e dubbi», ndr). Rassicura un po' meno che finora, nella catena gerarchica della polizia, nessuno con una qualche responsabilità nell'operazione, sia stato sollevato o rimosso. Ma neppure questa è prova certa che vi sia stata una direttiva proveniente dalla massima autorità politica del Viminale, ossia il ministro e vicepresidente del Consiglio.

Angelino Alfano o da qualche figura apicale dei servizi e tantomeno che tutto ciò celi un coinvolgimento diretto dell'ex premier Silvio Berlusconi, buon amico di Nazarbayev.
Non è un mistero per nessuno che in tutti gli incontri degli ultimi anni di Berlusconi e poi di Monti con le autorità kazake, il dossier Eni fosse stata la priorità delle priorità per lo sviluppo del giacimento di Kashagan affidato a un consorzio nel quale il gruppo italiano detiene il 20% ma con rapporti molto altalenanti che portarono, cinque anni fa, anche alla temporanea chiusura del cantiere e al conseguente infittirsi dei rapporti di Eni con Gazoprom russa e Noc libica.

C'era di mezzo il petrolio anche nel 2007 quando il ministro degli Esteri , Massimo D'Alema, fu costretto a trascorrere con il rais libico, Muammar Gheddafi le feste di Pasqua di quell'anno cercando di ammorbidirne la posizione sui danni di guerra e l'autostrada da 3 miliardi di euro riportando all'ovile (non è dato sapere se sullo stesso aereo di Stato) il figlio calciatore Saadi che in Liguria, dove giocava per la Sampdoria del petroliere Garrone, si era invaghito di una velina e intendeva ripudiare la moglie libica figlia di un generale fedelissimo di Gheddafi.


Durò invece pochi giorni, nel maggio del '99, il soggiorno romano del leader moderato del Kossovo, Ibrahim Rugova, prima di farlo ripartire alla volta della Germania dove si trovavano i suoi familiari. Il leader kossovaro era stato prelevato con un aereo militare italiano che aveva ottenuto disco verde dalla "no fly zone" da Belgrado dove Rugova si era fatto immortalare a fianco del leader serbo Milosevic. Lì non c'era di mezzo il petrolio ma una road map per gli affari con i serbi dopo i bombardamenti già scritta in molte parti.

C'era sempre D'Alema, ma a Palazzo Chigi, nel novembre del 1998 quando il nuovo governo fu costretto a misurarsi con la "grana" del leader curdo Abdullah Ocalan, accompagnato a Roma dal deputato di Rifondazione Ramon Mantovani. Nei 65 giorni in cui Ocalan fu tenuto segregato in una villetta all'Infernetto le pressioni turche con minacce di chiudere ogni tipo di contratti (a cominciare dai lucrosi appalti nelle costruzioni e nelle infastrutture come i nuovi ponti sul Bosforo) costrinsero D‘Alema che in quel momento cercava anche consensi internazionali a rispedire (con un aereo dell'Eni) il fondatore del Pkk in Kenia da dove i servizi turchi lo prelevarono facilmente.

Qualcuno, tra gli oppositori a regimi poco democratici, deve essersi fatto l'idea che l'Italia è un Paese ospitale non solo per il clima piacevole e il buon cibo ma anche per il rispetto dei diritti umani. Forse da molto lontano questa è l'immagine che offriamo ma la realtà è molto diversa. Tutti i casi citati dimostrano come le fragilità del sistema dipendano da molti fattori struttruali e siano indipendenti dalle volontà delle autorità politiche che di volta in volta guidano il Paese.
C'è alla base una incapacità di individuare il reale perimetro dell'interesse nazionale fatto di un giusto bilanciamento tra contratti, dipendenza energetica e alleanze geostrategiche.

 Il petrolio è importante, girare in auto pure ma ci sono principi che non si possono barattare. C'è poi, quasi certamente, un eccesso di potere e autonomia dei quadri intermedi delle nostre forze di sicurezza, polizia e servizi, con catene di comando troppo felssibili e opache. Mettiamoci pure l'eccessiva, tradizionale disponibilità a compiacere qualunque richiesta provenga da consolato o ambasciata straniera senza valutare tutte le effettive conseguenze che tali "piaceri" producono.

Ultima considerazione, solo un indizio. Nell'ultimo Consiglio europeo di fine giugno, il premier Enrico Letta si è presentato in conferenza stampa sorridente per i risultati del vertice sull'occupazione. A un certo punto, Letta ha srotolato davanti ai giornalisti una mappa del nuovo gasdotto transadriatico Tap che consentirà l'afflusso del gas del Caspio dall'Azerbajan in Italia via Albania e Grecia tagliando fuori la Russia. 

L'Italia vorrebbe parteciparvi. Così come voleva stare nel Bleu Stream insieme a Putin ed Erdogan e nel Nabucco a firma senza Putin). Ma il problema è che si tratta di progetti alternativi uno all'altro con impegni geostrategici diversi, spesso contraddittori. Sotto questo profilo il "pasticciaccio kazako" potrebbe anche essere un messaggio russo - via Astana - al nuovo giovane leader italiano per ricordargli, ove se lo fosse dimenticato, quanto permeabile e fragile sia tutto il nostro sistema.

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