Famiglia Cristiana
Nelle periferie delle città, magari a due passi da casa nostra, per i Cie sono transitate lo scorso anno 8 mila persone. I Centri di identificazione ed espulsione sono stati istituiti per dare effettività ai provvedimenti di allontanamento coattivo nei confronti dei cittadini stranieri senza permesso di soggiorno, nei casi in cui non risultino immediatamente eseguibili.
I motivi che possono ostacolare l’esecuzione immediata dell’espulsione sono essenzialmente due: la mancata identificazione della persona o l’indisponibilità del mezzo di trasporto necessario per effettuare il rimpatrio.
E così, senza aver commesso nessun reato se non quello di clandestinità, si finisce in luoghi di detenzione, con sbarre alte sette metri e filo spinato, sorvegliati giorno e notte da militari e agenti.
Spiega una detenuta sudamericana del Cie di Ponte Galeria a Roma, il più grande d’Italia: «Quando commetti un delitto, la condanna è giusta, però io non ho commesso nessun delitto».
Nei Cie, finiscono persone dalle vite molto diverse: padri di famiglia che hanno perso il lavoro e non possono rinnovare il permesso, giovani da poco entrati in Italia alla ricerca di un futuro migliore, lavoratori in nero perché senza documenti, ragazzi cresciuti nel Belpaese che parlano con accento milanese, romano, o toscano.
A Ponte Galeria, l’ente gestore stima che l’80 per cento delle donne detenute siano vittime di tratta. Inoltre, la metà dei detenuti arriva nei Cie dal carcere: il paradosso è che la direttiva Amato-Mastella del 2007 prevede che si proceda già nelle prigioni all’identificazione dello straniero in modo che sia possibile eventualmente eseguire il rimpatrio allo scadere della pena ed evitare così la detenzione amministrativa. Peccato che la direttiva sia completamente disattesa.
Nei Cie si vive sospesi: inizialmente la permanenza massima era di trenta giorni, ma interventi successivi hanno allungato il periodo di detenzione. Il record è del 2011, quando l’allora ministro Maroni la prolungò da un massimo di sei a diciotto mesi. Tutto ciò ha un prezzo altissimo per le casse dello Stato.
Secondo la onlus Lunaria, che ha presentato in Senato il report “Costi disumani”, dal 2005 al 2011 sono stati spesi oltre un miliardo di euro per l’allestimento, il funzionamento, la gestione e la manutenzione dei Cie e degli altri centri simili (Cpsa, Cda, Cara), in media 143,8 milioni l’anno. A regime, cioè senza le spese iniziali di costruzione, l’attuale sistema costa circa 55 milioni l’anno, tra costi di funzionamento (25,1 milioni), di sorveglianza (26,3), personale in missioni di rimpatrio (3,6). Nel corso degli anni, le risorse impegnate sono cresciute notevolmente: dai 73,7 milioni di euro del 2005 siamo passati ai 158,6 milioni del 2011.
Questo enorme sforzo economico in tempi di crisi quali risultati garantisce? Serve veramente al «contrasto dell’immigrazione irregolare»? Fin dalla loro istituzione, solo la metà dei detenuti transitati nei Cie è stata effettivamente rimpatriata; nel 2012, sono stati 4.015 su 7.944, cioè il 50,5 per cento. L’allungamento della detenzione a 18 mesi, in nome del “pugno di ferro”, ha portato nel 2011 a un aumento dei migranti effettivamente rimpatriati di appena il 2,3 per cento. A fronte invece di un aumento della spesa pubblica ben più rilevante.
Un altro dato su cui riflettere: nel 2012, il totale dei rimpatriati attraverso i Cie è stato l’1,2 per cento del totale degli immigrati in condizioni d’irregolarità presenti sul territorio italiano (326.000 secondo l’Ismu). La metà dei detenuti che non è rimpatriata, viene rilasciata ugualmente senza documenti dopo diciotto mesi. Ma con un anno e mezzo di vita in meno.Nei Cie, infatti, si «vive senza fare nulla», come riassume una ragazza di Ponte Galeria: «Resti tutto il giorno così, diventi vecchia. Fumiamo sigarette come pazzi, a pranzo mangiamo come pecore». Paradossalmente, la direttiva del ministero dell’Interno prevede che i Cie vadano concepiti e concretamente gestiti «in modo tale che gli stessi, pur garantendo il non allontanamento degli stranieri, non comportino alcun ulteriore affievolimento dei diritti della persona trattenuta».
Esattamente ciò che non avviene. A Gradisca, secondo l’Asgi, «mancano le lenzuola, è vietato l’uso di cellulari, libri e giornali; non è possibile svolgere nessuna attività ricreativa, neanche all’aperto; non risulta possibile usare il piccolo campo da calcio da oltre un anno e la mensa, pure agibile, è chiusa. I trattenuti non possono muoversi nel centro, sono limitati nelle stanze e possono accedere all'aperto a vere e proprie gabbie consistenti in uno piccolo spazio cementato, ricoperto da grate verso il cielo e da pareti di plexiglass sui quattro lati, luoghi che si arroventano senza pietà sotto il sole estivo».
Una ragazza bosniaca detenuta a Ponte Galeria ha invece raccontato: «Le condizioni qui nel centro sono brutte perché la dignità di una donna non esiste. Nel bagno non c’è una porta. Un pettine non esiste e dobbiamo pettinarci con le forchette. D’inverno, faceva un freddo cane perché il riscaldamento è rotto e spesso manca l’acqua calda».
A Torino, nel 2011 sono avvenuti 156 atti di autolesionismo, cento per ingestione di corpi estranei e 56 per ferite d’arma da taglio. Da queste condizioni nasce una forte tensione. Fughe (580 evasioni nel 2011), rivolte, scioperi della fame, scontri e proteste segnano la quotidianità dei Cie italiani. Spesso, la risposta è l’abuso di psicofarmaci; secondo Medici per i Diritti Umani, a Ponte Galeria, ma dati simili valgono per l’intero “Sistema Cie”, il 50 per cento dei detenuti è sotto ansiolitici, senza prescrizione medica. Tutto ciò è una novità? Una rivelazione sconosciuta alla politica italiana? Non proprio. Basterebbe leggere il “Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti” pubblicato a marzo 2012 dalla Commissione Diritti Umani del Senato. Si parla di «trattamenti degradanti e disumani» e si legge: «Le condizioni nelle quali sono detenuti molti migranti irregolari nei Cie sono molto spesso peggiori di quelle delle carceri».
di Stefano Pasta
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