La Repubblica
Tragedia sul litorale di Scicli: gli immigrati sono annegati tentando di raggiungere la riva a nuoto dal barcone, che si era arenato. I sopravvissuti sono sbarcati tra i turisti e si sono dispersi nelle campagne. Arrestati due presunti scafisti
RAGUSA - Almeno tredici immigrati sono morti annegati sulla spiaggia di Sampieri a Scicli (Ragusa) durante uno sbarco avvenuto questa mattina. I corpi sono stati recuperati in acqua dalle forze dell'ordine. Due persone sono state arrestate perché sospettate di essere gli scafisti. L'approdo dei migranti era stato segnalato dai turisti che si trovavano sulla spiaggia. Secondo quanto ricostruito sarebbero circa 250 i profughi sbarcati. Nella stessa zona, nota per essere il set della fiction tv del Commissario Montalbano, nel 2005 erano morti altri 25 migranti nello stesso tragico modo.
"Per il viaggio siamo partiti dalle coste della Libia. Abbiamo pagato tra i 300 e i mille euro. Ci avevano detto di arrivare sulle coste di Sampieri perchè così non saremmo stati identificati e saremmo riusciti a sfuggire dalle forze dell'ordine e avremmo potuto continuare il nostro viaggio la cui meta finale non è l'Italia", racconta all'Agi un migrante eritreo di 23 anni. "Siamo arrivati nella prima mattinata - prosegue - e il nostro barcone si è arenato e pensavamo che l'acqua non fosse così profonda. Il mare era agitatissimo. Ci siamo buttati in acqua e abbiamo cercato di arrivare alla costa che vedavamo vicino, ma l'acqua nera troppo profonda. Purtroppo molti nostri fratelli non ce l'hano fatta. Noi vorremmo soltanto essere aiutati". Il profugo ha sostenuto che lui e i suoi compagni non avevano intenzione di fermarsi in Italia. "Per noi il vostro territorio è solo un posto dal quale passare perchè io ad esempio voglio raggiungere i miei cugini in Germania", ha detto.
I morti sono tutti uomini. Fino a questo momento le forze dell'ordine hanno rintracciato a terra 70 profughi, tutti sedicenti eritrei. Tra loro 20 bambini e una donna incinta, che è apparsa in condizioni gravi ed è stata trasportata all'ospedale Maggiore di Modica. Erano a bordo di un grosso barcone che si è arenato a pochi metri dalla riva, in condizioni di mare molto agitato. A bordo, secondo il racconto degli stessi migranti, c'erano circa 250 persone. Le tredici vittime sono state trascinate dalle onde e sono morte annegate. Alcuni dei superstiti hanno parlato di un quattordicesimo morto, sul quale non c'è al momento conferma da parte delle autorità. Sono in corso ricerche in acqua.
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lunedì 30 settembre 2013
Tunisian rapper Klay BBJ jailed for six months
BBC News
Tunisian rapper Ahmed Ben Ahmed, known as Klay BBJ, has been sentenced to six months in jail for insulting the authorities in his songs.
Tunisian rapper Ahmed Ben Ahmed, known as Klay BBJ, has been sentenced to six months in jail for insulting the authorities in his songs.
His supporters chanted "Free Klay BBJ" as therapper was put in a police van |
He lost his appeal after he and fellow rapper Weld El 15 were found guilty last month of insulting the police at a concert in the resort of Hammamet.
They two had been sentenced in absentia in August to 21 months in prison.
Weld El 15, who has been in trouble before for his song The Police Are Dogs, did not appeal and is on the run.
Continue reading the main story
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They two had been sentenced in absentia in August to 21 months in prison.
Weld El 15, who has been in trouble before for his song The Police Are Dogs, did not appeal and is on the run.
Continue reading the main story
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Our songs criticise the current situation in Tunisia and the government, no more and no less”Klay BBJ
Tunisia is the birthplace of the Arab Spring.
A coalition led by the moderate Islamist Ennahda party is in government following the overthrow of President Zine el-Abidine Ben Ali in January 2011 and elections later in that year.
'New injustice'
"Our songs criticise the current situation in Tunisia and the government, no more and no less," AFP news agency quotes Klay BBJ as saying in court.
"I am among the rappers most critical of the government and that is why [the authorities] are after me," he said.
But the judge rejected his appeal and said the six-month sentence would begin immediately
As he was led out of court in Hammamet to a prison van his supporters chanted "Free Klay BBJ", the Associated Press reports.
His lawyer, Ghazi Mrabet, said another appeal would be lodged.
"It is a new injustice targeting artists. I will appeal and continue the fight," he told AFP.
Weld El 15, whose real name is Ala Yaacoubi, was given a two-year sentence in June for his song The Police Are Dogs.
His sentence was suspended in July and he was released from prison. But he went into hiding following his latest conviction in August.
Tunisia is the birthplace of the Arab Spring.
A coalition led by the moderate Islamist Ennahda party is in government following the overthrow of President Zine el-Abidine Ben Ali in January 2011 and elections later in that year.
'New injustice'
"Our songs criticise the current situation in Tunisia and the government, no more and no less," AFP news agency quotes Klay BBJ as saying in court.
"I am among the rappers most critical of the government and that is why [the authorities] are after me," he said.
But the judge rejected his appeal and said the six-month sentence would begin immediately
As he was led out of court in Hammamet to a prison van his supporters chanted "Free Klay BBJ", the Associated Press reports.
His lawyer, Ghazi Mrabet, said another appeal would be lodged.
"It is a new injustice targeting artists. I will appeal and continue the fight," he told AFP.
Weld El 15, whose real name is Ala Yaacoubi, was given a two-year sentence in June for his song The Police Are Dogs.
His sentence was suspended in July and he was released from prison. But he went into hiding following his latest conviction in August.
GB, Cameron: "Potremmo uscire dalla Convenzione dei diritti umani"
Quotidiano.net
"La Gran Bretagna potrebbe alla fine uscire dalla Convenzione europea dei diritti umani". Il premier si riferiva chiaramente al caso dell’imam radicale Abu Qatada. Sull'Europa: "Serve un negoziato molto radicale sulla relazione con l'Ue"
"La Gran Bretagna potrebbe alla fine uscire dalla Convenzione europea dei diritti umani". Il premier si riferiva chiaramente al caso dell’imam radicale Abu Qatada. Sull'Europa: "Serve un negoziato molto radicale sulla relazione con l'Ue"
Londra, "La Gran Bretagna potrebbe alla fine uscire dalla Convenzione europea dei diritti umani’’. E’ quanto ha affermato il premier David Cameron in un’intervista alla Bbc mentre partecipa all’apertura del congresso conservatore a Manchester. Il premier ha aggiunto che farà "tutto il possibile" per difendere la sicurezza del Regno Unito se questo implicasse l’espulsione di persone che costituiscono una minaccia per il Paese. Cameron si riferisce chiaramente al caso dell’imam radicale Abu Qatada, che Londra è riuscita ad estradare lo scorso luglio solo dopo una decennale diatriba legale. Il primo ministro ha anche sottolineato che norme efficaci per evitare casi del genere potrebbero arrivare solo con una vittoria netta dei conservatori alle elezioni del 2015 e con un governo composto solo da tory e non, come accade ora, in coalizione coi libdem.
"La gente non deve avere dubbi sul fatto che con un governo formato solo da conservatori e guidato da me ci sarebbe modo di estradare dal nostro Paese molto più rapidamente la gente che minaccia noi e il nostro stile di vita". "Serve un negoziato molto radicale sulla relazione del Regno Unito con l’Unione europea’’. Il premier ha aggiunto che questo servira’ a ‘’forgiare una nuova relazione’’ fra Londra e Bruxelles.
"La gente non deve avere dubbi sul fatto che con un governo formato solo da conservatori e guidato da me ci sarebbe modo di estradare dal nostro Paese molto più rapidamente la gente che minaccia noi e il nostro stile di vita". "Serve un negoziato molto radicale sulla relazione del Regno Unito con l’Unione europea’’. Il premier ha aggiunto che questo servira’ a ‘’forgiare una nuova relazione’’ fra Londra e Bruxelles.
domenica 29 settembre 2013
Sudan: 600 arresti dall'inizio delle proteste contro misure di austerità del governo
Nova
Sarebbero almeno 600 le persone arrestate in Sudan dallo scorso lunedì, giorno in cui sono iniziate le proteste in tutto il paese contro le nuove misure di austerità del governo.
Sarebbero almeno 600 le persone arrestate in Sudan dallo scorso lunedì, giorno in cui sono iniziate le proteste in tutto il paese contro le nuove misure di austerità del governo.
Lo ha riferito l'agenzia d'informazione "Anadolu", secondo la quale la maggior parte delle persone arrestate proverrebbero dalla capitale sudanese Khartoum. Il ministro dell'Interno sudanese Ibrahim Mahmoud Hamid ha detto che i detenuti sono stati accusati di "saccheggio e vandalismo" e che i processi inizieranno la prossima settimana.
"Non ci sarà indulgenza nei confronti di chi cerca di scuotere la stabilità del paese", ha aggiunto Hamid. Secondo testimoni, ieri gli scontri tra manifestanti e forze dell'ordine avrebbero provocato sette morti: due persone sarebbero rimaste uccise nel quartiere Berri, nella parte orientale di Khartoum e altre due a Wad Madani, dove, sempre secondo testimoni, la polizia avrebbe utilizzato proiettili veri per disperdere la folla.
Le autorità non hanno ancora rilasciato nessuna dichiarazione per quanto riguarda tali incidenti. Inoltre il governo sudanese ha ordinato la chiusura di cinque quotidiani per impedire la diffusione di notizie riguardanti le proteste dei giorni scorsi contro il rincaro del prezzo della benzina. Da tre giorni non vengono stampati infatti i quotidiani "al Sudani", "al Ayam", "al Jarida", "al Qarar" e "Alwan".
Le redazioni delle prime tre testate sono state chiuse dalle forze di sicurezza sudanesi mentre le ultime due hanno bloccato le pubblicazioni per l'impossibilità dei loro dipendenti di recarsi sul luogo di lavoro e dei giornalisti di seguire le manifestazioni anti - governative. In particolare alcuni giornalisti hanno spiegato al quotidiano "Asharq al Awsat" di considerare più dignitoso non lavorare "piuttosto che dover pubblicare solo le veline del governo".
Intanto il sindacato della stampa sudanese pensa di avviare uno sciopero generale contro la censura mentre l'opposizione ha chiesto le dimissioni del presidente Omar al Bashir "per evitare che il paese cada nel caos". Ieri il segretario generale della Camera di distribuzione della benzina in Sudan, al Aqab Suleiman, ha reso noto che 69 stazioni di benzina sono state distrutte dalle proteste dei manifestanti in Sudan e in particolare nella provincia di Khartoum, così come sono 105 gli autobus danneggiati oltre a numerosi negozi e abitazioni.
"Nonostante questo al momento non si registrano problemi nella distribuzione del carburante nel paese - ha affermato Suleiman al quotidiano locale "al Nilin" - anche se questo clima condiziona il lavoro delle pompe che sono ancora attive e che temono di essere attaccate". Le compagnie petrolifere locali registrano danni per centinaia di migliaia di euro e molte delle stazioni attaccate non erano assicurate contro gli atti vandalici.
"Non ci sarà indulgenza nei confronti di chi cerca di scuotere la stabilità del paese", ha aggiunto Hamid. Secondo testimoni, ieri gli scontri tra manifestanti e forze dell'ordine avrebbero provocato sette morti: due persone sarebbero rimaste uccise nel quartiere Berri, nella parte orientale di Khartoum e altre due a Wad Madani, dove, sempre secondo testimoni, la polizia avrebbe utilizzato proiettili veri per disperdere la folla.
Le autorità non hanno ancora rilasciato nessuna dichiarazione per quanto riguarda tali incidenti. Inoltre il governo sudanese ha ordinato la chiusura di cinque quotidiani per impedire la diffusione di notizie riguardanti le proteste dei giorni scorsi contro il rincaro del prezzo della benzina. Da tre giorni non vengono stampati infatti i quotidiani "al Sudani", "al Ayam", "al Jarida", "al Qarar" e "Alwan".
Le redazioni delle prime tre testate sono state chiuse dalle forze di sicurezza sudanesi mentre le ultime due hanno bloccato le pubblicazioni per l'impossibilità dei loro dipendenti di recarsi sul luogo di lavoro e dei giornalisti di seguire le manifestazioni anti - governative. In particolare alcuni giornalisti hanno spiegato al quotidiano "Asharq al Awsat" di considerare più dignitoso non lavorare "piuttosto che dover pubblicare solo le veline del governo".
Intanto il sindacato della stampa sudanese pensa di avviare uno sciopero generale contro la censura mentre l'opposizione ha chiesto le dimissioni del presidente Omar al Bashir "per evitare che il paese cada nel caos". Ieri il segretario generale della Camera di distribuzione della benzina in Sudan, al Aqab Suleiman, ha reso noto che 69 stazioni di benzina sono state distrutte dalle proteste dei manifestanti in Sudan e in particolare nella provincia di Khartoum, così come sono 105 gli autobus danneggiati oltre a numerosi negozi e abitazioni.
"Nonostante questo al momento non si registrano problemi nella distribuzione del carburante nel paese - ha affermato Suleiman al quotidiano locale "al Nilin" - anche se questo clima condiziona il lavoro delle pompe che sono ancora attive e che temono di essere attaccate". Le compagnie petrolifere locali registrano danni per centinaia di migliaia di euro e molte delle stazioni attaccate non erano assicurate contro gli atti vandalici.
sabato 28 settembre 2013
Giustizia: il coraggio della clemenza... primo passo per carceri degne di un Paese civile
Il Mattino
Questa mattina il Capo dello Stato Giorgio Napolitano varcherà il portone della Casa circondariale "Giuseppe Salvia - Poggioreale". È una visita storica. Per la prima volta, infatti, un presidente della Repubblica entrerà nel penitenziario napoletano.
Ma è anche una decisione inaspettata, presa all'improvviso. Nonostante il grave momento politico che il Paese sta vivendo, il presidente ha voluto recarsi nell'Istituto di pena dedicato a Giuseppe Salvia, ed essere vicino ai duemila seicento sessanta detenuti attualmente rinchiusi.
È stata una delle poche personalità che ha fatto sentire più volte la sua voce per denunciare la drammatica condizione delle prigioni italiane. E proprio durante una sua visita nel carcere minorile di Nisida, nel 2011, disse che l'emergenza carcere è "una vergogna per il nostro Paese, che non ci fa dormire sonni tranquilli".
L'incontro del presidente Napolitano assume una grande importanza per il discorso che pronunzierà, o meglio per quella parola che i detenuti si aspettano di ascoltare: "Amnistia".
Perché, oggi, solo un provvedimento di clemenza può essere il punto di partenza per fare delle galere dei luoghi degni di un paese civile. Il carcere di Poggioreale rappresenta il simbolo del fallimento del sistema penitenziario. Sovraffollamento, penuria di lavoro e di attività intramurarie, misure alternative concesse con il contagocce, personale insufficiente e demotivato, rappresentano la sintesi della disfatta.
Se pensiamo che l'articolo 6 dell'ordinamento penitenziario, una legge di quasi 40 anni fa, distingueva i locali nei quali si deve svolgere la vita dei detenuti da quelli destinati al pernottamento, mentre oggi per 22 ore al giorno si resta chiusi nella propria cella, ci rendiamo conto degli anni e delle occasioni perse per costruire un carcere più umano.
Anche il regolamento di esecuzione della legge penitenziaria del 2000 che prevede l'abolizione dei divisori nei banconi delle sale colloqui, attraverso i quali un detenuto non riesce quasi neppure a toccare i figli e la moglie, in molte case di reclusione è rimasto lettera morta.
Per non parlare poi della cura dei malati. La Riforma del 2008, che ha trasferito le competenze della Sanità penitenziaria dal ministero di Giustizia al sistema sanitario nazionale è una grande incompiuta, con una palleggio di responsabilità tra medici e amministrazione penitenziaria e il disinteresse più totale di alcuni manager delle Asl che di carcerati non vogliono proprio sentirne parlare.
È giusto punire chi ha commesso un reato, ma è altrettanto opportuno non rendere disumana la permanenza nelle prigioni, soprattutto in vista di una rieducazione e di un cambiamento, che in queste condizioni appare veramente difficile.
L'opportunismo della politica si contorce tra la valutazione della perdita di voti che un provvedimento di amnistia comporterebbe e le conseguenze che esso avrebbe nelle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi e parla alla pancia dell'opinione pubblica, speculando sulle paure collettive di cui la nostra società è prigioniera.
Nelmaggio2014 l'Europa valuterà l'Italia sulla condizione delle carceri, esaminando l'adeguamento imposto dalla Corte europea dei diritti umani dopo la sentenza Torreggiani. Se il 75% dei detenuti di media sicurezza non starà fuori dalle celle per 8 ore al giorno scatteranno altre sanzioni.
Questa scadenza imposta da Bruxelles costringe a dare una brusca accelerata al processo di rinnovamento del sistema carcere, indipendentemente dalla volontà di rendere più umana la condizione in cui vivono i carcerati italiani.
La venuta di Giorgio Napolitano nel carcere di Poggioreale proprio nel giorno in cui si commemorano le quattro giornate di Napoli e si ricordano grandi figure di uomini come Salvo D'Acquisto, può sembrare inopportuna e stridente. Eppure assume una valenza tutta particolare. Se da una parte vuole essere una scossa per spingere la politica a prendere quei provvedimenti che rendano meno umiliante la vita nelle carceri, dall'altra vuole richiamare il nostro Paese, nato dal sacrificio di uomini giusti e coraggiosi, a non negare mai i diritti fondamentali, e a sperare sempre nel cambiamento di chi ha commesso dei reati. Un incoraggiamento e un' iniezione di fiducia di cui abbiamo un grande bisogno.
< Prec. Succ. >
Questa mattina il Capo dello Stato Giorgio Napolitano varcherà il portone della Casa circondariale "Giuseppe Salvia - Poggioreale". È una visita storica. Per la prima volta, infatti, un presidente della Repubblica entrerà nel penitenziario napoletano.
Ma è anche una decisione inaspettata, presa all'improvviso. Nonostante il grave momento politico che il Paese sta vivendo, il presidente ha voluto recarsi nell'Istituto di pena dedicato a Giuseppe Salvia, ed essere vicino ai duemila seicento sessanta detenuti attualmente rinchiusi.
È stata una delle poche personalità che ha fatto sentire più volte la sua voce per denunciare la drammatica condizione delle prigioni italiane. E proprio durante una sua visita nel carcere minorile di Nisida, nel 2011, disse che l'emergenza carcere è "una vergogna per il nostro Paese, che non ci fa dormire sonni tranquilli".
L'incontro del presidente Napolitano assume una grande importanza per il discorso che pronunzierà, o meglio per quella parola che i detenuti si aspettano di ascoltare: "Amnistia".
Perché, oggi, solo un provvedimento di clemenza può essere il punto di partenza per fare delle galere dei luoghi degni di un paese civile. Il carcere di Poggioreale rappresenta il simbolo del fallimento del sistema penitenziario. Sovraffollamento, penuria di lavoro e di attività intramurarie, misure alternative concesse con il contagocce, personale insufficiente e demotivato, rappresentano la sintesi della disfatta.
Se pensiamo che l'articolo 6 dell'ordinamento penitenziario, una legge di quasi 40 anni fa, distingueva i locali nei quali si deve svolgere la vita dei detenuti da quelli destinati al pernottamento, mentre oggi per 22 ore al giorno si resta chiusi nella propria cella, ci rendiamo conto degli anni e delle occasioni perse per costruire un carcere più umano.
Anche il regolamento di esecuzione della legge penitenziaria del 2000 che prevede l'abolizione dei divisori nei banconi delle sale colloqui, attraverso i quali un detenuto non riesce quasi neppure a toccare i figli e la moglie, in molte case di reclusione è rimasto lettera morta.
Per non parlare poi della cura dei malati. La Riforma del 2008, che ha trasferito le competenze della Sanità penitenziaria dal ministero di Giustizia al sistema sanitario nazionale è una grande incompiuta, con una palleggio di responsabilità tra medici e amministrazione penitenziaria e il disinteresse più totale di alcuni manager delle Asl che di carcerati non vogliono proprio sentirne parlare.
È giusto punire chi ha commesso un reato, ma è altrettanto opportuno non rendere disumana la permanenza nelle prigioni, soprattutto in vista di una rieducazione e di un cambiamento, che in queste condizioni appare veramente difficile.
L'opportunismo della politica si contorce tra la valutazione della perdita di voti che un provvedimento di amnistia comporterebbe e le conseguenze che esso avrebbe nelle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi e parla alla pancia dell'opinione pubblica, speculando sulle paure collettive di cui la nostra società è prigioniera.
Nelmaggio2014 l'Europa valuterà l'Italia sulla condizione delle carceri, esaminando l'adeguamento imposto dalla Corte europea dei diritti umani dopo la sentenza Torreggiani. Se il 75% dei detenuti di media sicurezza non starà fuori dalle celle per 8 ore al giorno scatteranno altre sanzioni.
Questa scadenza imposta da Bruxelles costringe a dare una brusca accelerata al processo di rinnovamento del sistema carcere, indipendentemente dalla volontà di rendere più umana la condizione in cui vivono i carcerati italiani.
La venuta di Giorgio Napolitano nel carcere di Poggioreale proprio nel giorno in cui si commemorano le quattro giornate di Napoli e si ricordano grandi figure di uomini come Salvo D'Acquisto, può sembrare inopportuna e stridente. Eppure assume una valenza tutta particolare. Se da una parte vuole essere una scossa per spingere la politica a prendere quei provvedimenti che rendano meno umiliante la vita nelle carceri, dall'altra vuole richiamare il nostro Paese, nato dal sacrificio di uomini giusti e coraggiosi, a non negare mai i diritti fondamentali, e a sperare sempre nel cambiamento di chi ha commesso dei reati. Un incoraggiamento e un' iniezione di fiducia di cui abbiamo un grande bisogno.
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Sri Lanka: l'ONU fixe un ultimatum pour enquêter sur les exactions
Le Parisien
Le Haut-Commissaire de l'ONU aux droits de l'homme, Navi Pillay, a fixé mercredi un ultimatum au Sri Lanka lui demandant de mener d'ici à mars une enquête crédible sur les allégations d'exactions commises pendant le conflit ethnique dans ce pays en 2009.
Le Haut-Commissaire de l'ONU aux droits de l'homme, Navi Pillay, a fixé mercredi un ultimatum au Sri Lanka lui demandant de mener d'ici à mars une enquête crédible sur les allégations d'exactions commises pendant le conflit ethnique dans ce pays en 2009.
"Le Haut-Commissaire encourage le gouvernement à établir d'ici à mars 2014 un processus national crédible" qui permette de demander aux responsables des crimes de répondre de leurs actes, a déclaré Mme Pillay dans un rapport présenté au Conseil des droits de l'homme de l'ONU.
"En l'absence" d'une telle enquête, la communauté internationale devra mettre en place ses propres mécanismes d'enquête", a-t-elle averti.
En mars 2012 et 2013, le Conseil des droits de l'homme de l'ONU avait adopté des résolutions exhortant le Sri Lanka à enquêter sur les allégations d'exactions commises pendant le conflit ethnique au Sri Lanka en 2009.
Depuis, les autorités sri-lankaises n'ont fait "aucun effort" pour mener une telle enquête, déplore le Haut-Commissaire.
Dans son rapport, elle dénonce également la "surveillance élevée" subie par les réfugiés qui sont revenus au Sri Lanka ainsi que les anciens détenus et le personnes ayant été réhabilitées.
Mme Pillay déplore aussi la persistance d'une "présence militaire considérable dans le nord" du pays, quatre ans après la fin du conflit.
Le conflit au Sri Lanka a duré de 1972 à mai 2009 et a fait, selon des estimations de l'ONU, environ 100.000 morts.
En avril 2011, l'ONU a publié un rapport accablant sur le Sri Lanka où pourraient avoir été commis des crimes de guerre en 2009 contre les civils. Des organisations de défense des droits de l'homme estiment que 40.000 civils ont été tués au cours des derniers mois de la guerre civile par les forces gouvernementales. Les rebelles tamouls ont aussi été accusés d'exactions et d'avoir utilisé des civils comme boucliers humains.
Colombo réfute en bloc ces accusations, et estime mener à bien son processus de réconciliation nationale.
Mercredi, l'ambassadeur du Sri Lanka auprès de l'ONU à Genève, Ravinatha Aryasinha, a estimé pour sa part que "le Conseil n'avait pas de mandat" pour demander une enquête internationale et a déclaré que son pays avait déjà mis en place des "mécanismes multiples" pour demander aux auteurs des éventuels crimes de répondre de leurs actes.
Il a également déploré que le Conseil porte une "attention disproportionnée au Sri Lanka". "Le Sri Lanka a besoin d'être encouragé au lieu de voir des obstacles mis sur sa route", a-t-il conclu.
"En l'absence" d'une telle enquête, la communauté internationale devra mettre en place ses propres mécanismes d'enquête", a-t-elle averti.
En mars 2012 et 2013, le Conseil des droits de l'homme de l'ONU avait adopté des résolutions exhortant le Sri Lanka à enquêter sur les allégations d'exactions commises pendant le conflit ethnique au Sri Lanka en 2009.
Depuis, les autorités sri-lankaises n'ont fait "aucun effort" pour mener une telle enquête, déplore le Haut-Commissaire.
Dans son rapport, elle dénonce également la "surveillance élevée" subie par les réfugiés qui sont revenus au Sri Lanka ainsi que les anciens détenus et le personnes ayant été réhabilitées.
Mme Pillay déplore aussi la persistance d'une "présence militaire considérable dans le nord" du pays, quatre ans après la fin du conflit.
Le conflit au Sri Lanka a duré de 1972 à mai 2009 et a fait, selon des estimations de l'ONU, environ 100.000 morts.
En avril 2011, l'ONU a publié un rapport accablant sur le Sri Lanka où pourraient avoir été commis des crimes de guerre en 2009 contre les civils. Des organisations de défense des droits de l'homme estiment que 40.000 civils ont été tués au cours des derniers mois de la guerre civile par les forces gouvernementales. Les rebelles tamouls ont aussi été accusés d'exactions et d'avoir utilisé des civils comme boucliers humains.
Colombo réfute en bloc ces accusations, et estime mener à bien son processus de réconciliation nationale.
Mercredi, l'ambassadeur du Sri Lanka auprès de l'ONU à Genève, Ravinatha Aryasinha, a estimé pour sa part que "le Conseil n'avait pas de mandat" pour demander une enquête internationale et a déclaré que son pays avait déjà mis en place des "mécanismes multiples" pour demander aux auteurs des éventuels crimes de répondre de leurs actes.
Il a également déploré que le Conseil porte une "attention disproportionnée au Sri Lanka". "Le Sri Lanka a besoin d'être encouragé au lieu de voir des obstacles mis sur sa route", a-t-il conclu.
El Senado mexicano debe poner fin a la impunidad de las violaciones de derechos humanos de las fuerzas armadas
Amnesty International
El sistema de justicia militar de México no se ocupa de las víctimas de las presuntas violaciones de derechos humanos cometidas por el ejército y la marina del país, pero el Senado mexicano tiene una oportunidad clave para cambiar esta situación, ha manifestado Amnistía Internacional hoy.
“Si la cámara legislativa mexicana quiere demostrar que está realmente decidida a hacer valer los derechos humanos, aprovechará esta oportunidad clave para reformar el sistema de justicia militar de una vez por todas y garantizar que la justicia civil investiga y enjuicia todos los casos de violaciones de derechos humanos cometidas por las fuerzas armadas”, ha señalado Daniel Zapico, director de Amnistía Internacional México.
“De este modo, México se ajustaría a las normas internacionales de derechos humanos, así como a los fallos que la Corte Interamericana de Derechos Humanos ha dictado sobre esta cuestión a lo largo de los últimos años.”
Numerosos mecanismos de derechos humanos de la ONU han recomendado que las autoridades mexicanas reformen el sistema de justicia militar, en particular que limiten su alcance y garanticen que el sistema de justicia civil se ocupa de la investigación y enjuiciamiento de los presuntos casos de violaciones de derechos humanos cometidas por las fuerzas armadas. La Corte Interamericana de Derechos Humanos y la Corte Suprema de Justicia de México han determinado además que el Estado tiene la obligación de hacerlo.
Con ocasión del debate en el Senado mexicano de un proyecto de ley de reforma del Código de Justicia Militar, Amnistía Internacional pide a los senadores que modifiquen el proyecto de ley presentado para garantizar que las violaciones de derechos humanos se investigan y enjuician en el sistema de justicia civil.
Amnistía Internacional México ha escrito a los miembros del Congreso mexicano y ha estado captando apoyos entre ellos, y su director, Daniel Zapico, hará hoy una presentación ante el Senado en el marco de una serie de sesiones públicas sobre el proyecto de ley de reforma del Código de Justicia Militar.
“La experiencia de Amnistía Internacional en el mundo, en la región de América y en México en particular muestra que la justicia militar es un obstáculo a la hora de poner fin a la impunidad de las violaciones de derechos humanos cometidas por las fuerzas armadas, pues carece de independencia, imparcialidad y transparencia”, ha afirmado Zapico.
“Desde la matanza de Tlatelolco de 1968 hasta la desapariciones forzadas de Nuevo Laredo de agosto de este año, Amnistía Internacional ha documentado una ausencia sistemática de investigación de las violaciones de derechos humanos cometidas por las fuerzas armadas mexicanas, lo que deja a la víctimas y a sus familiares sin acceso a la verdad y la justicia”, ha explicado Zapico.
Según el informe Aumento de las violaciones de derechos humanos y de la impunidad, que Amnistía Internacional presentará en el examen periódico universal de la ONU en octubre de 2013, desde 2006 ha aumentado el número de casos de violaciones graves de derechos humanos cometidas por las fuerzas armadas, y en la mayoría de ellos ha habido impunidad.
“Si la cámara legislativa mexicana quiere demostrar que está realmente decidida a hacer valer los derechos humanos, aprovechará esta oportunidad clave para reformar el sistema de justicia militar de una vez por todas y garantizar que la justicia civil investiga y enjuicia todos los casos de violaciones de derechos humanos cometidas por las fuerzas armadas”, ha señalado Daniel Zapico, director de Amnistía Internacional México.
“De este modo, México se ajustaría a las normas internacionales de derechos humanos, así como a los fallos que la Corte Interamericana de Derechos Humanos ha dictado sobre esta cuestión a lo largo de los últimos años.”
Numerosos mecanismos de derechos humanos de la ONU han recomendado que las autoridades mexicanas reformen el sistema de justicia militar, en particular que limiten su alcance y garanticen que el sistema de justicia civil se ocupa de la investigación y enjuiciamiento de los presuntos casos de violaciones de derechos humanos cometidas por las fuerzas armadas. La Corte Interamericana de Derechos Humanos y la Corte Suprema de Justicia de México han determinado además que el Estado tiene la obligación de hacerlo.
Con ocasión del debate en el Senado mexicano de un proyecto de ley de reforma del Código de Justicia Militar, Amnistía Internacional pide a los senadores que modifiquen el proyecto de ley presentado para garantizar que las violaciones de derechos humanos se investigan y enjuician en el sistema de justicia civil.
Amnistía Internacional México ha escrito a los miembros del Congreso mexicano y ha estado captando apoyos entre ellos, y su director, Daniel Zapico, hará hoy una presentación ante el Senado en el marco de una serie de sesiones públicas sobre el proyecto de ley de reforma del Código de Justicia Militar.
“La experiencia de Amnistía Internacional en el mundo, en la región de América y en México en particular muestra que la justicia militar es un obstáculo a la hora de poner fin a la impunidad de las violaciones de derechos humanos cometidas por las fuerzas armadas, pues carece de independencia, imparcialidad y transparencia”, ha afirmado Zapico.
“Desde la matanza de Tlatelolco de 1968 hasta la desapariciones forzadas de Nuevo Laredo de agosto de este año, Amnistía Internacional ha documentado una ausencia sistemática de investigación de las violaciones de derechos humanos cometidas por las fuerzas armadas mexicanas, lo que deja a la víctimas y a sus familiares sin acceso a la verdad y la justicia”, ha explicado Zapico.
Según el informe Aumento de las violaciones de derechos humanos y de la impunidad, que Amnistía Internacional presentará en el examen periódico universal de la ONU en octubre de 2013, desde 2006 ha aumentado el número de casos de violaciones graves de derechos humanos cometidas por las fuerzas armadas, y en la mayoría de ellos ha habido impunidad.
Carcere, Napolitano al parlamento: riflettere su amnistia o indulto
TM News
Capo dello Stato in visita a Poggioreale: pronto il messaggio a Camera. Cancellieri: riforma è priorità che non può attendere
Capo dello Stato in visita a Poggioreale: pronto il messaggio a Camera. Cancellieri: riforma è priorità che non può attendere
Roma, - Il Parlamento prenda in considerazione un provvedimento "di indulto o amnistia". E' l'invito del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel suo intervento durante la visita al carcere di Poggioreale, dove ha preannunciato un suo messaggio alla Camera non appena ci sarà "un momento di maggiore serenità". Sulla stessa linea del presidente, il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, che avverte: la riforma è una priorità che non può attendere.
"E' pronto il mio messaggio al Parlamento sulla situazione delle carceri", ha detto Napolitano, nell suo intervento spiegando che "per trasmetterlo aspetto soltanto un momento di maggiore serenità e attenzione politica perchè mi auguro venga letto e meditato".
Circa l'amnistia o l'indulto, il Capo dello Stato, ha spiegato che è un provvedimento che "non può prendere d'autorità il presidente della Repubblica, che non ne ha i poteri; nè il governo da solo", perchè " c'è bisogno di un consenso molto ampio del Parlamento, forse troppo ampio per come è stabilito con una modifica della norma originaria della Costituzione", ovvero la maggioranza dei due terzi. Ma questo vincolo, ha concluso sul punto Napolitano, "non deve essere un freno per esaminare fino in fondo la necessità di questo provvedimento".
"La riforma della giustizia è una priorità che non può più attendere. Bisogna mettere da parte schieramenti e contrapposizioni, avviandoci tutti insieme nella direzione di restituire ai nostri cittadini la speranza di un Paese più giusto, fondato sui valori di una democrazia reale e sostanziale". E' un passaggio del discorso che avrebbe dovuto pronunciare questa mattina a Genova il ministro Anna Maria Cancellieri, durante il congresso straordinario dell'Unione delle Camere Penali Italiane.
La partecipazione al convegno del ministro è stata però annullata all'ultimo momento a causa delle fibrillazioni in corso nel governo. A leggere l'intervento del Guardasigilli è stato il capo dell'ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, Domenico Carcano.
"Questo congresso - ha aggiunto il Guardasigilli- cade in un momento delicato e complesso per le condizioni generali del nostro Paese, sul piano politico, economico e sociale. In questo contesto -ha affermato- affrontare in modo risolutivo e definitivo i problemi della giustizia è ormai diventato un imperativo categorico cui nessuno può più sottrarsi".
"Il nostro Paese e i nostri cittadini -ha sottolineato Cancellieri- hanno bisogno di una giustizia rapida ed efficiente. Questo vale in tutti i settori ma -ha concluso il ministro- ancora di più in un campo, come quello penale, che vede coinvolti delicatissimi interessi ed in cui si è alla ricerca di un continuo equilibrio tra rispetto della legalità e garanzie di libertà".
"E' pronto il mio messaggio al Parlamento sulla situazione delle carceri", ha detto Napolitano, nell suo intervento spiegando che "per trasmetterlo aspetto soltanto un momento di maggiore serenità e attenzione politica perchè mi auguro venga letto e meditato".
Circa l'amnistia o l'indulto, il Capo dello Stato, ha spiegato che è un provvedimento che "non può prendere d'autorità il presidente della Repubblica, che non ne ha i poteri; nè il governo da solo", perchè " c'è bisogno di un consenso molto ampio del Parlamento, forse troppo ampio per come è stabilito con una modifica della norma originaria della Costituzione", ovvero la maggioranza dei due terzi. Ma questo vincolo, ha concluso sul punto Napolitano, "non deve essere un freno per esaminare fino in fondo la necessità di questo provvedimento".
"La riforma della giustizia è una priorità che non può più attendere. Bisogna mettere da parte schieramenti e contrapposizioni, avviandoci tutti insieme nella direzione di restituire ai nostri cittadini la speranza di un Paese più giusto, fondato sui valori di una democrazia reale e sostanziale". E' un passaggio del discorso che avrebbe dovuto pronunciare questa mattina a Genova il ministro Anna Maria Cancellieri, durante il congresso straordinario dell'Unione delle Camere Penali Italiane.
La partecipazione al convegno del ministro è stata però annullata all'ultimo momento a causa delle fibrillazioni in corso nel governo. A leggere l'intervento del Guardasigilli è stato il capo dell'ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, Domenico Carcano.
"Questo congresso - ha aggiunto il Guardasigilli- cade in un momento delicato e complesso per le condizioni generali del nostro Paese, sul piano politico, economico e sociale. In questo contesto -ha affermato- affrontare in modo risolutivo e definitivo i problemi della giustizia è ormai diventato un imperativo categorico cui nessuno può più sottrarsi".
"Il nostro Paese e i nostri cittadini -ha sottolineato Cancellieri- hanno bisogno di una giustizia rapida ed efficiente. Questo vale in tutti i settori ma -ha concluso il ministro- ancora di più in un campo, come quello penale, che vede coinvolti delicatissimi interessi ed in cui si è alla ricerca di un continuo equilibrio tra rispetto della legalità e garanzie di libertà".
Cina: liberati 92 bambini vittime del traffico umano. E della legge sul figlio unico
Asia News
In un’operazione di recupero gli agenti hanno salvato anche due donne e arrestato 301 trafficanti. I piccoli venivano rapiti nel sud e rivenduti in altre regioni. Un rapporto indipendente afferma che ogni anno nel Paese scompaiono 200mila bambini, ma appena lo 0,1% viene ritrovato. La politica di pianificazione familiare alimenta il traffico.
La legge sul figlio unico e una normativa debole in materia d'adozioni - oltre alla povertà e alla tradizionale preferenza verso il figlio maschio - hanno alimentato il traffico di bambini. Molte famiglie comprano le vittime della tratta per impiegarle come manodopera a basso costo, domestici, o per dare una sposa ai propri figli non sposati. In altri casi, molti di questi bambini vengono venduti a famiglie che vogliono adottare, o costretti a prostituirsi.
Il ministero della Pubblica sicurezza ha rivelato che, lo scorso anno, le forze dell'ordine hanno liberato 24mila donne e bambini. Erano stati rapiti per essere venduti al mercato delle adozioni e della prostituzione.
Secondo un rapporto diffuso dalla China National Radio, emittente che trasmette in tutto il Paese, ogni anno in Cina scompaiono circa 200mila bambini. Di questi, solo lo 0,1% viene ritrovato e liberato dalle maglie del racket.
In un’operazione di recupero gli agenti hanno salvato anche due donne e arrestato 301 trafficanti. I piccoli venivano rapiti nel sud e rivenduti in altre regioni. Un rapporto indipendente afferma che ogni anno nel Paese scompaiono 200mila bambini, ma appena lo 0,1% viene ritrovato. La politica di pianificazione familiare alimenta il traffico.
Pechino - La polizia cinese ha liberato 92 bambini rapiti da una rete di trafficanti di esseri umani. Gli agenti hanno salvato anche due donne e arrestato 301 persone coinvolte nel racket. Il ministero della Pubblica sicurezza ha parlato ieri dell'imponente operazione di recupero, che ha coperto 11 province del Paese. Secondo le autorità i trafficanti sequestravano i piccoli nelle province sud-occidentali dello Yunnan e del Sichuan per venderli in altre regioni.
La legge sul figlio unico e una normativa debole in materia d'adozioni - oltre alla povertà e alla tradizionale preferenza verso il figlio maschio - hanno alimentato il traffico di bambini. Molte famiglie comprano le vittime della tratta per impiegarle come manodopera a basso costo, domestici, o per dare una sposa ai propri figli non sposati. In altri casi, molti di questi bambini vengono venduti a famiglie che vogliono adottare, o costretti a prostituirsi.
Il ministero della Pubblica sicurezza ha rivelato che, lo scorso anno, le forze dell'ordine hanno liberato 24mila donne e bambini. Erano stati rapiti per essere venduti al mercato delle adozioni e della prostituzione.
Secondo un rapporto diffuso dalla China National Radio, emittente che trasmette in tutto il Paese, ogni anno in Cina scompaiono circa 200mila bambini. Di questi, solo lo 0,1% viene ritrovato e liberato dalle maglie del racket.
Iran: l'ex presidente Khatami chiede il rilascio di tutti i prigionieri politici
Aki
L'ex presidente iraniano, il riformista Mohammed Khatami, ha chiesto il rilascio di tutti i prigionieri politici rinchiusi nelle carceri della Repubblica islamica.
L'ex presidente iraniano, il riformista Mohammed Khatami, ha chiesto il rilascio di tutti i prigionieri politici rinchiusi nelle carceri della Repubblica islamica.
In un commento pubblicato sul suo sito web, Khatami, riferendosi alla decisione della Guida Suprema, Ali Khamenei, di concedere la grazia a 80 detenuti, molti dei quali arrestati durante le proteste antigovernative del 2009, ha affermato: "Sono felice di questa notizia, ma mi chiedo perché questo numero?
Tutti dovrebbero essere scarcerati, a meno che alcuni di loro non abbiano commesso realmente un crimine e siano stati giudicati colpevoli da un tribunale competente. Molti di loro non hanno fatto nulla - ha aggiunto l'ex presidente - molte delle accuse sono sbagliate". Senza nominarli esplicitamente, Khatami ha quindi auspicato la scarcerazione di Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, i due candidati alle presidenziali del 2009 agli arresti domiciliari da oltre due anni e mezzo con l'accusa di sedizione. "Ognuno dovrebbe impegnarsi perché siano revocati gli arresti domiciliari (a Mousavi e Karroubi, ndr) - ha concluso Khatami - Si dovrebbero compiere passi in questa direzione".
Tutti dovrebbero essere scarcerati, a meno che alcuni di loro non abbiano commesso realmente un crimine e siano stati giudicati colpevoli da un tribunale competente. Molti di loro non hanno fatto nulla - ha aggiunto l'ex presidente - molte delle accuse sono sbagliate". Senza nominarli esplicitamente, Khatami ha quindi auspicato la scarcerazione di Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, i due candidati alle presidenziali del 2009 agli arresti domiciliari da oltre due anni e mezzo con l'accusa di sedizione. "Ognuno dovrebbe impegnarsi perché siano revocati gli arresti domiciliari (a Mousavi e Karroubi, ndr) - ha concluso Khatami - Si dovrebbero compiere passi in questa direzione".
Per “segregare” i rom spesi 100 milioni in 7 anni. Senza risultati
Redattore Sociale
Allestimento, gestione e mantenimento dei “campi nomadi” di Milano, Napoli e Roma tra il 2005 e il 2011 sotto la lente del rapporto “Segregare costa” curato da Berenice, Compare, Lunaria e Osservazione. “Una vera e propria economia da ghetto” fallimentare
ROMA – Oltre 100 milioni di euro per allestire, gestire e mantenere i “campi nomadi” diMilano, Napoli e Roma. Una “vera e propria economia da ghetto” analizzata in tutte le sue componenti dal rapporto “Segregare costa” curato da Berenice, Compare, Lunaria e Osservazione e presentato oggi a Roma. Un rapporto che prende in considerazione tutti (o quasi) i capitoli di spesa delle diverse amministrazioni dal 2005 al 2011, per rispondere a chi giustifica il mantenimento dei campi e la mancata adozione di politiche abitative con la carenza di risorse pubbliche. “Il rapporto ricostruisce e analizza in dettaglio i costi e il fallimento delle politiche dei campi – spiega il testo – e denuncia l’urgenza di ripensare completamente i modelli e le pratiche di inclusione sociale e abitativa delle popolazioni rom”.
Spreco di risorse. Per mantenere i campi a Napoli sono stati spesi “almeno 24,4 milioni di euro, a Roma almeno 69,8 milioni ai quali si aggiungono almeno altri 9,3 milioni di euro per i progetti di scolarizzazione, mentre a Milano circa 2,7 milioni di euro le spese accertate, ma il dato è parziale”. Interventi sociali di formazione e inserimento lavorativo che, nonostante gli stanziamenti “non hanno raggiunto risultati significativi in termini di una reale autonomizzazione delle persone. Si tratta di soldi pubblici che potrebbero essere molto più utilmente impiegati in modo diverso: a tal fine è necessario che le istituzioni cambino del tutto il proprio approccio: non servono soluzioni “speciali”, “temporanee” e “ghettizzanti”, ma progetti di inclusione abitativa, sociale e lavorativa finalizzati alla reale autonomizzazione dei rom”.
Una ricerca ad ostacoli. Ricostruire tutte le spese compiute dalle diverse amministrazioni negli anni presi in considerazione dal rapporto non è stato facile, spiegano i curatori dello studio, e ai cento milioni probabilmente mancano ancora altre cifre a sei zeri. “La scarsa trasparenza e l’insufficiente livello di dettaglio dei documenti contabili, la difficoltà a reperire delibere e determinazioni, l’impossibilità di scorporare voci di spesa rilevanti per l’analisi delle politiche indirizzate ai rom da capitoli di spesa più generali – spiega il rapporto -, hanno infatti impedito di effettuare una completa ricostruzione dei costi delle politiche dei campi”. Tuttavia, l’analisi ha portato ad una stima della spesa annuale per le tre città, che per i sette anni presi in considerazione dallo studio è risultata essere di circa 15 milioni di euro.
Chiudere i campi. Secondo le quattro organizzazioni curatrici del rapporto, è arrivata l’ora di mettere fine ai “piani nomadi” sostituendoli con “Piani di chiusura dei campi nomadi”. “Questi ultimi non hanno naturalmente niente a che vedere con le vergognose politiche degli sgomberi – spiega il rapporto - che accompagnano le politiche dei campi. Pianificare la chiusura di questi ultimi significa prefigurare soluzioni abitative alternative, concordando con i residenti tempi e modalità del cambiamento”. Le alternative possibili ci sono: “dal sostegno all’inserimento in abitazioni ordinarie o in case di edilizia popolare pubblica, all’housingsociale, alla promozione di interventi di auto-recupero di strutture pubbliche inutilizzate”.
ROMA – Oltre 100 milioni di euro per allestire, gestire e mantenere i “campi nomadi” diMilano, Napoli e Roma. Una “vera e propria economia da ghetto” analizzata in tutte le sue componenti dal rapporto “Segregare costa” curato da Berenice, Compare, Lunaria e Osservazione e presentato oggi a Roma. Un rapporto che prende in considerazione tutti (o quasi) i capitoli di spesa delle diverse amministrazioni dal 2005 al 2011, per rispondere a chi giustifica il mantenimento dei campi e la mancata adozione di politiche abitative con la carenza di risorse pubbliche. “Il rapporto ricostruisce e analizza in dettaglio i costi e il fallimento delle politiche dei campi – spiega il testo – e denuncia l’urgenza di ripensare completamente i modelli e le pratiche di inclusione sociale e abitativa delle popolazioni rom”.
Spreco di risorse. Per mantenere i campi a Napoli sono stati spesi “almeno 24,4 milioni di euro, a Roma almeno 69,8 milioni ai quali si aggiungono almeno altri 9,3 milioni di euro per i progetti di scolarizzazione, mentre a Milano circa 2,7 milioni di euro le spese accertate, ma il dato è parziale”. Interventi sociali di formazione e inserimento lavorativo che, nonostante gli stanziamenti “non hanno raggiunto risultati significativi in termini di una reale autonomizzazione delle persone. Si tratta di soldi pubblici che potrebbero essere molto più utilmente impiegati in modo diverso: a tal fine è necessario che le istituzioni cambino del tutto il proprio approccio: non servono soluzioni “speciali”, “temporanee” e “ghettizzanti”, ma progetti di inclusione abitativa, sociale e lavorativa finalizzati alla reale autonomizzazione dei rom”.
Una ricerca ad ostacoli. Ricostruire tutte le spese compiute dalle diverse amministrazioni negli anni presi in considerazione dal rapporto non è stato facile, spiegano i curatori dello studio, e ai cento milioni probabilmente mancano ancora altre cifre a sei zeri. “La scarsa trasparenza e l’insufficiente livello di dettaglio dei documenti contabili, la difficoltà a reperire delibere e determinazioni, l’impossibilità di scorporare voci di spesa rilevanti per l’analisi delle politiche indirizzate ai rom da capitoli di spesa più generali – spiega il rapporto -, hanno infatti impedito di effettuare una completa ricostruzione dei costi delle politiche dei campi”. Tuttavia, l’analisi ha portato ad una stima della spesa annuale per le tre città, che per i sette anni presi in considerazione dallo studio è risultata essere di circa 15 milioni di euro.
Chiudere i campi. Secondo le quattro organizzazioni curatrici del rapporto, è arrivata l’ora di mettere fine ai “piani nomadi” sostituendoli con “Piani di chiusura dei campi nomadi”. “Questi ultimi non hanno naturalmente niente a che vedere con le vergognose politiche degli sgomberi – spiega il rapporto - che accompagnano le politiche dei campi. Pianificare la chiusura di questi ultimi significa prefigurare soluzioni abitative alternative, concordando con i residenti tempi e modalità del cambiamento”. Le alternative possibili ci sono: “dal sostegno all’inserimento in abitazioni ordinarie o in case di edilizia popolare pubblica, all’housingsociale, alla promozione di interventi di auto-recupero di strutture pubbliche inutilizzate”.
venerdì 27 settembre 2013
Indonesia - Nuovo naufragio di boat-people in viaggio verso l'Australia
MISNA
Sono almeno 20 e in maggioranza bambini le vittime dell’ennesimo naufragio di boat-people nel tentativo di raggiungere le coste australiane. Altrettanti i piccoli dispersi tra quanti si trovavano a bordo dell’imbarcazione partita dalle coste dell’isola indonesiana di Java diretta vero Christmas Island, il lembo di terra australiana più prossimo al continente asiatico, e affondata poche ore fa.
Secondo le fonti della polizia indonesiana, a bordo vi sarebbero state 120 persone e di queste soltanto 25 adulti sono stati finora tratti in salvo.
L’ennesima tragedia del mare che vede coinvolti viaggiatori alla ricerca di sicurezza in Australia rischia di inasprire ulteriormente il dibattito in corso sui nuovi provvedimenti che le autorità di Canberra hanno deciso di attuare verso i boat-people. Una serie di iniziative all’insegna del respingimento quando possibile, oppure – per quanti venissero fermati – l’invio nei campi di raccolta e scrutinio extraterritoriali dell’isola di Manus, in Papua-Nuova Guinea e dell’isola-stato di Nauru. Nessuno verrà più accolto sul territorio australiano se non dopo avere ottenuto il pieno riconoscimento del titolo di rifugiato.
Misure che il neo-premier Tony Abbott ha deciso di applicare il prima possibile e anche per questo ha previsto il viaggio della prossima settimana in Indonesia, il primo all’estero dall’inizio del suo mandato il 18 settembre. Ieri Abbott aveva anticipato al ministro degli Esteri indonesian Marty Natalegawa in visita, che è sua intenzione che ogni imbarcazione fermata al confine delle acque territoriali indonesiane venga respinta verso quel pae. Un’anticipazione condannata dagli indonesiani che, in un comunicato emesso al rientro in patria di Natalegawa, parlano oggi di un provvedimento “che metterebbe a serio rischio la stretta collaborazione e la fiducia tra i due paesi”.
Secondo le fonti della polizia indonesiana, a bordo vi sarebbero state 120 persone e di queste soltanto 25 adulti sono stati finora tratti in salvo.
L’ennesima tragedia del mare che vede coinvolti viaggiatori alla ricerca di sicurezza in Australia rischia di inasprire ulteriormente il dibattito in corso sui nuovi provvedimenti che le autorità di Canberra hanno deciso di attuare verso i boat-people. Una serie di iniziative all’insegna del respingimento quando possibile, oppure – per quanti venissero fermati – l’invio nei campi di raccolta e scrutinio extraterritoriali dell’isola di Manus, in Papua-Nuova Guinea e dell’isola-stato di Nauru. Nessuno verrà più accolto sul territorio australiano se non dopo avere ottenuto il pieno riconoscimento del titolo di rifugiato.
Misure che il neo-premier Tony Abbott ha deciso di applicare il prima possibile e anche per questo ha previsto il viaggio della prossima settimana in Indonesia, il primo all’estero dall’inizio del suo mandato il 18 settembre. Ieri Abbott aveva anticipato al ministro degli Esteri indonesian Marty Natalegawa in visita, che è sua intenzione che ogni imbarcazione fermata al confine delle acque territoriali indonesiane venga respinta verso quel pae. Un’anticipazione condannata dagli indonesiani che, in un comunicato emesso al rientro in patria di Natalegawa, parlano oggi di un provvedimento “che metterebbe a serio rischio la stretta collaborazione e la fiducia tra i due paesi”.
Usa, Ohio. Ultimo condannato a morte giustiziato con ”pentorbital”
Blitz Quotidiano
NEW YORK, – Harry Mitts Jr e’ stato sottoposto alla pena capitale in Ohio, per aver ucciso nel 1994 un uomo afro-americano dopo averlo insultato con epiteti razzisti, e potrebbe essere l’ultimo condannato giustiziato con il ‘pentorbital’.
NEW YORK, – Harry Mitts Jr e’ stato sottoposto alla pena capitale in Ohio, per aver ucciso nel 1994 un uomo afro-americano dopo averlo insultato con epiteti razzisti, e potrebbe essere l’ultimo condannato giustiziato con il ‘pentorbital’.
L’esecuzione di Mitts – avvenuta nel carcere di Lucasville – e’ avvenuta infatti con una iniezione letale del farmaco divenuto negli ultimi anni il ‘preferito’ delle camere della morte americane, ma i produttori del ‘pentorbital’ hanno ritirato il permesso al suo uso per le esecuzioni.
Alle prigioni di una serie di stati rimangono al momento poche fiale di ‘pentorbital’. Nel Texas – dove avviene il numero di esecuzioni piu’ alto degli Stati Uniti – le ultime fiale scadono a fine settembre e le autorita’ non sanno ancora cosa useranno per le prossime sette esecuzioni gia’ in calendario. Il condannato a morte dell’Ohio, Mitts Jr., prima di venire messo a morte ha chiesto alla famiglia della vittima di perdonarlo.
Bolivia: a un mese da tragedia del carcere di Palmasola la Chiesa chiede un nuovo indulto
Radio Vaticana
"Purtroppo, il decreto presidenziale di indulto approvato senza prendere in considerazione le osservazioni e le proposte delle diverse istituzioni che si occupano del settore penitenziario non corrisponde agli intenti umanitari del presidente Evo Morales e non contribuisce neanche a mitigare la scandalosa situazione provocata dai ritardi della giustizia e la crescente violenza nei carceri".
È la posizione espressa dalla Chiesa boliviana in un comunicato nel quale giudica negativamente la portata limitata dell'indulto dello scorso 16 settembre che "vedrà fuori dal carcere appena 601 persone" in un sistema penitenziario segnato dal sovraffollamento causato in gran parte dai ritardi della giustizia.
La nota afferma che a beneficiare dell'indulto per sentenze penali di meno di otto anni saranno solo 18 adulti, 34 adolescenti e giovani, 12 malati, 15 malati gravi, 2 handicappati e 3 padri o madri di famiglia, mentre gli altri sono detenuti in via cautelare per delitti la cui pena è di meno di 4 anni.
"Di conseguenza, siamo convinti che ci sia stato un errore di valutazione, perché se la decisione è stata presa deliberatamente sulla base di questa previsione, rappresenta una beffa contro la popolazione carceraria", si legge nel comunicato firmato da mons. Jesús Juárez Párraga, arcivescovo di Sucre e responsabile della Pastorale penitenziaria e dal sacerdote Leonardo da Silva Costa, Coordinatore nazionale della Pastorale penitenziaria.
Tra le proposte della Chiesa spiccano un nuovo provvedimento presidenziale di clemenza che contempli l'estensione dell'amnistia e la riorganizzazione integrale del sistema penitenziario: nuove strutture carcerarie, efficienza del sistema giudiziario e programmi di riabilitazione e di reinserimento sociale. La Chiesa rinnova il suo impegno pastorale ad accompagnare spiritualmente le persone private della loro libertà e ad appoggiare le istituzioni responsabili della formazione e dell'assistenza sanitaria, giuridica, psicologica ed economica dei detenuti. Nella nota i vescovi colgono l'occasione per rinnovare la vicinanza della Chiesa alle famiglie e alle persone che hanno perso i loro cari nella tragica rivolta del 23 agosto nel carcere di Palmasola, nella quale persero la vita 30 persone tra cui un bambino.
"Purtroppo, il decreto presidenziale di indulto approvato senza prendere in considerazione le osservazioni e le proposte delle diverse istituzioni che si occupano del settore penitenziario non corrisponde agli intenti umanitari del presidente Evo Morales e non contribuisce neanche a mitigare la scandalosa situazione provocata dai ritardi della giustizia e la crescente violenza nei carceri".
È la posizione espressa dalla Chiesa boliviana in un comunicato nel quale giudica negativamente la portata limitata dell'indulto dello scorso 16 settembre che "vedrà fuori dal carcere appena 601 persone" in un sistema penitenziario segnato dal sovraffollamento causato in gran parte dai ritardi della giustizia.
La nota afferma che a beneficiare dell'indulto per sentenze penali di meno di otto anni saranno solo 18 adulti, 34 adolescenti e giovani, 12 malati, 15 malati gravi, 2 handicappati e 3 padri o madri di famiglia, mentre gli altri sono detenuti in via cautelare per delitti la cui pena è di meno di 4 anni.
"Di conseguenza, siamo convinti che ci sia stato un errore di valutazione, perché se la decisione è stata presa deliberatamente sulla base di questa previsione, rappresenta una beffa contro la popolazione carceraria", si legge nel comunicato firmato da mons. Jesús Juárez Párraga, arcivescovo di Sucre e responsabile della Pastorale penitenziaria e dal sacerdote Leonardo da Silva Costa, Coordinatore nazionale della Pastorale penitenziaria.
Tra le proposte della Chiesa spiccano un nuovo provvedimento presidenziale di clemenza che contempli l'estensione dell'amnistia e la riorganizzazione integrale del sistema penitenziario: nuove strutture carcerarie, efficienza del sistema giudiziario e programmi di riabilitazione e di reinserimento sociale. La Chiesa rinnova il suo impegno pastorale ad accompagnare spiritualmente le persone private della loro libertà e ad appoggiare le istituzioni responsabili della formazione e dell'assistenza sanitaria, giuridica, psicologica ed economica dei detenuti. Nella nota i vescovi colgono l'occasione per rinnovare la vicinanza della Chiesa alle famiglie e alle persone che hanno perso i loro cari nella tragica rivolta del 23 agosto nel carcere di Palmasola, nella quale persero la vita 30 persone tra cui un bambino.
giovedì 26 settembre 2013
Letta all'Onu: priorità a moratoria mondiale pena morte Lo ha detto parlando davanti all'Assemblea Generale
TMNews
New York, L'Italia "dovrebbe continuare a dare priorità alla campagna per una moratoria mondiale sulla pena di morte". Lo ha detto il presidente del Consiglio Enrico Letta, durante il discorso pronunciato davanti all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riunita al Palazzo di Vetro di New York per la 68esima sessione.
Il presidente del Consiglio ha anche auspicato che l'Assemblea Generale "non smetta mai di agire contro l'intolleranza religiosa e il fondamentalismo".
Rapporto di Amnesty International sulla Francia: "numero record" di sgomberi forzati di rom
Amnesty International
In Francia, nella prima metà del 2013, oltre 10.000 rom sono stati sgomberati da insediamenti informali. Lo ha denunciato, in un rapporto pubblicato oggi, Amnesty International che ha accusato il governo francese di non aver tenuto fede alla promessa di fermare il circolo vizioso degli sgomberi forzati delle comunità rom, che hanno raggiunto un numero record. L'organizzazione per i diritti umani ha chiesto l'introduzione del divieto di eseguire sgomberi forzati.
"In Francia non esiste alcuna protezione efficace contro gli sgomberi forzati. Nella maggior parte dei casi, questi vengono eseguiti in un clima ostile, senza che sia offerto alcun alloggio alternativo. I rom sono così condannati a una vita di costante insicurezza e a vagare da un campo informale a un altro. Gli sgomberi forzati dovrebbero essere vietati per legge" - ha dichiarato John Dalhuisen, direttore del Programma Europa e Asia Centrale di Amnesty International.
In Francia vivono circa 20.000 migranti rom, in gran parte originari di Romania, Bulgaria ed ex Jugoslavia, quasi tutti fuggiti da una condizione di povertà cronica e discriminazione. Un quarto della popolazione rom vive nelle regioni di Lione e Lilla.
Quando, l'anno scorso, il presidente Francois Hollande è salito al potere, ha promesso un cambiamento complessivo di tono e di politiche nei confronti dei rom, ma ci sono stati pochi cambiamenti effettivi. Nell'agosto 2012, il governo ha emanato linee guida sulle misure che devono essere prese prima e durante gli sgomberi forzati e ha istituito un comitato interministeriale per coordinare l'azione politica.
"Le nuove misure non sono state prese per porre fine agli sgomberi forzati e non sono in linea con gli standard internazionali sui diritti umani. Le linee guida sono discrezionali e sono seguite in modo incoerente, mentre il comitato interministeriale è privo di peso politico; nonostante le sue buone intenzioni, i suoi sforzi sono continuamente minati dalla pressione per eseguire sgomberi a tutti i costi" - ha proseguito Dalhuisen.
Gli sgomberi forzati si susseguono a un ritmo allarmante. Il rapporto di Amnesty International, "Condannati a vagare. Gli sgomberi forzati dei rom in Francia", esamina cosa è accaduto a un anno di distanza dalla pubblicazione delle linee guida.
All'inizio dell'estate del 2013, una delegazione di Amnesty International ha visitato il più grande campo informale di Lilla, con una popolazione di 800 persone. Il 18 settembre il campo è stato sgomberato. A oggi, le autorità locali hanno trovato alloggio solo per tre famiglie, mentre gran parte degli altri si è spostata in campi informali nelle città vicine.
Adela, 26 anni, madre di quattro figli, ha subito 15 sgomberi forzati in 10 anni: "Se non c'è alcun alloggio alternativo, se non possono fare nulla per aiutarci, perché non ci lasciano stare qui? Non abbiamo un posto dove andare, non possiamo dormire in strada come i senzatetto" - ha protestato.
Amnesty International chiede la modifica delle linee guida in modo che possano esserci consultazioni effettive con le comunità rom, queste siano informate sugli sgomberi in programma in modo adeguato e con ragionevole anticipo e siano loro offerte alternative abitative. Tutti gli sgomberi forzati, secondo l'organizzazione per i diritti umani dovrebbero essere proibiti per legge.
"Le comunità rom continuano a essere espulse dalle loro abitazioni, senza essere consultate né informate in modo appropriato. Spesso, non hanno altre scelta che cercare un riparo in altri campi informali" - ha sottolineato Dalhuisen. "Il governo francese deve rispettare i suoi impegni internazionali e porre in essere misure efficaci di protezione contro gli sgomberi forzati".
In Francia, nella prima metà del 2013, oltre 10.000 rom sono stati sgomberati da insediamenti informali. Lo ha denunciato, in un rapporto pubblicato oggi, Amnesty International che ha accusato il governo francese di non aver tenuto fede alla promessa di fermare il circolo vizioso degli sgomberi forzati delle comunità rom, che hanno raggiunto un numero record. L'organizzazione per i diritti umani ha chiesto l'introduzione del divieto di eseguire sgomberi forzati.
"In Francia non esiste alcuna protezione efficace contro gli sgomberi forzati. Nella maggior parte dei casi, questi vengono eseguiti in un clima ostile, senza che sia offerto alcun alloggio alternativo. I rom sono così condannati a una vita di costante insicurezza e a vagare da un campo informale a un altro. Gli sgomberi forzati dovrebbero essere vietati per legge" - ha dichiarato John Dalhuisen, direttore del Programma Europa e Asia Centrale di Amnesty International.
In Francia vivono circa 20.000 migranti rom, in gran parte originari di Romania, Bulgaria ed ex Jugoslavia, quasi tutti fuggiti da una condizione di povertà cronica e discriminazione. Un quarto della popolazione rom vive nelle regioni di Lione e Lilla.
Quando, l'anno scorso, il presidente Francois Hollande è salito al potere, ha promesso un cambiamento complessivo di tono e di politiche nei confronti dei rom, ma ci sono stati pochi cambiamenti effettivi. Nell'agosto 2012, il governo ha emanato linee guida sulle misure che devono essere prese prima e durante gli sgomberi forzati e ha istituito un comitato interministeriale per coordinare l'azione politica.
"Le nuove misure non sono state prese per porre fine agli sgomberi forzati e non sono in linea con gli standard internazionali sui diritti umani. Le linee guida sono discrezionali e sono seguite in modo incoerente, mentre il comitato interministeriale è privo di peso politico; nonostante le sue buone intenzioni, i suoi sforzi sono continuamente minati dalla pressione per eseguire sgomberi a tutti i costi" - ha proseguito Dalhuisen.
Gli sgomberi forzati si susseguono a un ritmo allarmante. Il rapporto di Amnesty International, "Condannati a vagare. Gli sgomberi forzati dei rom in Francia", esamina cosa è accaduto a un anno di distanza dalla pubblicazione delle linee guida.
All'inizio dell'estate del 2013, una delegazione di Amnesty International ha visitato il più grande campo informale di Lilla, con una popolazione di 800 persone. Il 18 settembre il campo è stato sgomberato. A oggi, le autorità locali hanno trovato alloggio solo per tre famiglie, mentre gran parte degli altri si è spostata in campi informali nelle città vicine.
Adela, 26 anni, madre di quattro figli, ha subito 15 sgomberi forzati in 10 anni: "Se non c'è alcun alloggio alternativo, se non possono fare nulla per aiutarci, perché non ci lasciano stare qui? Non abbiamo un posto dove andare, non possiamo dormire in strada come i senzatetto" - ha protestato.
Amnesty International chiede la modifica delle linee guida in modo che possano esserci consultazioni effettive con le comunità rom, queste siano informate sugli sgomberi in programma in modo adeguato e con ragionevole anticipo e siano loro offerte alternative abitative. Tutti gli sgomberi forzati, secondo l'organizzazione per i diritti umani dovrebbero essere proibiti per legge.
"Le comunità rom continuano a essere espulse dalle loro abitazioni, senza essere consultate né informate in modo appropriato. Spesso, non hanno altre scelta che cercare un riparo in altri campi informali" - ha sottolineato Dalhuisen. "Il governo francese deve rispettare i suoi impegni internazionali e porre in essere misure efficaci di protezione contro gli sgomberi forzati".
mercoledì 25 settembre 2013
Pena di morte in Iran dall'inizio dell'anno quasi 400 esecuzioni - 4 curdi rischiamo l'esecuzione
Corriere della Sera - Amnesty International
Chi ha giudicato la scarcerazione di Nasrin Sotoudeh e di altre decine di attivisti politici e per i diritti umani una svolta epocale, un segno definitivo di discontinuità tra il neo presidente Hassan Rouhani e il passato, potrebbe ricredersi presto.
I fratelli Jahangir e Jamshid Dehgani, Hamed Ahmadi e Kamal Molayee, quattro curdi iraniani, rischiano di essere messi a morte da un giorno all’altro. La loro condanna è stata ratificata dalla Corte suprema e un funzionario della prigione di Ghezel Hezar, nei pressi della capitale Teheran, gliel’ha fatto sapere in via confidenziale.
I quattro curdi sono stati arrestati nel 2009 e accusati, insieme ad altre sei persone, dell’assassinio di un importante esponente del clero sunnita, uno dei pochi in buoni rapporti con la dirigenza sciita iraniana. Il reato: atti ostili contro Dio e corruzione in Terra.
Il processo è stato segnato da enormi irregolarità. Intanto, la data dell’arresto precederebbe di diversi mesi l’omicidio; gli imputati non hanno potuto essere assistiti da un avvocato sia prima che durante il processo e hanno denunciato di essere stati costretti a firmare documenti senza poterli leggere, a causa delle torture e della minaccia che, in caso contrario, vi sarebbero state ripercussioni sui familiari.
In Iran la pena di morte è letteralmente all’ordine del giorno. Nel 2013, le esecuzioni rese note dalle autorità sono state già 236, un decimo delle quali solo questo mese. Le organizzazioni per i diritti umani protestano (anche convideo di artisti in esilio) e denunciano altre 160 esecuzioni avvenute in segreto A dicembre, il macabro record del 2012 potrebbe venire persino superato.
Almeno altri 20 curdi sono nel braccio della morte della prigione di Raja’i Shahr.
Oggi, nel giorno in cui è prevista un’altra impiccagione di un minorenne al momento del reato, il presidente Rouhani è all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dove alla fine del 2012 111 stati membri hanno approvato una risoluzione per una moratoria globale sulle esecuzioni: quale migliore occasione per chiedere al presidente iraniano di fermare il boia?
Aggiornamento: l’esecuzione di un minorenne prevista oggi è stata sospesa. C’è però il rischio che abbia luogo quando l’attenzione sul caso sarà calata.
Chi ha giudicato la scarcerazione di Nasrin Sotoudeh e di altre decine di attivisti politici e per i diritti umani una svolta epocale, un segno definitivo di discontinuità tra il neo presidente Hassan Rouhani e il passato, potrebbe ricredersi presto.
I fratelli Jahangir e Jamshid Dehgani, Hamed Ahmadi e Kamal Molayee, quattro curdi iraniani, rischiano di essere messi a morte da un giorno all’altro. La loro condanna è stata ratificata dalla Corte suprema e un funzionario della prigione di Ghezel Hezar, nei pressi della capitale Teheran, gliel’ha fatto sapere in via confidenziale.
I quattro curdi sono stati arrestati nel 2009 e accusati, insieme ad altre sei persone, dell’assassinio di un importante esponente del clero sunnita, uno dei pochi in buoni rapporti con la dirigenza sciita iraniana. Il reato: atti ostili contro Dio e corruzione in Terra.
Il processo è stato segnato da enormi irregolarità. Intanto, la data dell’arresto precederebbe di diversi mesi l’omicidio; gli imputati non hanno potuto essere assistiti da un avvocato sia prima che durante il processo e hanno denunciato di essere stati costretti a firmare documenti senza poterli leggere, a causa delle torture e della minaccia che, in caso contrario, vi sarebbero state ripercussioni sui familiari.
In Iran la pena di morte è letteralmente all’ordine del giorno. Nel 2013, le esecuzioni rese note dalle autorità sono state già 236, un decimo delle quali solo questo mese. Le organizzazioni per i diritti umani protestano (anche convideo di artisti in esilio) e denunciano altre 160 esecuzioni avvenute in segreto A dicembre, il macabro record del 2012 potrebbe venire persino superato.
Almeno altri 20 curdi sono nel braccio della morte della prigione di Raja’i Shahr.
Oggi, nel giorno in cui è prevista un’altra impiccagione di un minorenne al momento del reato, il presidente Rouhani è all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dove alla fine del 2012 111 stati membri hanno approvato una risoluzione per una moratoria globale sulle esecuzioni: quale migliore occasione per chiedere al presidente iraniano di fermare il boia?
Aggiornamento: l’esecuzione di un minorenne prevista oggi è stata sospesa. C’è però il rischio che abbia luogo quando l’attenzione sul caso sarà calata.
La Autoridad Palestina debe poner fin al uso excesivo de la fuerza policial en las manifestaciones
Amnesty International
La policía y las fuerzas de seguridad de la Autoridad Palestina en la Cisjordania ocupada deben dejar de hacer uso de fuerza innecesaria y excesiva contra manifestantes y deben rendir cuentas cuando cometan violaciones de derechos humanos. Así lo ha manifestado hoy Amnistía Internacional.
Un nuevo informe publicado hoy (en inglés) expone con detalle cómo la policía y las fuerzas de seguridad han llevado a cabo repetidamente ataques ilegales, sin que mediara provocación, contra manifestantes pacíficos. También acusa a los dirigentes de la Autoridad Palestina de permitir que esas actuaciones se lleven a cabo impunemente.
“Las normas relativas a la actuación policial durante las manifestaciones en Cisjordania siguen sin cumplir en absoluto lo establecido por el derecho internacional -ha manifestado Philip Luther, director del Programa para Oriente Medio y el Norte de África de Amnistía Internacional-. A consecuencia de ello, el derecho a la libertad de expresión y reunión se está viendo seriamente erosionado.”
Durante los sucesos del 30 de junio y 1 de julio del año pasado, los miembros de la policía y las fuerzas de seguridad, algunos de ellos vestidos de civil, atacaron violentamente a manifestantes pacíficos que protestaban por una reunión celebrada en Ramala entre el presidente palestino, Mahmud Abbas, y un ministro del gobierno israelí. Al menos cinco manifestantes requirieron tratamiento hospitalario. La violencia desató la indignación pública y, tras los sucesos, el presidente Abbas anunció que había designado un Comité de Investigación Independiente para examinar la conducta de la policía y las fuerzas de seguridad. Por su parte, el ministro del Interior emprendió también una investigación interna.
Más de un año después, la Autoridad Palestina aún no ha publicado el informe completo de la investigación independiente, aunque ha desvelado un resumen de las conclusiones, entre ellas la de que la policía y las fuerzas de seguridad de la Autoridad Palestina utilizaron fuerza “innecesaria”, “injustificada” y “desproporcionada” contra manifestantes pacíficos que no suponían un peligro y contra periodistas, y actuaron fuera de la ley. Al parecer, la investigación interna del Ministerio del Interior ha llegado a conclusiones similares, aunque su informe tampoco se ha hecho público.
Una mujer de 23 años que fue hospitalizada tras la violencia dijo a Amnistía Internacional:
“Me atacó un policía vestido de civil que me agarró, me arañó el brazo con las uñas y me dio patadas en las piernas […] Luego me atacó un policía de uniforme que me dio tal golpe con la porra en la cabeza que me hizo caer al suelo.”
“Pese a las conclusiones del Comité de Investigación Independiente, la Autoridad Palestina no ha procesado a ningún agente de policía o de las fuerzas de seguridad por la violencia perpetrada contra manifestantes pacíficos y por otras conductas ilegales durante los sucesos del 30 de junio y el 1 de julio del año pasado en Ramala”, ha manifestado Philip Luther. “Esa impunidad fomenta inevitablemente nuevos abusos, tal como han demostrado los incidentes ulteriores en los que, desde mediados de 2012, las fuerzas de la Autoridad Palestina han hecho uso de fuerza excesiva contra manifestantes.”
Los incidentes más recientes han tenido lugar en julio y agosto de 2013, cuando, al parecer, la policía y las fuerzas de seguridad de la Autoridad Palestina atacaron violentamente a manifestantes pacíficos al menos en cuatro ocasiones diferentes. Algunos de esos ataques los perpetraron agentes vestidos de civil que agredieron y trataron de intimidar a mujeres que se manifestaban y a periodistas que estaban informando sobre las protestas.
Las fuerzas de seguridad también han estado implicadas en la muerte de dos palestinos en los últimos meses. El 8 de mayo, Khaleda Kawazbeh murió en circunstancias no aclaradas durante una redada policial en el poblado de Se’ir, cerca de Hebrón, y otras ocho personas resultaron heridas. El 27 de agosto, Amjad Odeh, de 37 años, murió tras recibir un disparo en la cabeza, realizado al parecer por la policía, durante una protesta.
“La Autoridad Palestina debe poner fin urgentemente a este patrón de abusos por parte de su policía y sus fuerzas de seguridad, y debe romper el círculo de impunidad que los fomenta”, ha manifestado Philip Luther. “La Autoridad Palestina debe garantizar que los policías y otros miembros de las fuerzas de seguridad que cometan actos ilegales contra manifestantes u otras personas rinden cuentas mediante procesamientos penales, y debe garantizar asimismo que todo el personal encargado de hacer cumplir la ley recibe formación adecuada para respetar los derechos durante la actuación policial relativa a las manifestaciones.”
Amnistía Internacional pide asimismo a la Unión Europea, Estados Unidos y otros gobiernos donantes que han prestado ayuda económica a la Autoridad Palestina para que imparta formación a su policía y sus fuerzas de seguridad que exijan que se rindan cuentas en virtud del derecho y las normas internacionales de derechos humanos.
“Los donantes internacionales deben dejar claro a los dirigentes de la Autoridad Palestina que no están dispuestos a tolerar violaciones constantes de derechos humanos por parte de la policía y las fuerzas de seguridad palestinas, y que la asistencia futura depende de que los dirigentes de la Autoridad Palestina garanticen una rendición total de cuentas”, ha manifestado Philip Luther.
La policía y las fuerzas de seguridad de la Autoridad Palestina en la Cisjordania ocupada deben dejar de hacer uso de fuerza innecesaria y excesiva contra manifestantes y deben rendir cuentas cuando cometan violaciones de derechos humanos. Así lo ha manifestado hoy Amnistía Internacional.
Un nuevo informe publicado hoy (en inglés) expone con detalle cómo la policía y las fuerzas de seguridad han llevado a cabo repetidamente ataques ilegales, sin que mediara provocación, contra manifestantes pacíficos. También acusa a los dirigentes de la Autoridad Palestina de permitir que esas actuaciones se lleven a cabo impunemente.
“Las normas relativas a la actuación policial durante las manifestaciones en Cisjordania siguen sin cumplir en absoluto lo establecido por el derecho internacional -ha manifestado Philip Luther, director del Programa para Oriente Medio y el Norte de África de Amnistía Internacional-. A consecuencia de ello, el derecho a la libertad de expresión y reunión se está viendo seriamente erosionado.”
Durante los sucesos del 30 de junio y 1 de julio del año pasado, los miembros de la policía y las fuerzas de seguridad, algunos de ellos vestidos de civil, atacaron violentamente a manifestantes pacíficos que protestaban por una reunión celebrada en Ramala entre el presidente palestino, Mahmud Abbas, y un ministro del gobierno israelí. Al menos cinco manifestantes requirieron tratamiento hospitalario. La violencia desató la indignación pública y, tras los sucesos, el presidente Abbas anunció que había designado un Comité de Investigación Independiente para examinar la conducta de la policía y las fuerzas de seguridad. Por su parte, el ministro del Interior emprendió también una investigación interna.
Más de un año después, la Autoridad Palestina aún no ha publicado el informe completo de la investigación independiente, aunque ha desvelado un resumen de las conclusiones, entre ellas la de que la policía y las fuerzas de seguridad de la Autoridad Palestina utilizaron fuerza “innecesaria”, “injustificada” y “desproporcionada” contra manifestantes pacíficos que no suponían un peligro y contra periodistas, y actuaron fuera de la ley. Al parecer, la investigación interna del Ministerio del Interior ha llegado a conclusiones similares, aunque su informe tampoco se ha hecho público.
Una mujer de 23 años que fue hospitalizada tras la violencia dijo a Amnistía Internacional:
“Me atacó un policía vestido de civil que me agarró, me arañó el brazo con las uñas y me dio patadas en las piernas […] Luego me atacó un policía de uniforme que me dio tal golpe con la porra en la cabeza que me hizo caer al suelo.”
“Pese a las conclusiones del Comité de Investigación Independiente, la Autoridad Palestina no ha procesado a ningún agente de policía o de las fuerzas de seguridad por la violencia perpetrada contra manifestantes pacíficos y por otras conductas ilegales durante los sucesos del 30 de junio y el 1 de julio del año pasado en Ramala”, ha manifestado Philip Luther. “Esa impunidad fomenta inevitablemente nuevos abusos, tal como han demostrado los incidentes ulteriores en los que, desde mediados de 2012, las fuerzas de la Autoridad Palestina han hecho uso de fuerza excesiva contra manifestantes.”
Los incidentes más recientes han tenido lugar en julio y agosto de 2013, cuando, al parecer, la policía y las fuerzas de seguridad de la Autoridad Palestina atacaron violentamente a manifestantes pacíficos al menos en cuatro ocasiones diferentes. Algunos de esos ataques los perpetraron agentes vestidos de civil que agredieron y trataron de intimidar a mujeres que se manifestaban y a periodistas que estaban informando sobre las protestas.
Las fuerzas de seguridad también han estado implicadas en la muerte de dos palestinos en los últimos meses. El 8 de mayo, Khaleda Kawazbeh murió en circunstancias no aclaradas durante una redada policial en el poblado de Se’ir, cerca de Hebrón, y otras ocho personas resultaron heridas. El 27 de agosto, Amjad Odeh, de 37 años, murió tras recibir un disparo en la cabeza, realizado al parecer por la policía, durante una protesta.
“La Autoridad Palestina debe poner fin urgentemente a este patrón de abusos por parte de su policía y sus fuerzas de seguridad, y debe romper el círculo de impunidad que los fomenta”, ha manifestado Philip Luther. “La Autoridad Palestina debe garantizar que los policías y otros miembros de las fuerzas de seguridad que cometan actos ilegales contra manifestantes u otras personas rinden cuentas mediante procesamientos penales, y debe garantizar asimismo que todo el personal encargado de hacer cumplir la ley recibe formación adecuada para respetar los derechos durante la actuación policial relativa a las manifestaciones.”
Amnistía Internacional pide asimismo a la Unión Europea, Estados Unidos y otros gobiernos donantes que han prestado ayuda económica a la Autoridad Palestina para que imparta formación a su policía y sus fuerzas de seguridad que exijan que se rindan cuentas en virtud del derecho y las normas internacionales de derechos humanos.
“Los donantes internacionales deben dejar claro a los dirigentes de la Autoridad Palestina que no están dispuestos a tolerar violaciones constantes de derechos humanos por parte de la policía y las fuerzas de seguridad palestinas, y que la asistencia futura depende de que los dirigentes de la Autoridad Palestina garanticen una rendición total de cuentas”, ha manifestado Philip Luther.
Libia: Rapporto Onu; ottomila detenuti in mano alle milizie fuori da controllo dello Stato
Aki
Circa ottomila persone in Libia sono detenute in carceri gestite dalle milizie e dunque fuori dal controllo dello Stato a oltre due anni dalla rivoluzione che ha portato al rovesciamento del regime di Muammar Gheddafi. È quanto denuncia un rapporto Onu presentato al Consiglio di Sicurezza, nel quale si definisce "inaccettabile" una condizione che vede molti detenuti vittime di torture e maltrattamenti.
"Abbiamo un grande problema. Ma è un problema che stiamo cercando di affrontare", ha detto in merito il ministro della Giustizia libico Salah Marghani, contattato dall'agenzia di stampa dell'Onu Irin. "Non abbiamo rinunciato (ad affrontare la questione, ndr).
Anche se le circostanze sono difficili, stiamo ancora cercando di migliorare la situazione", ha aggiunto. Nel rapporto Onu si stima che siano circa ottomila le persone arrestate dalle milizie, alcune detenute in strutture che solo "a livello nominale" sono sotto l'autorità dei ministeri della Giustizia o della Difesa, e la maggior parte in mano a "brigate armate non affiliate allo Stato in alcun modo". "Sono profondamente preoccupato per i progressi lenti e insufficienti per il trasferimento allo Stato dei detenuti che sono sotto la custodia delle brigate armate", ha detto il Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon.
Secondo dati Onu, ci sono prove che almeno 10 dei decessi avvenuti sotto custodia quest'anno sono stati determinati da torture e nessun responsabile è stato consegnato alla giustizia. Ci sono inoltre prove che dimostrano che continuano le torture anche nelle carceri controllate dal governo di Tripoli. "Ad ora, l'unico fattore che ha fatto calare il numero di detenuti maltrattati e torturati sono state le crescenti evasioni di massa", ha detto la ricercatrice di Amnesty International Magda Mughrabi.
"Abbiamo visitato carceri dove gli abusi avvenivano in modo sistematico - ha spiegato Mughrabi - Spesso le milizie andavano e venivano a loro piacimento, anche se le carceri erano teoricamente sotto il controllo del governo. (I miliziani, ndr) erano meglio armati rispetto alla polizia penitenziaria e trattavano i prigionieri come volevano.
In un centro di detenzione abbiamo anche registrato un caso di un detenuto rapito in cella da un miliziano". Amnesty International ha anche denunciato casi di detenuti picchiati con tubi di gomma, ustionati e sottoposti a scariche elettriche.
I detenuti hanno anche raccontato all'organizzazione di essere stati feriti ai genitali e che è stato loro spruzzato insetticida negli occhi. "Siamo ancora in uno stato di rivoluzione - ha detto il ministro della Giustizia Marghani - Basta vedere la quantità di armi che è ancora in circolazione. Il livello di controllo che si può avere in una simile situazione è limitato".
Marghani spiega che oltre diecimila ex ribelli che sono stati integrati nella polizia penitenziaria hanno solo un addestramento di base e questo è un aspetto che la Libia sta cercando di modificare con l'aiuto della comunità internazionale.
"Abbiamo un buon programma per addestrare le guardie penitenziarie in sede, ma la nostra capacità è limitata", aggiunge il ministro. La missione Onu di sostegno alla Libia, insieme alla Ue e alla Gran Bretagna, ha avviato un programma di addestramento della polizia penitenziaria e giudiziaria, ma il livello di assistenza non è sufficiente.
"Il numero di coloro che necessitano di addestramento è enorme. Senza un programma su larga scala è impossibile cambiare la cultura in queste istituzioni", ha detto Karim Salem dell'Organizzazione mondiale contro la tortura.
"Abbiamo un grande problema. Ma è un problema che stiamo cercando di affrontare", ha detto in merito il ministro della Giustizia libico Salah Marghani, contattato dall'agenzia di stampa dell'Onu Irin. "Non abbiamo rinunciato (ad affrontare la questione, ndr).
Anche se le circostanze sono difficili, stiamo ancora cercando di migliorare la situazione", ha aggiunto. Nel rapporto Onu si stima che siano circa ottomila le persone arrestate dalle milizie, alcune detenute in strutture che solo "a livello nominale" sono sotto l'autorità dei ministeri della Giustizia o della Difesa, e la maggior parte in mano a "brigate armate non affiliate allo Stato in alcun modo". "Sono profondamente preoccupato per i progressi lenti e insufficienti per il trasferimento allo Stato dei detenuti che sono sotto la custodia delle brigate armate", ha detto il Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon.
Secondo dati Onu, ci sono prove che almeno 10 dei decessi avvenuti sotto custodia quest'anno sono stati determinati da torture e nessun responsabile è stato consegnato alla giustizia. Ci sono inoltre prove che dimostrano che continuano le torture anche nelle carceri controllate dal governo di Tripoli. "Ad ora, l'unico fattore che ha fatto calare il numero di detenuti maltrattati e torturati sono state le crescenti evasioni di massa", ha detto la ricercatrice di Amnesty International Magda Mughrabi.
"Abbiamo visitato carceri dove gli abusi avvenivano in modo sistematico - ha spiegato Mughrabi - Spesso le milizie andavano e venivano a loro piacimento, anche se le carceri erano teoricamente sotto il controllo del governo. (I miliziani, ndr) erano meglio armati rispetto alla polizia penitenziaria e trattavano i prigionieri come volevano.
In un centro di detenzione abbiamo anche registrato un caso di un detenuto rapito in cella da un miliziano". Amnesty International ha anche denunciato casi di detenuti picchiati con tubi di gomma, ustionati e sottoposti a scariche elettriche.
I detenuti hanno anche raccontato all'organizzazione di essere stati feriti ai genitali e che è stato loro spruzzato insetticida negli occhi. "Siamo ancora in uno stato di rivoluzione - ha detto il ministro della Giustizia Marghani - Basta vedere la quantità di armi che è ancora in circolazione. Il livello di controllo che si può avere in una simile situazione è limitato".
Marghani spiega che oltre diecimila ex ribelli che sono stati integrati nella polizia penitenziaria hanno solo un addestramento di base e questo è un aspetto che la Libia sta cercando di modificare con l'aiuto della comunità internazionale.
"Abbiamo un buon programma per addestrare le guardie penitenziarie in sede, ma la nostra capacità è limitata", aggiunge il ministro. La missione Onu di sostegno alla Libia, insieme alla Ue e alla Gran Bretagna, ha avviato un programma di addestramento della polizia penitenziaria e giudiziaria, ma il livello di assistenza non è sufficiente.
"Il numero di coloro che necessitano di addestramento è enorme. Senza un programma su larga scala è impossibile cambiare la cultura in queste istituzioni", ha detto Karim Salem dell'Organizzazione mondiale contro la tortura.
Cagliari: due detenute con minacce di aborto, una situazione inaccettabile
Ansa
"Zagorka Nikolic, 40 anni, 12 figli, al terzo mese di gravidanza, Lela Radulovic, 30 anni, 4 figli, due aborti spontanei, due nascite con malformazioni congenite, incinta di 6 mesi, Monica Jovanovic, 28 anni, cinque figli, anche lei da sei mesi in stato interessante.
"Zagorka Nikolic, 40 anni, 12 figli, al terzo mese di gravidanza, Lela Radulovic, 30 anni, 4 figli, due aborti spontanei, due nascite con malformazioni congenite, incinta di 6 mesi, Monica Jovanovic, 28 anni, cinque figli, anche lei da sei mesi in stato interessante.
Tre donne, due con minacce d'aborto, si trovano rinchiuse insieme in una cella della sezione femminile del carcere di Buoncammino. Una situazione inaccettabile che rischia di degenerare con conseguenze drammatiche".
Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", che con i volontari ha raccolto le istanze delle cittadine private della libertà.
"È impensabile - afferma - che non sia stata individuata un'alternativa alla carcerazione quando le condizioni sono chiaramente incompatibili con la detenzione. Tutte e tre le donne, nomadi, hanno peraltro patteggiato la pena. Ciò che sorprende è l'inerzia delle Istituzioni.
La Provincia di Cagliari da tempo ha predisposto un progetto per l'attivazione di un Centro di Accoglienza per Madri Incarcerate (Cami), che potrebbe evitare ai più piccoli il trauma della carcerazione e alle madri di vivere l'esperienza detentiva come in una casa famiglia con iniziative di recupero sociale e avviamento al lavoro. Ciò permetterebbe anche di abbattere la recidiva. In concreto tuttavia nulla è stato fatto".
"La presenza in un Istituto come Buoncammino di donne con alle spalle parti cesarei produce una condizione di costante preoccupazione per il personale penitenziario nonché per i Medici. La struttura inoltre non dispone di tutti la strumentazione necessaria per verificare in modo costante la gestazione. C'è anche un problema di alimentazione e di salubrità ambientale.
È noto che lo stato di gravidanza richiede particolari condizioni igienico-sanitarie che un Istituto Penitenziario non può garantire. Non si possono neppure ignorare i piccoli rimasti con i rispettivi padri. Sono tutti minorenni. Il più piccolo di appena un anno di vita". "Ancora una volta - conclude la presidente di Sdr - facciamo appello alla sensibilità dei Magistrati, ma la questione delle donne detenute incinte o con minori al seguito non può essere più tollerata. Lo vietano il senso di umanità e il rispetto delle norme vigenti".
"È impensabile - afferma - che non sia stata individuata un'alternativa alla carcerazione quando le condizioni sono chiaramente incompatibili con la detenzione. Tutte e tre le donne, nomadi, hanno peraltro patteggiato la pena. Ciò che sorprende è l'inerzia delle Istituzioni.
La Provincia di Cagliari da tempo ha predisposto un progetto per l'attivazione di un Centro di Accoglienza per Madri Incarcerate (Cami), che potrebbe evitare ai più piccoli il trauma della carcerazione e alle madri di vivere l'esperienza detentiva come in una casa famiglia con iniziative di recupero sociale e avviamento al lavoro. Ciò permetterebbe anche di abbattere la recidiva. In concreto tuttavia nulla è stato fatto".
"La presenza in un Istituto come Buoncammino di donne con alle spalle parti cesarei produce una condizione di costante preoccupazione per il personale penitenziario nonché per i Medici. La struttura inoltre non dispone di tutti la strumentazione necessaria per verificare in modo costante la gestazione. C'è anche un problema di alimentazione e di salubrità ambientale.
È noto che lo stato di gravidanza richiede particolari condizioni igienico-sanitarie che un Istituto Penitenziario non può garantire. Non si possono neppure ignorare i piccoli rimasti con i rispettivi padri. Sono tutti minorenni. Il più piccolo di appena un anno di vita". "Ancora una volta - conclude la presidente di Sdr - facciamo appello alla sensibilità dei Magistrati, ma la questione delle donne detenute incinte o con minori al seguito non può essere più tollerata. Lo vietano il senso di umanità e il rispetto delle norme vigenti".
Livorno: detenuto di 37 anni ritrovato morto nel bagno della cella, avrebbe inalato gas
Ansa
La vittima è un detenuto di 37 anni, Fouad Aslamal, in carcere per reati di droga: forse ha inalato gas. Lo hanno trovato i compagni, inutili i soccorsi. Era con altre tre persone in una camera da due. Morto nel bagno della cella. A trovarlo sono stati i compagni.
Un detenuto marocchino di 37 anni ieri, domenica alle 23.30, è deceduto alle Sughere dove si trovava per reati riguardanti la droga. Si sospetta che avesse inalato gas dalla bombola del fornello: nel bagno infatti si sentiva un forte odore di gas. Immediati i soccorsi del personale interno al carcere.
Il medico e i suoi assistenti hanno subito tentato la rianimazione e in un primo momento sembrava che il cuore del giovane avesse ripreso a battere, ma in realtà si trattava delle ultime esalazioni. Per lui non c'è stato niente da fare. Poi sul posto in carcere sono accorsi i volontari della Misericordia, inviati dal 118, i quali hanno fatto ulteriori tentativi di rianimare il 37enne, ma è stato tutto inutile. Secondo quando appreso, il detenuto aveva dei problemi con la droga.
Il decesso alle Sughere riporta l'attenzione sul fenomeno delle morti in carcere e sul disagio che molti detenuti sono costretti a vivere: il 37enne era insieme ad altri 4 compagno in una cella predisposta per due. Le Sughere da due anni sono in ristrutturazione, ma i lavori hanno subito vari rallentamenti e tuttora non sono ancora stati ultimati.
La vittima è un detenuto di 37 anni, Fouad Aslamal, in carcere per reati di droga: forse ha inalato gas. Lo hanno trovato i compagni, inutili i soccorsi. Era con altre tre persone in una camera da due. Morto nel bagno della cella. A trovarlo sono stati i compagni.
Un detenuto marocchino di 37 anni ieri, domenica alle 23.30, è deceduto alle Sughere dove si trovava per reati riguardanti la droga. Si sospetta che avesse inalato gas dalla bombola del fornello: nel bagno infatti si sentiva un forte odore di gas. Immediati i soccorsi del personale interno al carcere.
Il medico e i suoi assistenti hanno subito tentato la rianimazione e in un primo momento sembrava che il cuore del giovane avesse ripreso a battere, ma in realtà si trattava delle ultime esalazioni. Per lui non c'è stato niente da fare. Poi sul posto in carcere sono accorsi i volontari della Misericordia, inviati dal 118, i quali hanno fatto ulteriori tentativi di rianimare il 37enne, ma è stato tutto inutile. Secondo quando appreso, il detenuto aveva dei problemi con la droga.
Il decesso alle Sughere riporta l'attenzione sul fenomeno delle morti in carcere e sul disagio che molti detenuti sono costretti a vivere: il 37enne era insieme ad altri 4 compagno in una cella predisposta per due. Le Sughere da due anni sono in ristrutturazione, ma i lavori hanno subito vari rallentamenti e tuttora non sono ancora stati ultimati.
martedì 24 settembre 2013
Roma: Cutini su rom, via a gruppi di lavoro su scuola, casa, lavoro e salute
Adnkronos
"Dobbiamo puntare a fare di queste esperienze la norma", ha aggiunto Cutini, che ha sottolineato il lavoro che ogni giorno portano avanti le associazioni e gli operatori del territorio. Mons. Feroci, direttore della Caritas di Roma, ricordando un prete che "..si e' fatto zingaro con gli zingari..", don Bruno Nicolini, ha ribadito "la necessita' di una nuova strategia e di una nuova politica di inclusione per Rom e Sinti". Nel corso del seminario sono intervenuti anche esponenti di: Roma Onlus, Associazione 21 Luglio, Arci Solidarieta', Comunita' di Sant'Egidio.
Al convegno ha partecipato l'assessore alla Scuola, Infanzia, Giovani e Pari opportunita', Alessandra Cattoi, che ha acceso i fari sull'importanza della scolarizzazione dei bambini Rom. "Quando si parla di scolarizzazione Rom si parla di diritto allo studio e pertanto si opera nella direzione tracciata dalla normativa che ci obbliga a mettere in campo tutte le forze possibili per rimuovere gli ostacoli - ha aggiunto - In tal senso e' opportuno analizzare i dati in nostro possesso per poi iniziare a collocare nell'orizzonte dei prossimi anni alcune azioni di sistema che ci consentano di ottenere risultati sempre migliori".
"Il dato che piu' deve far riflettere riguarda la frequenza che, seppure indica un progressivo incremento negli anni, ancora non soddisfa degli standard che possano farci parlare di piena scolarita' - ha concluso - Mi pare che Roma abbia le competenze per affrontare questa situazione: abbiamo una metodologia che nel tempo si e' affinata, puntando sulla progressiva responsabilizzazione delle famiglie; abbiamo un alto numero di operatori che ha sviluppato esperienza e abilita', di cui quasi il 40% appartiene alle comunita' Rom e Sinti, con una formazione che costituisce un capitale per il futuro; abbiamo una struttura amministrativa capace che governa questo processo con professionalita' e passione. Questa e' la strada che con l'assessore Cutini vogliamo seguire".
Al convegno ha partecipato l'assessore alla Scuola, Infanzia, Giovani e Pari opportunita', Alessandra Cattoi, che ha acceso i fari sull'importanza della scolarizzazione dei bambini Rom. "Quando si parla di scolarizzazione Rom si parla di diritto allo studio e pertanto si opera nella direzione tracciata dalla normativa che ci obbliga a mettere in campo tutte le forze possibili per rimuovere gli ostacoli - ha aggiunto - In tal senso e' opportuno analizzare i dati in nostro possesso per poi iniziare a collocare nell'orizzonte dei prossimi anni alcune azioni di sistema che ci consentano di ottenere risultati sempre migliori".
"Il dato che piu' deve far riflettere riguarda la frequenza che, seppure indica un progressivo incremento negli anni, ancora non soddisfa degli standard che possano farci parlare di piena scolarita' - ha concluso - Mi pare che Roma abbia le competenze per affrontare questa situazione: abbiamo una metodologia che nel tempo si e' affinata, puntando sulla progressiva responsabilizzazione delle famiglie; abbiamo un alto numero di operatori che ha sviluppato esperienza e abilita', di cui quasi il 40% appartiene alle comunita' Rom e Sinti, con una formazione che costituisce un capitale per il futuro; abbiamo una struttura amministrativa capace che governa questo processo con professionalita' e passione. Questa e' la strada che con l'assessore Cutini vogliamo seguire".
Repubblica Centroafricana: migliaia gli sfollati nella parte settentrionale del Paese
ConfiniOnLine
Repubblica Centroafricana: villaggi abbandonati e dati alle fiamme, migliaia gli sfollati nella parte settentrionale del Paese. Sintesi del discorso del portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) pronunciato alla conferenza stampa che si è tenuta oggi al Palazzo delle Nazioni a Ginevra.
Repubblica Centroafricana: villaggi abbandonati e dati alle fiamme, migliaia gli sfollati nella parte settentrionale del Paese. Sintesi del discorso del portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) pronunciato alla conferenza stampa che si è tenuta oggi al Palazzo delle Nazioni a Ginevra.
Ulteriori informazioni possono essere reperite nei siti dell’UNHCR www.unhcr.org e www.unhcr.fr, siti che possono anche essere consultati dai giornalisti per avere aggiornamenti costanti nei giorni in cui non si tengono le conferenze stampa.
Una missione congiunta dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha visitato la parte settentrionale della Repubblica Centroafricana, riscontrandovi villaggi abbandonati, esodi massicci e diffuse violazioni dei diritti umani.
La settimana scorsa i funzionari dell’UNHCR e dell’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) hanno raggiunto la città di Paoua, collocata 500 chilometri a nord di Bangui, la capitale della Repubblica Centroafricana. Si sono trovati di fronte sette villaggi rasi al suolo dalle fiamme e completamente deserti, e otto villaggi parzialmente distrutti dagli incendi, i cui abitanti si sono rifugiati nella boscaglia.
Il team dell’UNHCR ha confermato il diffuso stato di anarchia che imperversa nella regione. La popolazione locale ha parlato di assalti, estorsioni, saccheggi, arresti arbitrari e torture da parte di uomini armati. Gli abitanti dei villaggi hanno dichiarato che le loro azioni potrebbero essere interpretate come ritorsioni per gli scontri avvenuti nel mese scorso in cui alcuni gruppi si sono autorganizzati per proteggere le loro famiglie e le loro proprietà.
In generale, l’UNHCR esprime crescente preoccupazione per i civili che si trovano nel mezzo di combattimenti e in balia di chiunque abbia un’arma. Nel villaggio di Bedengui, che si trova a 65 chilometri dalla città settentrionale di Paoua, i funzionari dell’UNHCR hanno trovato persone che piangevano il rapimento e la morte di quattro membri della loro famiglia. I residenti e gli sfollati che vivono a Paoua hanno dichiarato che trascorrono la notte nella boscaglia in cerca di sicurezza e che ritornano alle loro case solo durante il giorno. Le persone si tengono lontane dalle strade per evitare di essere scoperte. A tutto questo vanno ad aggiungersi le piogge, che rendono le condizioni di vita ancora più difficili.
È difficile dire esattamente quante persone abbiano abbandonato le proprie case nella parte settentrionale della Repubblica Centroafricana, anche a causa dell’insicurezza e dell’accesso limitato a quei territori. Prima che il marzo scorso l’alleanza di Seleka prendesse il potere a Bangui, nell’area interessata vivevano circa 160mila persone. Con gli scoppi di violenza che hanno avuto luogo lo scorso mese, sono fuggite altre migliaia di persone. Fino a mercoledì mattina, i funzionari dell’UNHCR avevano già registrato nella regione 3.020 persone sfollate, che vanno a sommarsi ad almeno 206mila sfollati interni nel paese a partire dal mese dicembre.
I combattimenti e la violenza in atto hanno anche indotto migliaia di persone ad attraversare il confine e raggiungere i paesi vicini. Recentemente in Ciad un’ondata di più di mille rifugiati ha raggiunto la regione di Moissala. Questi arrivi sono andati ad aggiungersi alle 4.125 persone arrivate a luglio e hanno portato a 13.087 il numero complessivo di rifugiati accolti quest’anno. In Camerun i funzionari dell’UNHCR hanno registrato 4.119 rifugiati provenienti dalla Repubblica Centroafricana solo nell’anno in corso, dei quali 123 arrivati la scorsa settimana. Nella Repubblica Democratica del Congo, al 28 agosto erano arrivati circa 43.600 rifugiati centroafricani. Solamente martedì notte sono arrivate a Libenge circa 500 persone e il personale umanitario ha dovuto darsi da fare per trovare un alloggio che li mettesse al riparo dalla pioggia. Con questi arrivi il numero complessivo di rifugiati centroafricani ha superato quota 62mila da quando la crisi è cominciata lo scorso settembre.
Ieri i funzionari dell’UNHCR hanno ancora una volta compiuto un viaggio di 11 ore per raggiungere Paoua e distribuire alle persone sfollate aiuti come tele cerate, zanzariere e set da cucina. L’UNHCR rinnova l’appello alle autorità della Repubblica Centroafricana e a tutti i gruppi armati affinché i civili siano protetti e sia permesso alle agenzie umanitarie di raggiungere le persone bisognose di aiuto.
Una missione congiunta dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha visitato la parte settentrionale della Repubblica Centroafricana, riscontrandovi villaggi abbandonati, esodi massicci e diffuse violazioni dei diritti umani.
La settimana scorsa i funzionari dell’UNHCR e dell’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) hanno raggiunto la città di Paoua, collocata 500 chilometri a nord di Bangui, la capitale della Repubblica Centroafricana. Si sono trovati di fronte sette villaggi rasi al suolo dalle fiamme e completamente deserti, e otto villaggi parzialmente distrutti dagli incendi, i cui abitanti si sono rifugiati nella boscaglia.
Il team dell’UNHCR ha confermato il diffuso stato di anarchia che imperversa nella regione. La popolazione locale ha parlato di assalti, estorsioni, saccheggi, arresti arbitrari e torture da parte di uomini armati. Gli abitanti dei villaggi hanno dichiarato che le loro azioni potrebbero essere interpretate come ritorsioni per gli scontri avvenuti nel mese scorso in cui alcuni gruppi si sono autorganizzati per proteggere le loro famiglie e le loro proprietà.
In generale, l’UNHCR esprime crescente preoccupazione per i civili che si trovano nel mezzo di combattimenti e in balia di chiunque abbia un’arma. Nel villaggio di Bedengui, che si trova a 65 chilometri dalla città settentrionale di Paoua, i funzionari dell’UNHCR hanno trovato persone che piangevano il rapimento e la morte di quattro membri della loro famiglia. I residenti e gli sfollati che vivono a Paoua hanno dichiarato che trascorrono la notte nella boscaglia in cerca di sicurezza e che ritornano alle loro case solo durante il giorno. Le persone si tengono lontane dalle strade per evitare di essere scoperte. A tutto questo vanno ad aggiungersi le piogge, che rendono le condizioni di vita ancora più difficili.
È difficile dire esattamente quante persone abbiano abbandonato le proprie case nella parte settentrionale della Repubblica Centroafricana, anche a causa dell’insicurezza e dell’accesso limitato a quei territori. Prima che il marzo scorso l’alleanza di Seleka prendesse il potere a Bangui, nell’area interessata vivevano circa 160mila persone. Con gli scoppi di violenza che hanno avuto luogo lo scorso mese, sono fuggite altre migliaia di persone. Fino a mercoledì mattina, i funzionari dell’UNHCR avevano già registrato nella regione 3.020 persone sfollate, che vanno a sommarsi ad almeno 206mila sfollati interni nel paese a partire dal mese dicembre.
I combattimenti e la violenza in atto hanno anche indotto migliaia di persone ad attraversare il confine e raggiungere i paesi vicini. Recentemente in Ciad un’ondata di più di mille rifugiati ha raggiunto la regione di Moissala. Questi arrivi sono andati ad aggiungersi alle 4.125 persone arrivate a luglio e hanno portato a 13.087 il numero complessivo di rifugiati accolti quest’anno. In Camerun i funzionari dell’UNHCR hanno registrato 4.119 rifugiati provenienti dalla Repubblica Centroafricana solo nell’anno in corso, dei quali 123 arrivati la scorsa settimana. Nella Repubblica Democratica del Congo, al 28 agosto erano arrivati circa 43.600 rifugiati centroafricani. Solamente martedì notte sono arrivate a Libenge circa 500 persone e il personale umanitario ha dovuto darsi da fare per trovare un alloggio che li mettesse al riparo dalla pioggia. Con questi arrivi il numero complessivo di rifugiati centroafricani ha superato quota 62mila da quando la crisi è cominciata lo scorso settembre.
Ieri i funzionari dell’UNHCR hanno ancora una volta compiuto un viaggio di 11 ore per raggiungere Paoua e distribuire alle persone sfollate aiuti come tele cerate, zanzariere e set da cucina. L’UNHCR rinnova l’appello alle autorità della Repubblica Centroafricana e a tutti i gruppi armati affinché i civili siano protetti e sia permesso alle agenzie umanitarie di raggiungere le persone bisognose di aiuto.
USA - Riconosciuta l'immaturità del cervello dei minori - Per loro ridotte le pene
Il Sole 24 Ore
Con minorenni responsabili di gravi crimini, la giustizia degli Stati Uniti è più severa che qualunque altro paese industrializzato.
Con minorenni responsabili di gravi crimini, la giustizia degli Stati Uniti è più severa che qualunque altro paese industrializzato.
Le condanne a morte di minorenni sono state rare, ma fino al 2012 erano in carcere da quand'erano minorenni, senza poter abbreviare la detenzione, circa 2.500 ergastolani.
Con quattro sentenze fra il 1988 e il 2012 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha mitigato le pene per minorenni.
Sebbene la Corte non renda pubbliche le motivazioni, Laurence Steinberg, psicologo dell'Università di Temple a Filadelfia, dopo aver esaminato i protocolli dei dibattimenti, ritiene che nella svolta abbiano giocato un ruolo importante gli studi delle neuroscienze dello sviluppo del cervello.
La Corte avrebbe tenuto conto delle prove scientifiche che giovani e adolescenti non sono responsabili del loro comportamento come gli adulti a causa dell'immaturità psicologica e biologica. Qualcuno ha motteggiato che per arrivare a quel che è evidente a ogni genitore non ci voleva molta scienza. In vicende tanto delicate è in ogni caso d'aiuto che la scienza confermi il senso comune.
In considerazione dell'ottavo emendamento della Costituzione, che proibisce punizioni crudeli, la Corte Suprema nel 1988 dichiarò incostituzionale la pena di morte sotto i 16 e nel 2005 sotto i 18 anni.
In considerazione dell'ottavo emendamento della Costituzione, che proibisce punizioni crudeli, la Corte Suprema nel 1988 dichiarò incostituzionale la pena di morte sotto i 16 e nel 2005 sotto i 18 anni.
Nel 2010 fu giudicato incostituzionale il carcere a vita senza possibilità di sconto della pena in minori di 18 anni, a eccezione degli omicidi. Una sentenza del 2012 annullò l'eccezione. Quel che è crudele, e quindi incostituzionale, per un adolescente, non lo è per un adulto normale. Nel 2002 la Corte giudicò incostituzionale la pena di morte in ritardati mentali di qualunque età, anche se consapevoli della differenza fra lecito e illecito. Il ritardo mentale ne compromette la capacità di decidere e quindi ne attenua la responsabilità.
Come l'immaturità (molto individuale), il ritardo mentale è una diagnosi comportamentale, neuropsicologica e neurobiologica. Tribunali di livello inferiore hanno tenuto in considerazione, specie a partire dall'anno 2000, gli studi sullo sviluppo del cervello degli adolescenti e sulla particolare suscettibilità dei cervelli immaturi alle influenze esterne. Per questo sono frequenti negli ultimi anni differenze di pena motivate con indagini neuro-scientifiche per lo stesso delitto (ad esempio gettare un sasso da un ponte sulla strada mentre passa un'auto, con conseguenze gravi o mortali) fra bambini, ad esempio di 6-8 anni, e adolescenti.
Le neuroscienze (con tutti i supporti tecnici) stanno acquisendo negli Stati Uniti un ruolo importante nello stabilire la legittimità delle sentenze in crimini di bambini, adolescenti e giovani adulti.
Le neuroscienze (con tutti i supporti tecnici) stanno acquisendo negli Stati Uniti un ruolo importante nello stabilire la legittimità delle sentenze in crimini di bambini, adolescenti e giovani adulti.
È verosimile che questa pratica si applichi anche fuori degli States. Steinberg se ne rallegra, ma mette in guardia, a ragione, da errori ed esagerazioni. Nelle aule dei tribunali le scienze comportamentali dovrebbero conservare il ruolo determinante, perché la legge giudica il comportamento degli imputati e non il funzionamento del loro cervello. Per aver la licenza di guida, dice Steinberg, non basta dimostrare con la neuroimaging di avere il cervello a posto. Bisogna dar prova di saper guidare. È opportuno che le neuroscienze siano sempre più considerate nelle aule di giustizia come supporto dei dati comportamentali, e non come guida delle sentenze. Esse sono più plausibili se esami comportamentali e neuroscientifici coincidono. Le neuroscienze cognitive acquistano sempre più responsabilità civile e sociale. Ciò deve imporre ad autori ed editori di saggi e libri di neuroscienze la scrupolosa aderenza alla realtà. Annunciare, ad esempio, che con le tecniche della neuroimaging si può leggere il pensiero degli altri è sensazionale, ma non è vero. Con quelle tecniche si fanno studi straordinari e s'aiutano in modo decisivo molti ammalati. Leggere il pensiero non è possibile ora, e non lo sarà mai.
lunedì 23 settembre 2013
Russia: componente Pussy Riot in carcere annuncia sciopero fame dopo minacce
La Presse
Nadezhda Tolokonnikova, una delle componenti del gruppo punk russo Pussy Riot in carcere, ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le dure condizioni di lavoro e le minacce di morte ricevute.
Nadezhda Tolokonnikova, una delle componenti del gruppo punk russo Pussy Riot in carcere, ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le dure condizioni di lavoro e le minacce di morte ricevute.
In una lettera pubblicata sul blog della band la donna ha fatto sapere che i detenuti sono costretti a lavorare fino a 17 ore al giorno in una fabbrica che produce uniformi per la polizia.
Inoltre, Tolokonnikova sostiene di essere stata minacciata il mese scorso dal vice direttore del carcere, il quale le avrebbe detto: "Le cose non si metteranno mai male per te, perché non c'è niente di cattivo nell'altro mondo".
Inoltre, Tolokonnikova sostiene di essere stata minacciata il mese scorso dal vice direttore del carcere, il quale le avrebbe detto: "Le cose non si metteranno mai male per te, perché non c'è niente di cattivo nell'altro mondo".
Tolokonnikova sta scontando la condanna a due anni per teppismo. Lei e altre due componenti delle Pussy Riot erano state arrestate nel 2012 a seguito di una breve performance non autorizzata contro Putin nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca.
Iran: Khamenei concede grazia a 80 detenuti, tra loro arrestati durante proteste 2009
Aki
La Guida Suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, ha concesso la grazia ad 80 detenuti arrestati per reati relativi alla sicurezza della Repubblica Islamica, tra i quali figurano dimostranti finiti in carcere durante le proteste antigovernative del 2009.
Lo ha riferito il portavoce della Magistratura iraniana, Gholam-Hossein Mohseni-Ejei, citato dall’agenzia d’informazione ‘Isnà. Nel corso di una conferenza stampa a Teheran, Mohseni-Ejei ha annunciato che in futuro altri detenuti saranno scarcerati.
La Guida Suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, ha concesso la grazia ad 80 detenuti arrestati per reati relativi alla sicurezza della Repubblica Islamica, tra i quali figurano dimostranti finiti in carcere durante le proteste antigovernative del 2009.
Lo ha riferito il portavoce della Magistratura iraniana, Gholam-Hossein Mohseni-Ejei, citato dall’agenzia d’informazione ‘Isnà. Nel corso di una conferenza stampa a Teheran, Mohseni-Ejei ha annunciato che in futuro altri detenuti saranno scarcerati.
L’annuncio della grazia concessa da Khamenei ad 80 detenuti, segue di alcuni giorni la scarcerazione di 11 noti prigionieri politici iraniani, tra i quali l’avvocato per i diritti umani, Nasrin Sotoudeh.
Alcuni osservatori hanno collegato il rilascio dei detenuti al nuovo corso inaugurato a Teheran dal presidente Hassan Rohani, che ha incentrato la sua campagna elettorale promettendo moderazione in politica estera e maggiori libertà per i cittadini.
Bahrein in carcere un altro leader dell'opposizione
Corriere della Sera - Amnesty International
Le violazioni dei diritti umani in Bahrein non cessano.
Khalil al-Marzouq, ex presidente della Commissione per le questioni giuridiche e legislative del parlamento e vicesegretario generale di al-Wefaq, un gruppo politico di opposizione registrato ufficialmente, è stato arrestato il 17 settembre.
L’accusa è di “incitamento alla violenza”. Il 6 settembre al-Marzouq ha fatto un comizio nel villaggio di Saar, alla presenza di 6000 persone. Mentre parlava, un uomo dal volto coperto si è avvicinato al palco consegnandogli una bandiera col simbolo del Movimento 14 febbraio, una rete di gruppi giovanili nata nel 2011 e che chiede la fine della monarchia. Alcuni membri del Movimento 14 febbraio sono sotto processo, accusati di atti di violenza. Al-Marzouq ha preso la bandiera, l’ha posata in un angolo e ha proseguito il comizio.
Amnesty International ha visionato il filmato del comizio: parole dure, molto critiche verso la monarchia, colpevole di gravi violazioni dei diritti umani negli ultimi due anni, ma prive di qualsiasi istigazione alla violenza.
Al-Marzouq resterà in carcere fino al 17 ottobre, in attesa delle conclusioni dell’inchiesta. Se giudicato colpevole, grazie ai nuovi decreti entrati in vigore ad agosto, rischia una pena pesantissima e la revoca della cittadinanza.
Alla faccia del Dialogo nazionale, il nuovo mantra che le autorità del Bahrein ripetono ossessivamente per far credere ai distratti alleati di Londra e Washington che tutto va bene e in nome del quale hanno persino annullato la visita del relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura.
Le violazioni dei diritti umani in Bahrein non cessano.
Khalil al-Marzouq, ex presidente della Commissione per le questioni giuridiche e legislative del parlamento e vicesegretario generale di al-Wefaq, un gruppo politico di opposizione registrato ufficialmente, è stato arrestato il 17 settembre.
L’accusa è di “incitamento alla violenza”. Il 6 settembre al-Marzouq ha fatto un comizio nel villaggio di Saar, alla presenza di 6000 persone. Mentre parlava, un uomo dal volto coperto si è avvicinato al palco consegnandogli una bandiera col simbolo del Movimento 14 febbraio, una rete di gruppi giovanili nata nel 2011 e che chiede la fine della monarchia. Alcuni membri del Movimento 14 febbraio sono sotto processo, accusati di atti di violenza. Al-Marzouq ha preso la bandiera, l’ha posata in un angolo e ha proseguito il comizio.
Amnesty International ha visionato il filmato del comizio: parole dure, molto critiche verso la monarchia, colpevole di gravi violazioni dei diritti umani negli ultimi due anni, ma prive di qualsiasi istigazione alla violenza.
Al-Marzouq resterà in carcere fino al 17 ottobre, in attesa delle conclusioni dell’inchiesta. Se giudicato colpevole, grazie ai nuovi decreti entrati in vigore ad agosto, rischia una pena pesantissima e la revoca della cittadinanza.
Alla faccia del Dialogo nazionale, il nuovo mantra che le autorità del Bahrein ripetono ossessivamente per far credere ai distratti alleati di Londra e Washington che tutto va bene e in nome del quale hanno persino annullato la visita del relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura.
In prigione con la mamma... a Rebibbia 20 bambini che hanno meno di 3 anni
Il Messaggero
Sono le venti, è l'ora della nanna: avanti, bambini, fate i bravi, dritti in cella. Scatti metallici, chiavistelli, vocine che cantilenano "chiu-su-ra, chiu-su-ra". È una delle le prime parole che hanno imparato, i bimbi reclusi a Rebibbia assieme alle madri detenute.
Sono le venti, è l'ora della nanna: avanti, bambini, fate i bravi, dritti in cella. Scatti metallici, chiavistelli, vocine che cantilenano "chiu-su-ra, chiu-su-ra". È una delle le prime parole che hanno imparato, i bimbi reclusi a Rebibbia assieme alle madri detenute.
Mamma, pappa, pipì, chiusura. L'annuncio dell'agente che passa con le chiavi. La ninna nanna dei bimbi carcerati. Le voci che un po' piangono e un po' ridono, l'intonazione di una filastrocca, la bella lavanderina, ma che bel castello marcondirondirorendello, chiu-su-ra chiu-su-ra. I cuccioli d'uomo in gabbia si lamentano così, canticchiando, senza fare un capriccio, quasi mai.
La porta blindata all'ingresso del reparto nido, truccata con un'epifania di fiori e farfalle, si abbatte sullo stipite con un rumore secco, strozzando lo spazio, il tempo e la mobilità di venti creature minuscole intontite, gli sguardi vuoti, spersi, afflitti. "Anche se sono piccolissimi, hanno capito che questa è una prigione", s'immalinconisce Elisabeta (nome di fantasia, come gli altri che useremo), slava, 26anni, mamma di Vadìm, che ne ha due. Elisabeta ha un figlio chiuso dentro con la mamma e ne ha otto chiusi fuori "che soffrono anche di più".
Venti mamme detenute, venti bimbi che, fino ai tre anni, rimarranno lì. Poi via. "Lo strappo è doloroso: qui dentro hanno un rapporto viscerale ", spiega Gabriella Pedote, vicedirettrice del reparto femminile.
Hanno vissuto, sono cresciuti, talvolta sono nati qui, dietro le sbarre, in simbiosi con le loro mamme. Papà non c'è, "Egor, che ha 18 mesi, non lo ha visto quasi mai", racconta Nastja. Amin, che ha tre anni, dice "chiusura" con dizione ineccepibile: vive qui da due anni. Nicola, italiano, otto mesi, la farfuglia "lallando" come in certe nenie che i bimbi si cantano da soli per non aver paura. Ivan, Lilija e Yurij non lo dicono per niente, perché hanno rispettivamente 5 e 9 e 17 giorni, e hanno cominciato a vivere qua dentro, e che ne sanno.
Prima di andare in cella, i bimbi reclusi di Rebibbia si danno i bacini, le carezze, fanno ciao. Un mormorio infantile rimbalza sul muro del corridoio contro il quale sguardi e passi e parole vanno a sbattere per tutto il tempo, avanti e indietro. Poi chiusura. Segregati. A chiave. Tra le sbarre. Qualcuno piange perché non gli va proprio, qualcuno no perché tanto lo sa, gli tocca, la mamma lo ha spiegato, ed era triste com'è quasi sempre, come ha imparato a essere anche lui, sebbene qualche volta lei stiri sorrisi forzati per rassicurarlo come Benigni ne "La vita e bella" con Giosuè, però le viene male, con quello sguardo umido, sconfitto.
Così, fino alle otto di mattina, per bimbi e mamme (18 rom, una nigeriana e un'italiana, età media 25 anni, reati prevalenti furto e spaccio, recidive), il cielo sarà a scacchi, non come quello dei disegni sui quali certi piccoli lo spingono fin oltre i margini del foglio, così che dentro, se chiudi gli occhi, ci puoi pure volare. "Volare", balbetta Niko, due anni e mezzo, come quel tipo tutto verde che ride incongruamente accanto a Mowgli e a Biancaneve sulle pareti del reparto, per non farle sembrare le mura di una galera, ciò che sono. Volare come Peter, sì, ma basterebbe pure allungare i passi un po' più in là, oltre le quattro celle, il corridoio, la sala giochi minuscola, il piccolo giardino. E pazienza se questo è un reparto modello, e tutti sono dolcissimi, e pure gli agenti fanno coccole, e ci sono le puericultrici, il pediatra, il neuropsichiatra, per curare e prevenire le bronchiti, l'asma, la depressione, l'aggressività, la miopia, la perdita della visione tridimensionale, le malattie dei bimbi in gabbia. Pazienza, perché i bimbi in gabbia sono questi qui.
Ma poi, per fortuna, arriva il sabato. "I sabati della libertà", li chiamava Leda Colombini, scomparsa un anno fa, che nel '94 fondò A Roma Insieme, gruppo di volontari che il fine settimana si vanno a prendere i bambini e se li portano a vedere ciò che non hanno visto mai. Quando Amin ha visto il mare per la prima volta, ha pianto di paura; quando Lyudmila ha visto la neve, se l'è messa in tasca per portarla alla sua mamma; quando Alex è al parco, diventa un po' meno catatonico, riesce persino a correre, come gli fosse tornata addosso l'energia. E poi i compleanni.
Per i 3 anni di Amin, Francesca, nonno Nanni e gli altri hanno portato i regali e la torta. Ma come piangeva Faraa, la sua mamma. "Ora lo portano via. Io devo scontare ancora due anni. Quando ho cercato di spiegarglielo, si è messo a gridare mamma, con te, con te". Piange. "Io ho sbagliato, ma che colpe ha lui? Che cosa posso dirgli?".
di Marida Lombardo Pijola
La porta blindata all'ingresso del reparto nido, truccata con un'epifania di fiori e farfalle, si abbatte sullo stipite con un rumore secco, strozzando lo spazio, il tempo e la mobilità di venti creature minuscole intontite, gli sguardi vuoti, spersi, afflitti. "Anche se sono piccolissimi, hanno capito che questa è una prigione", s'immalinconisce Elisabeta (nome di fantasia, come gli altri che useremo), slava, 26anni, mamma di Vadìm, che ne ha due. Elisabeta ha un figlio chiuso dentro con la mamma e ne ha otto chiusi fuori "che soffrono anche di più".
Venti mamme detenute, venti bimbi che, fino ai tre anni, rimarranno lì. Poi via. "Lo strappo è doloroso: qui dentro hanno un rapporto viscerale ", spiega Gabriella Pedote, vicedirettrice del reparto femminile.
Hanno vissuto, sono cresciuti, talvolta sono nati qui, dietro le sbarre, in simbiosi con le loro mamme. Papà non c'è, "Egor, che ha 18 mesi, non lo ha visto quasi mai", racconta Nastja. Amin, che ha tre anni, dice "chiusura" con dizione ineccepibile: vive qui da due anni. Nicola, italiano, otto mesi, la farfuglia "lallando" come in certe nenie che i bimbi si cantano da soli per non aver paura. Ivan, Lilija e Yurij non lo dicono per niente, perché hanno rispettivamente 5 e 9 e 17 giorni, e hanno cominciato a vivere qua dentro, e che ne sanno.
Prima di andare in cella, i bimbi reclusi di Rebibbia si danno i bacini, le carezze, fanno ciao. Un mormorio infantile rimbalza sul muro del corridoio contro il quale sguardi e passi e parole vanno a sbattere per tutto il tempo, avanti e indietro. Poi chiusura. Segregati. A chiave. Tra le sbarre. Qualcuno piange perché non gli va proprio, qualcuno no perché tanto lo sa, gli tocca, la mamma lo ha spiegato, ed era triste com'è quasi sempre, come ha imparato a essere anche lui, sebbene qualche volta lei stiri sorrisi forzati per rassicurarlo come Benigni ne "La vita e bella" con Giosuè, però le viene male, con quello sguardo umido, sconfitto.
Così, fino alle otto di mattina, per bimbi e mamme (18 rom, una nigeriana e un'italiana, età media 25 anni, reati prevalenti furto e spaccio, recidive), il cielo sarà a scacchi, non come quello dei disegni sui quali certi piccoli lo spingono fin oltre i margini del foglio, così che dentro, se chiudi gli occhi, ci puoi pure volare. "Volare", balbetta Niko, due anni e mezzo, come quel tipo tutto verde che ride incongruamente accanto a Mowgli e a Biancaneve sulle pareti del reparto, per non farle sembrare le mura di una galera, ciò che sono. Volare come Peter, sì, ma basterebbe pure allungare i passi un po' più in là, oltre le quattro celle, il corridoio, la sala giochi minuscola, il piccolo giardino. E pazienza se questo è un reparto modello, e tutti sono dolcissimi, e pure gli agenti fanno coccole, e ci sono le puericultrici, il pediatra, il neuropsichiatra, per curare e prevenire le bronchiti, l'asma, la depressione, l'aggressività, la miopia, la perdita della visione tridimensionale, le malattie dei bimbi in gabbia. Pazienza, perché i bimbi in gabbia sono questi qui.
Ma poi, per fortuna, arriva il sabato. "I sabati della libertà", li chiamava Leda Colombini, scomparsa un anno fa, che nel '94 fondò A Roma Insieme, gruppo di volontari che il fine settimana si vanno a prendere i bambini e se li portano a vedere ciò che non hanno visto mai. Quando Amin ha visto il mare per la prima volta, ha pianto di paura; quando Lyudmila ha visto la neve, se l'è messa in tasca per portarla alla sua mamma; quando Alex è al parco, diventa un po' meno catatonico, riesce persino a correre, come gli fosse tornata addosso l'energia. E poi i compleanni.
Per i 3 anni di Amin, Francesca, nonno Nanni e gli altri hanno portato i regali e la torta. Ma come piangeva Faraa, la sua mamma. "Ora lo portano via. Io devo scontare ancora due anni. Quando ho cercato di spiegarglielo, si è messo a gridare mamma, con te, con te". Piange. "Io ho sbagliato, ma che colpe ha lui? Che cosa posso dirgli?".
di Marida Lombardo Pijola
domenica 22 settembre 2013
Defense Minister: Bulgaria Might Close Border for Refugees
novitine.com
Bulgaria's Defense Minister, Angel Naydenov, does not rule out closure of the country's southern border with Turkey as an extreme measure in the effort to deal with the refuge wave.
Bulgaria's Defense Minister, Angel Naydenov, does not rule out closure of the country's southern border with Turkey as an extreme measure in the effort to deal with the refuge wave.
Bulgaria's Defense Minister Angel Naydenov |
Speaking for the public radio Sunday, Naydenov said the closure could be done through technical methods, including building a fence.
Another way would be to send the refugees back to Turkey.
"We, however, should be aware of the tragedy of these people coming here to seek asylum and shelter or wanting to pass in transit to other destinations," said the Minister.
The asylum seekers are arriving mainly from Syria.
It was announced recently that Bulgaria has capacity to accept only an additional 1 000 refugees fleeing the Syrian conflict, while 4 000 are already in Bulgarian shelters.
Bulgarian nationalist parties Ataka and VMRO insist on closing the border with Turkey.
It was also reported that once in Bulgaria, there is no way to send the refugees back to Turkey as Bulgaria doesn't have an agreement with it for readmission.
Bulgarian MEPs Ivaylo Kalfin and Stanimir Ilchev pledged to insist before the EU on financial assistance to deal with the refugee problem.
Ilchev further promised to ask Frontex, the European border management agency, to pressure Turkey to sign the agreement that would allow Bulgaria to send refugees back there.
He says Turkey is not guarding its borders strictly and is allowing the immigrants to cross it and enter Bulgaria. The MEP also stressed mixed patrols, to include Bulgarian border police officers, must be allowed on the Turkish side.
Another way would be to send the refugees back to Turkey.
"We, however, should be aware of the tragedy of these people coming here to seek asylum and shelter or wanting to pass in transit to other destinations," said the Minister.
The asylum seekers are arriving mainly from Syria.
It was announced recently that Bulgaria has capacity to accept only an additional 1 000 refugees fleeing the Syrian conflict, while 4 000 are already in Bulgarian shelters.
Bulgarian nationalist parties Ataka and VMRO insist on closing the border with Turkey.
It was also reported that once in Bulgaria, there is no way to send the refugees back to Turkey as Bulgaria doesn't have an agreement with it for readmission.
Bulgarian MEPs Ivaylo Kalfin and Stanimir Ilchev pledged to insist before the EU on financial assistance to deal with the refugee problem.
Ilchev further promised to ask Frontex, the European border management agency, to pressure Turkey to sign the agreement that would allow Bulgaria to send refugees back there.
He says Turkey is not guarding its borders strictly and is allowing the immigrants to cross it and enter Bulgaria. The MEP also stressed mixed patrols, to include Bulgarian border police officers, must be allowed on the Turkish side.
Israele detiene 210 bambini palestinesi in condizioni disumane
InfoPal
Nablus-Ma’an. Fuad al-Khafash, direttore del centro al-Ahrar per gli studi sui detenuti e i diritti umani, ha rivelato che 210 bambini palestinesi sono rinchiusi, in condizioni disumane, nelle carceri israeliane.
Nablus-Ma’an. Fuad al-Khafash, direttore del centro al-Ahrar per gli studi sui detenuti e i diritti umani, ha rivelato che 210 bambini palestinesi sono rinchiusi, in condizioni disumane, nelle carceri israeliane.
In un suo rapporto, al-Khafash riferisce che circa 210 bambini palestinesi sono rinchiusi nelle carceri israeliane attualmente. Nel dettaglio, egli spiega che “all’inizio del 2013, a gennaio, 223 bambini palestinesi si trovavano nelle carceri israeliane. A febbraio e marzo, il loro numero è salito a 238. Mentre ad aprile era 236, 223 bambini a maggio, 193 a giugno e 195 a luglio. Per risalire ancora a 210 nel mese di agosto”.
L’attivista palestinese ha anche condannato “i crimini israeliani commessi contro i bambini palestinesi nelle prigioni, sia per quanto riguarda i metodi di detenzione che per le condanne inflitte”.
Al-Khafash ha esortato le agenzie dell’Onu, i centri di protezione dell’infanzia e il Consiglio di Sicurezza ad assumersi le loro responsabilità morali e legali verso i bambini palestinesi “sottoposti alle incessanti violazioni israeliane, che non accennano ad arrestarsi, anzi, si intensificano giorno dopo giorno, senza che nessuno sottoponga l’occupazione a qualsiasi tipo di processo per i crimini commessi”.
L’attivista ha quindi citato l’ultima violazione commessa da Israele nei confronti dei bambini palestinesi. Si è trattato della condanna ad un anno e mezzo di carcere, inflitta a due bambini di 14 anni, Mohammad e Ayman Abbasi.
Ha anche sottolineato che il crimine israeliano -la cui notizia ha fatto il giro dei media di tutto il mondo- dell’arresto di un bambino palestinese, prelevato dalla sua casa dopo la mezzanotte, nonostante supplicasse le forze israeliane di permettergli di poter dare i suoi esami scolastici, “avrebbe dovuto portare i leader israeliani direttamente nei tribunali internazionali, se ci fosse stato qualcuno che se ne occupi”.
Al-Khafash ha quindi criticato l’inettitudine delle istituzioni dell’Autorità palestinese (Anp) nel registrare e documentare le violazioni contro i bambini palestinesi, e di conseguenza punire i responsabili. Ha anche deplorato la negligenza delle istituzioni dell’infanzia in Palestina e nel mondo, che “dovrebbero assolvere i propri compiti, anziché limitarsi alle condanne e le denunce”.
“Se uno solo di questi crimini dell’occupazione fosse stato commesso in qualsiasi parte del mondo, ciò avrebbe suscitato un polverone. Tuttavia, quando le vittime sono palestinesi e il colpevole è Israele, il mondo diventa cieco e sordo e tace sui diritti dei palestinesi, pur sapendo che essi vengono detenuti in condizioni disumane”, ha concluso l’attivista palestinese.
L’attivista palestinese ha anche condannato “i crimini israeliani commessi contro i bambini palestinesi nelle prigioni, sia per quanto riguarda i metodi di detenzione che per le condanne inflitte”.
Al-Khafash ha esortato le agenzie dell’Onu, i centri di protezione dell’infanzia e il Consiglio di Sicurezza ad assumersi le loro responsabilità morali e legali verso i bambini palestinesi “sottoposti alle incessanti violazioni israeliane, che non accennano ad arrestarsi, anzi, si intensificano giorno dopo giorno, senza che nessuno sottoponga l’occupazione a qualsiasi tipo di processo per i crimini commessi”.
L’attivista ha quindi citato l’ultima violazione commessa da Israele nei confronti dei bambini palestinesi. Si è trattato della condanna ad un anno e mezzo di carcere, inflitta a due bambini di 14 anni, Mohammad e Ayman Abbasi.
Ha anche sottolineato che il crimine israeliano -la cui notizia ha fatto il giro dei media di tutto il mondo- dell’arresto di un bambino palestinese, prelevato dalla sua casa dopo la mezzanotte, nonostante supplicasse le forze israeliane di permettergli di poter dare i suoi esami scolastici, “avrebbe dovuto portare i leader israeliani direttamente nei tribunali internazionali, se ci fosse stato qualcuno che se ne occupi”.
Al-Khafash ha quindi criticato l’inettitudine delle istituzioni dell’Autorità palestinese (Anp) nel registrare e documentare le violazioni contro i bambini palestinesi, e di conseguenza punire i responsabili. Ha anche deplorato la negligenza delle istituzioni dell’infanzia in Palestina e nel mondo, che “dovrebbero assolvere i propri compiti, anziché limitarsi alle condanne e le denunce”.
“Se uno solo di questi crimini dell’occupazione fosse stato commesso in qualsiasi parte del mondo, ciò avrebbe suscitato un polverone. Tuttavia, quando le vittime sono palestinesi e il colpevole è Israele, il mondo diventa cieco e sordo e tace sui diritti dei palestinesi, pur sapendo che essi vengono detenuti in condizioni disumane”, ha concluso l’attivista palestinese.