Sono le venti, è l'ora della nanna: avanti, bambini, fate i bravi, dritti in cella. Scatti metallici, chiavistelli, vocine che cantilenano "chiu-su-ra, chiu-su-ra". È una delle le prime parole che hanno imparato, i bimbi reclusi a Rebibbia assieme alle madri detenute.
Mamma, pappa, pipì, chiusura. L'annuncio dell'agente che passa con le chiavi. La ninna nanna dei bimbi carcerati. Le voci che un po' piangono e un po' ridono, l'intonazione di una filastrocca, la bella lavanderina, ma che bel castello marcondirondirorendello, chiu-su-ra chiu-su-ra. I cuccioli d'uomo in gabbia si lamentano così, canticchiando, senza fare un capriccio, quasi mai.
La porta blindata all'ingresso del reparto nido, truccata con un'epifania di fiori e farfalle, si abbatte sullo stipite con un rumore secco, strozzando lo spazio, il tempo e la mobilità di venti creature minuscole intontite, gli sguardi vuoti, spersi, afflitti. "Anche se sono piccolissimi, hanno capito che questa è una prigione", s'immalinconisce Elisabeta (nome di fantasia, come gli altri che useremo), slava, 26anni, mamma di Vadìm, che ne ha due. Elisabeta ha un figlio chiuso dentro con la mamma e ne ha otto chiusi fuori "che soffrono anche di più".
Venti mamme detenute, venti bimbi che, fino ai tre anni, rimarranno lì. Poi via. "Lo strappo è doloroso: qui dentro hanno un rapporto viscerale ", spiega Gabriella Pedote, vicedirettrice del reparto femminile.
Hanno vissuto, sono cresciuti, talvolta sono nati qui, dietro le sbarre, in simbiosi con le loro mamme. Papà non c'è, "Egor, che ha 18 mesi, non lo ha visto quasi mai", racconta Nastja. Amin, che ha tre anni, dice "chiusura" con dizione ineccepibile: vive qui da due anni. Nicola, italiano, otto mesi, la farfuglia "lallando" come in certe nenie che i bimbi si cantano da soli per non aver paura. Ivan, Lilija e Yurij non lo dicono per niente, perché hanno rispettivamente 5 e 9 e 17 giorni, e hanno cominciato a vivere qua dentro, e che ne sanno.
Prima di andare in cella, i bimbi reclusi di Rebibbia si danno i bacini, le carezze, fanno ciao. Un mormorio infantile rimbalza sul muro del corridoio contro il quale sguardi e passi e parole vanno a sbattere per tutto il tempo, avanti e indietro. Poi chiusura. Segregati. A chiave. Tra le sbarre. Qualcuno piange perché non gli va proprio, qualcuno no perché tanto lo sa, gli tocca, la mamma lo ha spiegato, ed era triste com'è quasi sempre, come ha imparato a essere anche lui, sebbene qualche volta lei stiri sorrisi forzati per rassicurarlo come Benigni ne "La vita e bella" con Giosuè, però le viene male, con quello sguardo umido, sconfitto.
Così, fino alle otto di mattina, per bimbi e mamme (18 rom, una nigeriana e un'italiana, età media 25 anni, reati prevalenti furto e spaccio, recidive), il cielo sarà a scacchi, non come quello dei disegni sui quali certi piccoli lo spingono fin oltre i margini del foglio, così che dentro, se chiudi gli occhi, ci puoi pure volare. "Volare", balbetta Niko, due anni e mezzo, come quel tipo tutto verde che ride incongruamente accanto a Mowgli e a Biancaneve sulle pareti del reparto, per non farle sembrare le mura di una galera, ciò che sono. Volare come Peter, sì, ma basterebbe pure allungare i passi un po' più in là, oltre le quattro celle, il corridoio, la sala giochi minuscola, il piccolo giardino. E pazienza se questo è un reparto modello, e tutti sono dolcissimi, e pure gli agenti fanno coccole, e ci sono le puericultrici, il pediatra, il neuropsichiatra, per curare e prevenire le bronchiti, l'asma, la depressione, l'aggressività, la miopia, la perdita della visione tridimensionale, le malattie dei bimbi in gabbia. Pazienza, perché i bimbi in gabbia sono questi qui.
Ma poi, per fortuna, arriva il sabato. "I sabati della libertà", li chiamava Leda Colombini, scomparsa un anno fa, che nel '94 fondò A Roma Insieme, gruppo di volontari che il fine settimana si vanno a prendere i bambini e se li portano a vedere ciò che non hanno visto mai. Quando Amin ha visto il mare per la prima volta, ha pianto di paura; quando Lyudmila ha visto la neve, se l'è messa in tasca per portarla alla sua mamma; quando Alex è al parco, diventa un po' meno catatonico, riesce persino a correre, come gli fosse tornata addosso l'energia. E poi i compleanni.
Per i 3 anni di Amin, Francesca, nonno Nanni e gli altri hanno portato i regali e la torta. Ma come piangeva Faraa, la sua mamma. "Ora lo portano via. Io devo scontare ancora due anni. Quando ho cercato di spiegarglielo, si è messo a gridare mamma, con te, con te". Piange. "Io ho sbagliato, ma che colpe ha lui? Che cosa posso dirgli?".
di Marida Lombardo Pijola
La porta blindata all'ingresso del reparto nido, truccata con un'epifania di fiori e farfalle, si abbatte sullo stipite con un rumore secco, strozzando lo spazio, il tempo e la mobilità di venti creature minuscole intontite, gli sguardi vuoti, spersi, afflitti. "Anche se sono piccolissimi, hanno capito che questa è una prigione", s'immalinconisce Elisabeta (nome di fantasia, come gli altri che useremo), slava, 26anni, mamma di Vadìm, che ne ha due. Elisabeta ha un figlio chiuso dentro con la mamma e ne ha otto chiusi fuori "che soffrono anche di più".
Venti mamme detenute, venti bimbi che, fino ai tre anni, rimarranno lì. Poi via. "Lo strappo è doloroso: qui dentro hanno un rapporto viscerale ", spiega Gabriella Pedote, vicedirettrice del reparto femminile.
Hanno vissuto, sono cresciuti, talvolta sono nati qui, dietro le sbarre, in simbiosi con le loro mamme. Papà non c'è, "Egor, che ha 18 mesi, non lo ha visto quasi mai", racconta Nastja. Amin, che ha tre anni, dice "chiusura" con dizione ineccepibile: vive qui da due anni. Nicola, italiano, otto mesi, la farfuglia "lallando" come in certe nenie che i bimbi si cantano da soli per non aver paura. Ivan, Lilija e Yurij non lo dicono per niente, perché hanno rispettivamente 5 e 9 e 17 giorni, e hanno cominciato a vivere qua dentro, e che ne sanno.
Prima di andare in cella, i bimbi reclusi di Rebibbia si danno i bacini, le carezze, fanno ciao. Un mormorio infantile rimbalza sul muro del corridoio contro il quale sguardi e passi e parole vanno a sbattere per tutto il tempo, avanti e indietro. Poi chiusura. Segregati. A chiave. Tra le sbarre. Qualcuno piange perché non gli va proprio, qualcuno no perché tanto lo sa, gli tocca, la mamma lo ha spiegato, ed era triste com'è quasi sempre, come ha imparato a essere anche lui, sebbene qualche volta lei stiri sorrisi forzati per rassicurarlo come Benigni ne "La vita e bella" con Giosuè, però le viene male, con quello sguardo umido, sconfitto.
Così, fino alle otto di mattina, per bimbi e mamme (18 rom, una nigeriana e un'italiana, età media 25 anni, reati prevalenti furto e spaccio, recidive), il cielo sarà a scacchi, non come quello dei disegni sui quali certi piccoli lo spingono fin oltre i margini del foglio, così che dentro, se chiudi gli occhi, ci puoi pure volare. "Volare", balbetta Niko, due anni e mezzo, come quel tipo tutto verde che ride incongruamente accanto a Mowgli e a Biancaneve sulle pareti del reparto, per non farle sembrare le mura di una galera, ciò che sono. Volare come Peter, sì, ma basterebbe pure allungare i passi un po' più in là, oltre le quattro celle, il corridoio, la sala giochi minuscola, il piccolo giardino. E pazienza se questo è un reparto modello, e tutti sono dolcissimi, e pure gli agenti fanno coccole, e ci sono le puericultrici, il pediatra, il neuropsichiatra, per curare e prevenire le bronchiti, l'asma, la depressione, l'aggressività, la miopia, la perdita della visione tridimensionale, le malattie dei bimbi in gabbia. Pazienza, perché i bimbi in gabbia sono questi qui.
Ma poi, per fortuna, arriva il sabato. "I sabati della libertà", li chiamava Leda Colombini, scomparsa un anno fa, che nel '94 fondò A Roma Insieme, gruppo di volontari che il fine settimana si vanno a prendere i bambini e se li portano a vedere ciò che non hanno visto mai. Quando Amin ha visto il mare per la prima volta, ha pianto di paura; quando Lyudmila ha visto la neve, se l'è messa in tasca per portarla alla sua mamma; quando Alex è al parco, diventa un po' meno catatonico, riesce persino a correre, come gli fosse tornata addosso l'energia. E poi i compleanni.
Per i 3 anni di Amin, Francesca, nonno Nanni e gli altri hanno portato i regali e la torta. Ma come piangeva Faraa, la sua mamma. "Ora lo portano via. Io devo scontare ancora due anni. Quando ho cercato di spiegarglielo, si è messo a gridare mamma, con te, con te". Piange. "Io ho sbagliato, ma che colpe ha lui? Che cosa posso dirgli?".
di Marida Lombardo Pijola
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