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lunedì 2 settembre 2013

Libia, strage di profughi nel Sahara alle porte di Kufra

Agenzia Habeshia
La polizia libica non ha esitato a sparare contro la piccola colonna di jeep, furgoni fuoristrada e un camion carichi di profughi che non si era fermata all'alt. Raffiche di mitra e di fucile automatico. E’ stata una strage: 8 morti e almeno 20 feriti, alcuni molto gravi. I superstiti, inclusi i feriti più lievi, sono stati arrestati e gettati in un campo di reclusione. La fine del sogno di libertà per decine di giovani costretti a fuggire da guerra e persecuzioni, con la speranza di trovare aiuto e rifugio in Europa.

Si tratta di uno dei capitoli più gravi della tragedia dei richiedenti asilo che si consuma da anni sulle piste che arrivano in Libia, attraverso il deserto, dal Sudan o dall'estremo sud dell’Egitto. 

Ne ha dato notizia don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia Habeshia, il quale, raggiunto da una telefonata “rubata” di uno dei sopravvissuti, ha dato l’allarme al Commissariato Onu per i rifugiati. 

E arriva a poco più di un mese dall'incontro in cui, il 4 luglio scorso a Roma, il presidente del Consiglio Enrico Letta e il premier libico Ali Zeidan Mohammed hanno gettato le basi per rinnovare l’accordo bilaterale che assegna a Tripoli il ruolo di “gendarme” contro i migranti, spostando la barriera ancora più a sud, dalle sponde africane del Mediterraneo al confine sahariano della Libia. Ali Zeidan è stato esplicito. “In Libia – ha specificato ai giornali italiani – faremo tutti gli sforzi per arginare il fenomeno dell’emigrazione clandestina. Abbiamo concordato che questa operazione comprenda il rafforzamento dei confini meridionali, oltre che mediterranei, con le infrastrutture necessarie”.
Non sembrano esserci dubbi che la strage sia maturata in questo contesto. E’ accaduto a Liwal Ijra Al Ajani, una località a sud dell’oasi e del villaggio di Kufra. L’autocolonna dei profughi aveva superato la frontiera ormai da molti chilometri. Erano tanti, in maggioranza eritrei e somali. Una decina di donne, due bambini, oltre 130 uomini, stipati su quei pick-up e sul pianale di carico del camion. 

Lungo la pista sono incappati in un posto di controllo dell’esercito. Un momento di esitazione e poi ha avuto il sopravvento la paura di essere bloccati e rispediti indietro. Così, anziché fermarsi, gli autisti hanno proseguito la corsa. Immediata la reazione dei militari e dei miliziani. 

Poche raffiche ben mirate e la fuga è finita. L’autocarro, colpito in pieno, ha sbandato paurosamente e si è rovesciato. Per i disperati che erano sul “cassone” non c’è stato scampo: non hanno neanche avuto il tempo di saltare fuori. E’ tra questi che si conta il maggior numero di vittime. 

Alla fine sono state recuperate otto salme e più di una ventina di feriti. Alcuni raggiunti dai proiettili, altri schiacciatati sotto la carcassa dell’automezzo.
I più gravi sono stati trasferiti all’ospedale di Kufra. Gli altri sono stati uniti ai superstiti e avviati al vicino centro di detenzione, uno dei più duri di tutta la Libia. Attivo dal 2009, questo campo ospita mediamente da 600 a 700 prigionieri. 

Formalmente dipende dal ministero dell’interno, ma le milizie armate rivoluzionarie vi spadroneggiano indisturbate. Nei mesi della rivolta contro Gheddafi, ad esempio, hanno costretto molti dei detenuti a lavorare per loro, scaricando e trasportando armi e munizioni anche nel pieno dei combattimenti. 

Le donne, di cui una in stato di gravidanza avanzata, sono state separate dai loro compagni: le hanno portate insieme ai bambini in un accampamento di tende. In balia della polizia. La segnalazione giunta a don Zerai è terribile: “In quel riparo precario donne e bambini sono esposti a tutte le sofferenze di un clima inclemente come quello del deserto, con cibo scarso e poca acqua anche per bere. E questo è ancora il meno. Mi hanno raccontato che ci sono stati anche abusi sessuali e comunque le ragazze sono sottoposte a continue molestie da parte dei militari. 

Ancora una volta sono le donne a pagare il prezzo più alto di questa persecuzione”.
Continui maltrattamenti, pestaggi, soprusi subiscono anche gli uomini nel campo di Kufra. “Alcune donne – racconta don Zerai – mi hanno riferito che i loro compagni sono stati portati via dal centro di detenzione. I miliziani hanno detto che dovevano fare alcuni lavori e poi sarebbero rientrati. Chi ha cercato di opporsi è stato picchiato a sangue. In realtà non c’erano lavori da fare. Una volta separati dagli altri prigionieri, sono stati segregati, minacciati, privati di ogni diritto e di ogni possibilità di comunicare con l’esterno se non sotto il controllo degli aguzzini. Un vero e proprio sequestro, con la richiesta di un riscatto di 3 mila dollari a testa per essere rilasciati. Non liberati, però: solo ricondotti al centro di detenzione. Tre di loro sono riusciti a scappare. Non sapevano dove andare e, avendo magari la compagna detenuta a Kufra, anziché allontanarsi e puntare verso la costa, sono tornati al campo, dove hanno denunciato il sequestro e gli abusi patiti. 

Ma i militari di guardia, anziché aiutarli, li hanno pestati selvaggiamente. Di fatto, li hanno ‘puniti’ per essersi ribellati ai soprusi. Colpiti sino a sfinirli, ora sono tutti in gravi condizioni”.
Tutte queste vicende sono state riassunte in un esposto inviato a Riccardo Clerici, rappresentante del Commissariato Onu per i rifugiati. 

La speranza è che le Nazioni Unite aprano un’inchiesta su quanto è accaduto e, intanto, pretendano un trattamento umano, il rispetto dei diritti più elementari, per quei disperati presi prigionieri al posto di blocco. Ma anche il governo italiano è coinvolto direttamente. Se non altro per il nuovo accordo bilaterale con Tripoli impostato il 4 luglio, il terzo della serie dopo quello firmato da Berlusconi e Gheddafi nel 2009 e quello successivo siglato da Monti e dall’allora ministro dell’interno Anna Maria Cancellieri, attuale ministro della giustizia, nel 2011, nonostante la condanna sancita poche settimane prima contro l’Italia, da parte della Corte europea sui diritti umani, per la politica dei respingimenti indiscriminati in mare. Ora, anzi, la complicità di fatto del governo italiano con questi soprusi appare ancora più palese perché sono ormai una catena infinita gli episodi che evidenziano come la Libia, che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti dei rifugiati, interpreti il suo ruolo di “gendarme” contro profughi e migranti.
“Rispetto al passato – protestano l’agenzia Habeshia, Amnesty International e diverse altre organizzazioni umanitarie – il nuovo accordo prevede di spingere i ‘confini’ dell’Europa addirittura oltre le sponde libiche del Mediterraneo, in pieno deserto del Sahara”. “Sempre più a sud – insiste don Zerai – perché gli abusi evidenti che comporta fatalmente una intesa di questo genere, si svolgano in segreto, senza testimoni e il più lontano possibile. 

Questa stessa strage di Kufra non sarebbe mai stata conosciuta senza la segnalazione che uno dei sopravvissuti è riuscito fortunosamente a far pervenire ad Habeshia. Non credo che l’Europa e l’Italia possano accettare tutto questo”.

[...]
di Emilio Drudi

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