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venerdì 8 novembre 2013

Carcere - Se non sei già matto, in cella lo diventi - Il 30% dei detenuti soffre di disturbi psichici

Il Tempo

Il 25-30 per cento della popolazione carceraria soffre di disturbi psichici Il sovraffollamento causa malattie infettive, cardiovascolari e oncologiche
L’inferno dei vivi. Autolesionismo, suicidi, tossicodipendenza, malattie della mente e del corpo, come la depressione e l’epatite. Le sovraffollate carceri italiane, involontario «laboratorio» di convivenza tra individui con religioni, usanze, lingue e culture diverse costretti in gabbie da topo, sono brodo di coltura per disagi psichici e fisici. 

Nei 206 istituti di pena del Belpaese, che hanno una capienza regolamentare di 47.459 unità, ci sono circa 64.000 persone (erano 64.873 a fine luglio e oltre 65.000 a settembre). Di queste il 25%, quindi 16.000, sono in custodia cautelare, cioè in detenzione preventiva, cioè virtualmente innocenti, ha ricordato ieri il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. Un immeritato anticipo di pena che riguarda un quarto della popolazione penitenziaria.

Le condizioni inumane delle nostre prigioni contribuiscono a far nascere o aggravare il disagio mentale, causando nello stesso tempo l’abbassamento delle difese immunitarie. Come ha spiegato Roberto Monarca, presidente della Simspe (Società italiana di medicina e sanità penitenziaria), nel 2012 un detenuto su tre è risultato positivo all’epatite C, uno su 20 all’epatite B e all’Hiv, mentre a soffrire di disturbi psichici più o meno gravi è il 25-30% della gente che sopravvive dietro le sbarre.

«Il carcere è un concentratore di patologie perchè raccoglie e mette insieme popolazioni che arrivano da zone a elevato rischio di patologie infettive, come l’Africa e l’Est Europa, con altri soggetti sani - spiega il presidente della Simspe Roberto Monarca - Così si genera una situazione esplosiva dal punto di vista sanitario». 

Secondo l’esperto, «ci sono situazioni cliniche che non sono compatibili con il regime di detenzione: ad esempio la dialisi, le patologie oncologiche, i trapiantati, ma anche i disturbi alimentari. 

E il magistrato, dopo aver visionato la valutazione del medico, decide in base alla pericolosità del soggetto le possibili alternative: arresti domiciliati, reparti ospedalieri detentivi o il ricovero in centri specializzati». A dir la verità il ricorso alle misure alternative è decisamente scarso. 

I numeri del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria parlano chiaro: alla fine di luglio c’erano soltanto 2.946 detenuti che usufruivano della libertà vigilata, 194 di quella controllata (se la pena non è superiore ai 12 mesi), appena 11 erano in semidetenzione, un regime che sostituisce le pene detentive brevi ma comporta comunque l’obbligo di trascorrere dieci ore al giorno in prigione. 

Anche se non esistono dati ufficiali, si stima che le patologie più diffuse (oltre a quelle psichiche) siano quelle dell’apparato digerente (19%) e quelle infettive e parassitarie (12,5%), come epatite e tubercolosi. Frequenti pure i problemi osteo-articolari, le bronco-pneumopatie croniche ostruttive (in carcere si consumano fra le 20 e le 40 sigarette al giorno), le malattie metaboliche e del ricambio, come il diabete mellito, che dipendono dal tipo di dieta e dalla mancanza di movimento. Quelle cardio-vascolari, poi, colpiscono classi di età molto più basse che all’esterno. 

Per non parlare di circa 500 disabili che vivono in condizioni penose. A preoccupare i medici penitenziari sono anche gli stili di vita dei detenuti. «Il tasso di fumatori tra questa popolazione è altissimo - riferisce Monarca - ma anche l’alimentazione è spesso poco sana. Così queste persone hanno un rischio maggiore di sviluppare malattie cardiovascolari e oncologiche rispetto a chi è fuori dal carcere». 

Non sempre, come avvenuto per Giulia Ligresti, i malati ottengono di scontare la pena ai domiciliari o usufruiscono di altre misure restrittive. Come dimostra l’ultimo caso salito alla ribalta della cronaca di un detenuto romano di 24 anni che soffre di insufficienza renale, ha perso 15 chili in due anni e deve fare spesso dialisi, ma resta ugualmente a Regina Coeli perché il tribunale del Riesame ha riconosciuto il «pericolo» di reiterazione del reato (è stato condannato in primo grado per il pestaggio di un musicista avvenuto nel rione capitolino di Monti).

Sempre l’anno scorso, in cella si sono registrati 56 suicidi, 1.308 tentativi di suicidio, 97 decessi per «cause naturali», 7.317 episodi di autolesionismo. C’è poi il problema dei galeotti «tossici». In base al rapporto del Forum antidroga, nel 2012 un detenuto su tre è entrato in galera per detenzione di sostanze stupefacenti. E in carcere un terzo sono drogati. Non solo. Molti si infettano proprio in cella. Basta pensare che l’anno passato i detenuti che avevano contratto l’Aids prima di entrare in prigione erano solo 2, quelli che avevano preso la «peste del XXI secolo» dentro le mura di un penitenziario ben 65. L’inferno per vivi, insomma, contribuisce a creare criminali e malati.

[...]

Ma il dramma della sovrappopolazione carceraria non incide solo sui «ristretti». Secondo il Dap, in dieci anni sono stati 64 gli agenti di polizia penitenziaria, anche loro obbligati a condividere le vergognose condizioni degli «ospiti», che si sono tolti la vita.

Tornando al problema sanitario, il 15 ottobre a Londra è stata fondata la Federazione europea per la salute in prigione, che vede la partecipazione di italiani, spagnoli, belgi, inglesi, austriaci e tedeschi. E sarà proprio l’Italia a guidarla per i primi due anni, sotto la presidenza di Roberto Monarca. Non sarà un compito facile, visto che l’8 gennaio l’Europa ci ha «condannato» all’unanimità per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Che stabilisce il divieto di trattamenti inumani e degradanti e di tortura. Sì, avete letto bene: tortura.

Maurizio Gallo

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