Un’altra tragedia ha colpito l’etnia birmana di fede musulmana Rohingya. Nel tentativo di lasciare la costa birmana, presumibilmente per raggiungere la Malesia, un’imbarcazione è affondata ieri al largo dello Stato di Rakhine. Della sessantina di persone a bordo quelle tratte in salvo sono per ora solo sette.
Per tutta la giornata di ieri, guardacoste birmani, responsabili di organizzazioni non governative e parenti dei dispersi sono stati impegnati nella ricerca in mare e sulla costa.
L’incidente segnala anche che è iniziata la stagione dell’esodo per gli oltre 250.000 Rohingya rinchiusi in condizioni disperate nei campi profughi in Bangladesh, come pure per gli 800.000 in Myanmar, dove non viene riconosciuta loro la cittadinanza e dove 140.000 sono ammassati in campi di raccolta per sfuggire le persecuzioni degli ultimi 18 mesi. Altri episodi persecutori che sono costati la vita a due Rohingya si sono registrati sabato nello Stato di Rakhine.
Con la fine della stagione monsonica, la ricerca di una nuova patria altrove si presenta meno problematica e molte imbarcazioni lasciano le coste orientali del Golfo del Bengala dirigendosi in maggioranza verso Sud. Sono centinaia ogni anno le vittime di naufragi, ma anche di violenze in viaggi che finiscono spesso con naufragi sulle coste birmane, thailandesi o malesi e in molti casi con respingimenti in mare aperto. Malesia e Indonesia, paesi di comune fede islamica, sono mete preferite dei boat-people, che in alcuni casi hanno cercato salvezza persino sulle più lontane coste australiane.
Da tempo, le agenzie umanitarie avvisano di “un’emergenza Rohingya”, oggi la popolazione meno tutelata e insieme più perseguitata in Asia, che con poco da perdere nei territori di partenza sta cercando nell’esodo una salvezza che spesso si trasforma in tragedia.
L’incidente segnala anche che è iniziata la stagione dell’esodo per gli oltre 250.000 Rohingya rinchiusi in condizioni disperate nei campi profughi in Bangladesh, come pure per gli 800.000 in Myanmar, dove non viene riconosciuta loro la cittadinanza e dove 140.000 sono ammassati in campi di raccolta per sfuggire le persecuzioni degli ultimi 18 mesi. Altri episodi persecutori che sono costati la vita a due Rohingya si sono registrati sabato nello Stato di Rakhine.
Con la fine della stagione monsonica, la ricerca di una nuova patria altrove si presenta meno problematica e molte imbarcazioni lasciano le coste orientali del Golfo del Bengala dirigendosi in maggioranza verso Sud. Sono centinaia ogni anno le vittime di naufragi, ma anche di violenze in viaggi che finiscono spesso con naufragi sulle coste birmane, thailandesi o malesi e in molti casi con respingimenti in mare aperto. Malesia e Indonesia, paesi di comune fede islamica, sono mete preferite dei boat-people, che in alcuni casi hanno cercato salvezza persino sulle più lontane coste australiane.
Da tempo, le agenzie umanitarie avvisano di “un’emergenza Rohingya”, oggi la popolazione meno tutelata e insieme più perseguitata in Asia, che con poco da perdere nei territori di partenza sta cercando nell’esodo una salvezza che spesso si trasforma in tragedia.
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