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martedì 14 gennaio 2014

Intervista al Cappellano di Regina Coeli "i detenuti sono nel cuore di Papa Francesco"

La Stampa
Parla don Vittorio Trani, cappellano del carcere romano di "Regina Coeli": "Non basta il decreto svuota-carceri: bisogna ripensare il sistema della giustizia".
"Ha ragione papa Francesco. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Sono giornate frenetiche per don Vittorio Trani, cappellano dal 1978 del carcere romano "Regina Coeli". La conferenza dei capigruppo di Montecitorio ha deciso che il decreto legge svuota carceri sarà discusso dall'aula della Camera tra il 27 ed il 31 gennaio. "Bisogna tenere conto dei costi umani del carcere, in termini di violazione della dignità delle persone", spiega il cappellano di Regina Coeli, don Vittorio Trani.

Nell'udienza ai cappellani delle carceri italiane, il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". Qual è la sua risposta?

"Oggi il nostro carcere è popolato in gran parte da gente povera, per la maggior parte stranieri, senza famiglia, né risorse. Questo è un mondo che, come ci insegna Papa Francesco, ha bisogno d'amore di attenzione. Il Pontefice ci ha detto di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Mi sono tornate in mente le sue parole soprattutto ora che si parla di provvedimenti legislativi per rimettere in libertà una parta della popolazione carceraria.

Cosa comporta questo atto di clemenza?
"Per molti significa riconquistare quanto c'è di più prezioso: la libertà. Le carceri sovraffollate sono indubbiamente un peso ulteriore ma la vera sofferenza per i detenuti è rappresentata dall'allontanamento dal mondo affettivo. È questa la vera pena della reclusione. Interventi legislativi come il decreto legge svuota-carceri hanno un significato personale straordinario per i detenuti. Ogni giorno in libertà è una poesia della vita. Ritengo che il sistema della giustizia andrebbe rivisto in modo strutturale per evitare il più possibile il ricorso alla detenzione. Ci sono leggi che oggi portano tanta gente in carcere e che invece potrebbero prevedere pene alternative. Va rivisto l'intero impianto. Altrimenti ogni provvedimento contro il sovraffollamento si rivela un palliativo, non una svolta. In pochi mesi la situazione torna come prima".

Quali testimonianze riceve dai detenuti rimessi in libertà?
"Ogni persona che riconquista la libertà ha un'esperienza personale. Chi riesce a uscire si sente rinascere. È appena uscito uno straniero quarantenne (un nordafricano sposato con una cittadina comunitaria in un paese dell'Europa centrale), l'ho aiutato per le cose pratiche e ho vissuto la sua gioia immensa di poter riprendere i contatti con la sua famiglia. È la vita che riaffiora a livello di esperienze. In carcere i detenuti possono fare una telefonata alla settimana, ma chiamare per dire che si sta per uscire ricrea un contatto umano. È come tornare a vivere le cose urgenti. La prima cosa che mi ha detto è stata: "Sbrigo le cose urgenti e torno subito a casa". In tre anni di carcere aveva avuto il pensiero costante di poter tornare dalla moglie e dai figli. I pochi soldi che aveva conservato, li ha immediatamente utilizzati per comprarsi un biglietto del treno e lasciare Roma per tornare a casa. Uscendo dal carcere ha ritrovato la famiglia, ha ripreso a vivere. Dopo tre anni senza vedere i propri cari, aveva in mente solo di riabbracciarli".

E chi non ha una famiglia?
"La situazione più pesante è proprio per i detenuti sia italiani sia extracomunitari che una volta scarcerati non hanno una famiglia, un punto d'appoggio e si ritrovano a mendicare un letto e un posto dove mangiare. La loro domanda è sempre la stessa: "E adesso che faccio?". Non sanno dove andare e, malgrado l'impegno dei canali privati e delle associazioni di volontariato, soffrono perché non esistono strutture pubbliche per loro. Nella quasi totalità coloro che finiscono dietro le sbarre vengono dalla strada, è gente in difficoltà e dopo la detenzione si ritrovano senza nulla per ripartire. È una processione continua di ex detenuti che chiedono aiuto e che dal carcere finiscono subito sulla strada. Non ci sono per loro né lavoro né centri d'accoglienza. cominciano a pellegrinare da una struttura di volontariato all'altra. Mense per i poveri e dormitori diventano approdi obbligati. Non esistono altre opportunità. Molti finiscono per vivere come clochard. Capita anche che i familiari non li vogliano riprendere in casa. Hanno spesso storie di droga e lontananza. Genitori anziani con i quali hanno interrotto ogni rapporto durante la detenzione".
Quale accoglienza trovano gli ex detenuti nella Chiesa?
"Nell'esperienza quotidiana, mi sono reso conto che la difficoltà maggiore (anche all'interno della comunità ecclesiale, oltreché in quella civile) è la scarsa conoscenza di questo mondo. C'è un filtro molto spesso che passa attraverso la morbosità e il preconcetto, per cui si è distanti e si è severi, si è molto duri nei confronti di chi sbaglia. Una volta che si è vicini a questo mondo, tuttavia, si scoprono le persone, si scoprono le storie, si guarda un po' da vicino la vicenda esistenziale di una persona che ha sbagliato, ma che resta sempre persona. Allora, si tende a cambiare, si tende ad essere più attenti e, soprattutto per quanti sono cristiani, si tende a guardare un po' quella presenza che dal Vangelo sappiamo essere la presenza di Cristo stesso".

di Giacomo Galeazzi

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