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venerdì 3 gennaio 2014

Vasto (Ch): il carcere dopo il carcere, una vita da internati tra chi resta dentro dopo il fine pena

Il Centro
Un viaggio sconvolgente tra i 170 reclusi, soli e dimenticati. Hanno pagato il debito con la giustizia, ma non li rilasciano.

Nell'istituto ci sono circa 170 "ospiti", la definizione è internati, persone che hanno finito di scontare la loro pena, che il magistrato ritiene ancora socialmente pericolosi e pertanto destina alle case lavoro, luoghi in cui, grazie ad esperienze di lavoro, col sostegno di operatori, dovrebbero riconquistare un normale rapporto con la quotidianità che li preservi dal tornare a delinquere. 

Definizioni a parte, quello che ho trovato è un coacervo di disagio e di povertà. Qualcuno che ha famiglia e casa, ma senza aspettativa di lavoro, qualcuno che non ha né casa, né famiglia e né speranza di tornare a qualcosa. Ero già stata in questo istituto quando era ancora carcere, qualche mese fa, quando era in corso la riorganizzazione ed era viva negli agenti di polizia penitenziaria la preoccupazione che, non essendoci aree di lavoro già in essere, gli internati non avrebbero vissuto la parte principale del percorso riabilitativo: il lavoro. Il direttore dell'Istituto, Massimo Di Rienzo, persona per cui sia gli internati che gli operatori hanno avuto parole di rispetto e di gentilezza, mi ha fatto vedere e immaginare un luogo diverso, con spazi fruibili per una quotidianità quasi normale. Ma mentre col direttore con l'immaginazione abbiamo visto un refettorio, un capannone per lavorazione industriale, un'area per imparare l'arte bianca, l'arte della panificazione, una nuova palestra, la realtà è che se la burocrazia non libera i 350 mila euro già assegnati da mesi per il 2013, chi ha già scontato la sua pena continua ad essere ancora solo un detenuto.

La burocrazia! Un'infida palude in cui si perde lo slancio e la volontà di semplificazione. Le leggi non bastano, ci vuole una nuova cultura in chi lavora per la pubblica amministrazione: mentre quei soldi sono fermi in qualche passaggio tra uffici e autorizzazioni, 170 persone aspettano nelle loro celle strutture in cui lavorare, persone che hanno finito di scontare la propria pena. Lo ripeto perché questo fatto colpisce davvero: colpisce il dolore con cui un giovane salentino ripete "io ho pagato, sono qui perché devo lavorare per riabilitarmi, invece sono ancora di fatto un detenuto".

Mi mostra il suo foglio Inps, ha fatto il cuoco. Mi pressa perché io veda il gabinetto, nella cella, poco più di un metro quadrato, un piccolo lavabo, il water e un lava piedi. L'acqua freddissima. Mi chiedo perché in un posto sul mare, con una così ampia insolazione, non ci siano i pannelli solari per avere l'acqua calda con poca spesa. Un altro, campano, sta per andare a casa, lo ritroviamo più volte sul nostro percorso, col direttore si parlano un linguaggio familiare, fatto di monito e di "quasi" affetto. Un uomo con occhi vivaci, inquieti, mi incalza chiedendo che la politica si occupi della situazione delle carceri, è d'accordo con me che la rivoluzione della dignità si può fare solo tutti insieme. La dignità del nostro sistema carcerario viaggia insieme alla riforma della giustizia, ad un diverso approccio alla immigrazione, alla trasformazione della normativa sulla tossicodipendenza, ma soprattutto ha bisogno della massa critica, un numero crescente di persone che si convinca che in un paese moderno il carcere non è pena ma percorso rieducativo. 

Ungiovane mi ha detto: "Vedi, signora, noi per voi li fuori siamo la feccia, siamo una discarica umana", parole forti che il direttore ha tentato di mitigare trasformandole in "contenitore di disagio", ma la traduzione non ha alleggerito il senso doloroso dell'immagine. Stavo concludendo il giro quando un uomo all'apparenza mite ha richiamato la mia attenzione dicendo: "Sei medico, vieni a vedere". Sdraiato nel suo letto, un giovane con una gamba difettosa e le mani contratte per un problema neurologico mi guardava con lo sguardo dei semplici, per non so quale situazione di ritardo psichico. L'uomo che aveva richiamato la mia attenzione ha detto con voce bassa e gentile "Che male può' fare? Fatela scontare a me la sua pena". È li perché se esce finisce col mendicare, questa è stata la spiegazione che non senza pathos mi ha dato il direttore. Spero che da questi brevi riferimenti si colga il perché della mia inquietudine: pensavo di trovare storie di delinquenza e ho trovato prevalentemente storie di disagio e di povertà.

E si è rafforzata la mia convinzione che la rieducazione avviene, oltre che con il carcere per la pena, con percorsi di sostegno, di studio, di esperienze di lavoro, di esercizio al rispetto delle regole, ma con la sinergia del dentro e fuori le mura, dentro operatori e polizia penitenziaria, fuori una rete sociale di sostegno, una società prudente, ma solidale. Ho riportato la confortante impressione di una grande umanità e professionalità delle guardie di polizia penitenziaria, gente che fa un lavoro difficile, duro, psicologicamente usurante ma che non dimentica il rispetto per chi ha di fronte, la fermezza con la devianza, l'attenzione per la fragilità.

Il direttore parla di quello che immagina e spera sarà la casa lavoro al termine del processo di trasformazione strutturale. Torna costantemente sulla necessità di far vivere agli internati una quotidianità quanto più vicina possibile alla vita da uomini liberi; mi ha mostrato tutte le aree, sottolineando la positività dei cambiamenti già in essere, la sala colloqui, il campo sportivo, la palestra, la lavanderia con due nuove lavatrici ed una moderna asciugatrice, la cucina linda, con i carrelli termici per la distribuzione delle vivande. Una cinquantina di ospiti era fuori in permesso per le festività del Natale, molti dentro arrabbiati per aver avuto negato il permesso dal magistrato. Ho cercato di guardare a tutto questo con razionalità e, al di là della pietas, ho toccato con mano Ta inadeguatezza del sistema: la pena è la limitazione della libertà non la lesione della dignità. La mia prima azione alla ripresa dell'attività parlamentare sarà un' interrogazione in commissione Giustizia al ministro per sapere dove sono fermi i fondi già assegnati per il 2013 per le aree di lavoro dell' Istituto di Vasto, con l'impegno a partecipare a tutte le iniziative con cui si possa dire al mondo che nessuno ha il diritto di togliere a un uomo o a una donna la sua dignità.

Educazione e lavoro per recuperare i detenuti alla società
Il carcere di Torre Sinello di Vasto è stato inserito in un progetto del ministero della Giustizia per la rieducazione e il recupero sociale dei detenuti attraverso il lavoro. L'istituto vastese da fine marzo ha cominciato a cambiare pelle. Molti dei detenuti sono stati trasferiti nei penitenziari di Lanciano, Pescara e Sulmona. A Vasto sono arrivati e arriveranno altri internati da avviare al lavoro. L'iniziativa rientra in un progetto molto più ampio deciso dal governo per promuovere e potenziare le attività già in essere nell'istituto e promuovere vere e proprie filiere produttive. Lavoro come speranza di vita, come trattamento rieducativo. La "Casa lavoro" seguirà i dettami dell'articolo 27 della Costituzione che prevede la rieducazione e reinserimento sociale degli internati. Il nuovo progetto oltre a favorire il riscatto sociale dei detenuti, porterà anche un notevole risparmio alla casse del ministero. La scelta del carcere vastese non è casuale. Più volte il carcere di Torre Sinello ha dimostrato di essere un istituto-modello pervia dei progetti di reinserimento lavorativo degli ospiti. Da anni in collaborazione con il Comune, alcuni detenuti vengono utilizzati per la pulizia della riserva di Punta Aderci. Nel 2009 grazie all'associazione Opificio AlterArs ai detenuti è stata offerta l'opportunità di dar vita a un laboratorio di arte itinerante ed esporre quadri sulla Loggia Ambling.
di Maria Amato

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