Quando non sono annunciate – e dunque i responsabili delle prigioni non hanno il tempo per lustrarli a lucido – le visite nei centri di detenzione da parte degli organismi di monitoraggio sui diritti umani riservano delle sorprese. Sempre amare.
L’esito della missione della Commissione sui diritti umani delle Filippine in una cella del centro di detenzione della polizia di Biñan, nella provincia di Laguna, è spaventoso. Quella cella non è neanche elencata nel registro dei centri di detenzione della Polizia nazionale filippina. Dunque ufficialmente non esiste.
In quella cella segreta però vi sono dei detenuti comuni. E c’è un tavolo su cui è collocata una roulette. Al posto dei numeri e dei colori, le tecniche di tortura. Si lancia la pallina e via. Se si ferma su “30 secondi da pipistrello”, il detenuto viene appeso a testa in giù per mezzo minuto. Se va su “20 secondi di Manny Pacquiao”, il malcapitato viene preso a pugni, senza sosta, per il tempo equivalente.
I detenuti sottoposti alla “roulette della tortura” sono come minimo 44. Questi, infatti, sono quelli che hanno trovato il coraggio di sporgere denuncia, incuranti delle conseguenze, nei confronti di 10 agenti di polizia: denunciati per tortura ed estorsione, poiché succedeva anche che in cambio di soldi la pallina cambiasse magicamente destinazione.
Ecco un nuovo esempio di banalità del male: la tortura per gioco, alimentata da fiumi di alcool, secondo le conclusioni della Commissione sui diritti umani delle Filippine. La polizia di Biñan intendeva servire in questo modo lo stato. Quello stato che non ne sapeva nulla o fingeva di non sapere e che ora, nella persona del suo massimo rappresentante, il presidente Benigno Aquino, deve rimediare.
Sospendere gli agenti responsabili delle torture e i loro superiori non è sufficiente, secondo Amnesty International: occorre un processo.
Le Filippine hanno ratificato quasi 30 anni fa la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e da cinque anni il parlamento ha promulgato la Legge contro la tortura. Ma se vi sono zone franche, non riconosciute, segrete e illegali in cui agenti di polizia ubriachi lanciano la pallina per scegliere come brutalizzare i detenuti, quella legge rischia di essere priva di valore.
In quella cella segreta però vi sono dei detenuti comuni. E c’è un tavolo su cui è collocata una roulette. Al posto dei numeri e dei colori, le tecniche di tortura. Si lancia la pallina e via. Se si ferma su “30 secondi da pipistrello”, il detenuto viene appeso a testa in giù per mezzo minuto. Se va su “20 secondi di Manny Pacquiao”, il malcapitato viene preso a pugni, senza sosta, per il tempo equivalente.
I detenuti sottoposti alla “roulette della tortura” sono come minimo 44. Questi, infatti, sono quelli che hanno trovato il coraggio di sporgere denuncia, incuranti delle conseguenze, nei confronti di 10 agenti di polizia: denunciati per tortura ed estorsione, poiché succedeva anche che in cambio di soldi la pallina cambiasse magicamente destinazione.
Ecco un nuovo esempio di banalità del male: la tortura per gioco, alimentata da fiumi di alcool, secondo le conclusioni della Commissione sui diritti umani delle Filippine. La polizia di Biñan intendeva servire in questo modo lo stato. Quello stato che non ne sapeva nulla o fingeva di non sapere e che ora, nella persona del suo massimo rappresentante, il presidente Benigno Aquino, deve rimediare.
Sospendere gli agenti responsabili delle torture e i loro superiori non è sufficiente, secondo Amnesty International: occorre un processo.
Le Filippine hanno ratificato quasi 30 anni fa la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e da cinque anni il parlamento ha promulgato la Legge contro la tortura. Ma se vi sono zone franche, non riconosciute, segrete e illegali in cui agenti di polizia ubriachi lanciano la pallina per scegliere come brutalizzare i detenuti, quella legge rischia di essere priva di valore.
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