Ufficialmente, il Northwest Detention Center di Tacoma, nello Stato di Washington, non è un carcere, come non lo sono tutti gli altri che, in nome dello Us Immigration and Customs Enforcement (Ice), sono amministrati da aziende private, in cui non ci sono guardie, ma manager, e ospiti al posto di detenuti. Questa distinzione, però, tende a evaporare per molte persone, la cui permanenza si trascina per settimane, mesi, anni.
Quasi 34.000 migranti senza permesso sono rinchiusi nei centri di detenzione, dove si sta diffondendo una protesta che ha in Tacoma il suo luogo d'origine. A occuparsene è il Guardian. "Non sono libero. Mi hanno messo in manette" ha raccontato Ramon Mendoza Pascual, 37 anni, rinchiuso dal settembre dello scorso anno.
"Perché? Non mi sento un criminale. Non sono un criminale". Il centro di detenzione di Tacoma è uno dei più grandi negli Stati Uniti, che ha una rete di 250 strutture che, insieme, danno 'ospitalità' a 34.000 persone in attesa di essere espulse.
L'uomo, un immigrato messicano, ha guidato centinaia di altri detenuti in una serie di scioperi della fame che hanno provocato anche la protesta in un centro di detenzione del Texas, portando l'attenzione su uno dei punti più controversi del sistema di espulsione.
Grosse critiche si sono sollevate ultimamente contro il presidente non solo per il numero record di persone espulse da quando Barack Obama è alla Casa Bianca (con circa due milioni di rimpatri, Obama ha raggiunto in poco più di 5 anni George W. Bush), ma anche per la scelta dei migranti da punire e per il trattamento a loro riservato.
Mendoza è entrato illegalmente negli Stati Uniti 20 anni fa, in cerca di una vita migliore; se l'è costruita nella costa nord-occidentale del Paese, a Seattle, dove si è messo a fare il carpentiere, si è costruito una casa, si è sposato e ha avuto tre figli, di 5, 10 e 12 anni, tutti cittadini degli Stati Uniti. Lo scorso settembre, ha bevuto qualche birra di troppo ed è stato arrestato dalla polizia, che lo aveva fermato per un controllo. Le accuse contro di lui sono cadute, perché Mendoza era fermo in macchina, in attesa che la moglie lo andasse a prendere.
L'uomo, però, era già stato arrestato per guida in stato d'ebbrezza nel 2007 e per questo è stato consegnato al Cie come "immigrato illegale con un fedina penale sporca" e incarcerato a Tacoma. A dicembre, un giudice lo ha definito "un pericolo per la comunità", negandogli la libertà in cambio di una cauzione. "Mi considerano un pericolo per la società, ma ho trascorso tutti i giorni della mia vita lavorando onestamente. Come posso occuparmi della mia famiglia?" ha detto Mendoza.
I detenuti dei centri hanno due possibilità: firmare il foglio per il rimpatrio o restare lì a combattere per ottenere il diritto a vivere negli Stati Uniti, un processo per cui potrebbero essere necessari diversi anni. Dato che si tratta di cause civili, non penali, i detenuti non hanno diritto a un avvocato; a Tacoma, più dell'80% degli ospiti ne è sprovvisto.
Obama, definito dai critici il "deporter-in-chief" (invece del commander-in-chief, ovvero il comandante in capo), ha sempre detto che l'obiettivo delle espulsioni è quello di colpire i criminali, non di dividere le famiglie. Quello che sta passando Mendoza, però, mostra che a rimetterci sono anche persone colpevoli di infrazioni minori e che i loro non sono casi isolati: dai dati governativi sulla presidenza Obama analizzati giorni fa dal New York Times emerge che i due terzi dei rimpatri coinvolgono persone che hanno la fedina penale pulita o che hanno commesso solo infrazioni lievi; solo il 20% - circa 394.000 - dei casi coinvolge persone che hanno commesso reati gravi, compresi quelli legati agli stupefacenti.
I dati analizzati dal Times si riferiscono a oltre 3,2 milioni di rimpatri in oltre dieci anni, ottenuti grazie al Freedom of Information Act, da cui emerge che il numero di persone rimpatriate con violazioni al codice della strada come infrazione più grave è più che quadruplicato nei cinque anni di presidenza Obama, rispetto agli ultimi cinque anni di Bush (da 43.000 a 193.000). Nello stesso periodo, i rimpatri connessi alle condanne per ingresso illegale nel Paese sono triplicati, superando con l'attuale presidente il numero di 188.000 casi.
Quasi 34.000 migranti senza permesso sono rinchiusi nei centri di detenzione, dove si sta diffondendo una protesta che ha in Tacoma il suo luogo d'origine. A occuparsene è il Guardian. "Non sono libero. Mi hanno messo in manette" ha raccontato Ramon Mendoza Pascual, 37 anni, rinchiuso dal settembre dello scorso anno.
"Perché? Non mi sento un criminale. Non sono un criminale". Il centro di detenzione di Tacoma è uno dei più grandi negli Stati Uniti, che ha una rete di 250 strutture che, insieme, danno 'ospitalità' a 34.000 persone in attesa di essere espulse.
L'uomo, un immigrato messicano, ha guidato centinaia di altri detenuti in una serie di scioperi della fame che hanno provocato anche la protesta in un centro di detenzione del Texas, portando l'attenzione su uno dei punti più controversi del sistema di espulsione.
Grosse critiche si sono sollevate ultimamente contro il presidente non solo per il numero record di persone espulse da quando Barack Obama è alla Casa Bianca (con circa due milioni di rimpatri, Obama ha raggiunto in poco più di 5 anni George W. Bush), ma anche per la scelta dei migranti da punire e per il trattamento a loro riservato.
Mendoza è entrato illegalmente negli Stati Uniti 20 anni fa, in cerca di una vita migliore; se l'è costruita nella costa nord-occidentale del Paese, a Seattle, dove si è messo a fare il carpentiere, si è costruito una casa, si è sposato e ha avuto tre figli, di 5, 10 e 12 anni, tutti cittadini degli Stati Uniti. Lo scorso settembre, ha bevuto qualche birra di troppo ed è stato arrestato dalla polizia, che lo aveva fermato per un controllo. Le accuse contro di lui sono cadute, perché Mendoza era fermo in macchina, in attesa che la moglie lo andasse a prendere.
L'uomo, però, era già stato arrestato per guida in stato d'ebbrezza nel 2007 e per questo è stato consegnato al Cie come "immigrato illegale con un fedina penale sporca" e incarcerato a Tacoma. A dicembre, un giudice lo ha definito "un pericolo per la comunità", negandogli la libertà in cambio di una cauzione. "Mi considerano un pericolo per la società, ma ho trascorso tutti i giorni della mia vita lavorando onestamente. Come posso occuparmi della mia famiglia?" ha detto Mendoza.
I detenuti dei centri hanno due possibilità: firmare il foglio per il rimpatrio o restare lì a combattere per ottenere il diritto a vivere negli Stati Uniti, un processo per cui potrebbero essere necessari diversi anni. Dato che si tratta di cause civili, non penali, i detenuti non hanno diritto a un avvocato; a Tacoma, più dell'80% degli ospiti ne è sprovvisto.
Obama, definito dai critici il "deporter-in-chief" (invece del commander-in-chief, ovvero il comandante in capo), ha sempre detto che l'obiettivo delle espulsioni è quello di colpire i criminali, non di dividere le famiglie. Quello che sta passando Mendoza, però, mostra che a rimetterci sono anche persone colpevoli di infrazioni minori e che i loro non sono casi isolati: dai dati governativi sulla presidenza Obama analizzati giorni fa dal New York Times emerge che i due terzi dei rimpatri coinvolgono persone che hanno la fedina penale pulita o che hanno commesso solo infrazioni lievi; solo il 20% - circa 394.000 - dei casi coinvolge persone che hanno commesso reati gravi, compresi quelli legati agli stupefacenti.
I dati analizzati dal Times si riferiscono a oltre 3,2 milioni di rimpatri in oltre dieci anni, ottenuti grazie al Freedom of Information Act, da cui emerge che il numero di persone rimpatriate con violazioni al codice della strada come infrazione più grave è più che quadruplicato nei cinque anni di presidenza Obama, rispetto agli ultimi cinque anni di Bush (da 43.000 a 193.000). Nello stesso periodo, i rimpatri connessi alle condanne per ingresso illegale nel Paese sono triplicati, superando con l'attuale presidente il numero di 188.000 casi.
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