Il numero di rifugiati affetti da cancro grava sui sistemi sanitari in Giordania e in Siria, ha dichiarato il massimo esperto medico dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNCHR), un’emergenza che costringe l’UNHCR e i suoi partner a prendere difficili decisioni su chi debba ricevere o meno le cure.
In un nuovo studio pubblicato oggi domenica 25 maggio sulla rivista The Lancet Oncology, il Dott. Paul Spiegel ha documentato i casi di centinaia di rifugiati in Giordania e in Siria a cui sono state negate le terapie oncologiche a causa dei fondi limitati e sollecita l’urgente adozione di nuove misure nella lotta contro il cancro nelle crisi umanitarie. “Possiamo curare tutti i pazienti con il morbillo, ma non siamo in grado di far fronte a tutti i casi di cancro” dichiara il Dott. Spiegel. “Dobbiamo respingere i malati di cancro con poche prospettive di vita perché curarli è troppo costoso. Dopo aver perso tutto nel proprio paese, i malati di cancro devono affrontare sofferenze ancora peggiori all’estero, spesso con enormi costi emotivi e finanziari per le loro famiglie”.
Secondo lo studio del The Lancet Oncology, che ha preso in esame i rifugiati in Giordania e in Siria tra il 2009 e il 2012, il numero dei casi documentati di cancro tra i rifugiati nella regione sono aumentati sia perché il numero dei rifugiati è complessivamente cresciuto, sia perché sempre più persone fuggono da paesi a medio reddito come la Siria.
Il cancro è anche un problema crescente tra i rifugiati provenienti da paesi a basso reddito, dove l’attenzione si è tradizionalmente concentrata sulle malattie infettive e sulla malnutrizione. La forma tumorale più comune tra i rifugiati è il cancro al seno, che rappresenta quasi un quarto di tutte le richieste di cura presentate in Giordania al Comitato per le Cure Eccezionali dell’UNHCR (ECC), preposto a decidere se finanziare o meno trattamenti costosi.
In Giordania, ad esempio, l’ECC ha potuto accogliere solo 246 su 511 richieste (48%) di cure oncologiche presentate dai rifugiati tra il 2010 e il 2012. Il principale motivo di rifiuto era una prognosi negativa, vale a dire un paziente con poche possibilità di recupero, motivo che ha indotto il Comitato a decidere di investire la limitata quantità di denaro in altri pazienti.
Raramente, l’ECC si trova costretto a dover respingere anche i pazienti con prognosi favorevoli a causa degli elevati costi delle cure. Il Dott. Adam Musa Khalifa, medico dell’UNHCR e membro dell’ECC in Siria, racconta di una paziente irachena, madre di due figli, affetta da una rara forma di tumore al seno che ha dovuto interrompere la terapia in Iraq a causa della situazione di instabilità del paese, senza poter continuare le cure in Siria in quanto troppo costose. I costi delle cure possono infatti in alcuni casi sfiorare i 21mila USD. “Dobbiamo prendere decisioni terribili su chi aiutare”, afferma il Dott. Khalifa.
“Alcuni pazienti hanno una prognosi favorevole, ma i costi delle terapie sono troppo elevati. Queste decisioni hanno un profondo impatto psicologico su tutti noi”. I sistemi sanitari statali in Siria e Giordania sono stati travolti dalla situazione e le strutture private si stanno rivelando insufficienti. e dei farmaci, ma non basta, denuncia lo studio.
I rifugiati ammalati di cancro spesso devono interrompere le terapie a causa del clima di insicurezza nel loro paese d’origine. In Siria, ad esempio, molti ospedali sono stati distrutti o chiusi e i medici sono fuggiti. “Lo studio del Lancet non lascia alcun dubbio sul fatto che il cancro è un problema di salute importante tra i rifugiati” afferma il Dott. Spiegel. “Dobbiamo trovare soluzioni migliori, insieme ai paesi ospitanti, per finanziare la prevenzione e il trattamento”. I nuovi approcci potrebbero includere campagne di informazione itineranti e online incentrate sulla prevenzione sanitaria e nuovi sistemi di finanziamento come il crowd-funding e un’eventuale assicurazione sanitaria.
Qualsiasi misura che verrà adottata dovrà tener conto dei Sistemi sanitari dei paesi d’asilo nel loro complesso, al fine di evitare disparità tra le comunità ospitanti e i rifugiati.
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