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lunedì 30 giugno 2014

Il Ghana verso l’abolizione della pena di morte

ilReferendum
Il Ghana è pronto per abbandonare la pena di morte. Il Paese potrebbe essere il 12° stato africano ad abolire la pena capitale in favore di altre soluzioni detentive. Gli elettori ghanesi, infatti, verranno chiamati a votare un referendum per scegliere se abolire o mantenere la pena. La consultazione avverrà molto probabilmente il prossimo novembre.

Emmanuel Victor Oware Dankwa
(fonte: www.gillbt.org)
Il professor Emmanuel Victor Oware Dankwa, presidente della Commissione di revisione della Costituzione, ha fatto sapere che in caso di esito positivo la pena capitale verrà sostituita con una pena detentiva a vita. Con l’occasione i votanti verranno chiamati ad esprimersi anche su altri due quesiti. 

Il secondo riguarda la possibilità che il presidente possa dichiarare guerra solo se il parlamento rettifica la sua decisione nelle 72 ore successive; la terza prevede che il presidente neo-eletto possa giurare, non di fronte al parlamento, ma davanti al capo della corte suprema.

Dankwa ha detto anche che la commissione ha ricevuto sotto varie forme, dalle lettere ai social network, oltre 83,161 segnalazioni per le modifiche costituzionali. Tra i vari emendamenti alcuni riguardavano anche le modalità di concessione della grazia. 

Secondo le prime bozze, per alcuni reati come tradimento, rapina, omicidio e delitti legati al traffico di droga, la grazia non sarebbe più nelle mani del presidente ma di un comitato indipendente.
Dankwa ha inoltre spiegato che la consultazione avverrà probabilmente in concomitanza con le elezioni locali di Novembre. L’obbiettivo di questa unione è duplice. Da un lato si punta a risparmiare sui costi di segreteria; dall’altro si vuole far in modo che l’affluenza dei votanti si assesti sopra il 40%. Secondo alcune rilevazione oltre il 75% dei potenziali lettori sarebbe favorevole ai quesiti referendari.

Non tutti gli addetti ai lavori si sono detti entusiasti di questa consultazione. Akuriba Yaagy, comandante di polizia della regione est del paese, ha espresso tutto il suo disappunto per la possibile abolizione della pena. Yaagy, portando l’esempio di molti Stati americani, ha insistito sul fatto che l’abolizione farebbe venire meno la capacità deterrente della pena incentivando rapinatori e assassini. La posizione di Yaagy fa leva sul fatto che negli ultimi 20 anni ogni condanna a morte è stata poi commutata in una condanna a vita.

[...]

In Africa comunque la battaglia del Ghana non è la sola. Il rapporto di Amnesty riporta infatti che sono stati compiuti significativi passi avanti anche in Benin e Sierra Leone.

di Alberto Bellotto (@albertobellotto)

Firenze - Un altro suicidio nel carcere di Sollicciano - Un uomo di 33 anni del Marocco

gonews 
Nella notte appena trascorsa un detenuto del carcere di Sollicciano si è suicidato inalando il gas di una bombola. L’episodio si è verificato intorno a mezzanotte e mezzo e inutili sono stati tutti i tentativi di soccorso. 

L’uomo era di origine marocchina e aveva 33 anni. Don Vincenzo Russo, responsabile della Madonnina del Grappa e cappellano del carcere fiorentino, che commenta così: “Ormai è palese la situazione di degrado delle nostre carceri, che non garantiscono nemmeno il minimo di dignità umana a chi ha sicuramente sbagliato, anche se spesso per reati minori, ma che non per questo merita di morire. In Italia si sente dire sempre più spesso che rubano tutti, però in carcere ci finiscono soltanto i le persone ai margini della società”. 

“Il dilemma sulla funzione del carcere è il solito – prosegue Don Vincenzo Russo – devono essere luoghi di rieducazione oppure di punizione, ma la responsabilità di tutto questo forse non è nemmeno delle carceri, ma di un sogno spezzato, di questi uomini e donne che arrivano nel nostro paese con grandi aspettative, per poi scontrarsi con una dura, durissima realtà di un Paese, di un’Europa che non è organizzata per accoglierli dignitosamente. Forse tutto il sistema dovrebbe essere ripensato, cercando di lavorare diplomaticamente e non solo, al di la del mare, nei loro paesi d’origine, o in quelli disponibili a collaborare, trasformando un dramma in un opportunità per loro ma anche per noi”.

Immigrazione: 30 cadaveri su un barcone. Altra tragedia nel canale di Sicilia. 1654 persone salvate.

La Repubblica
A bordo c'erano oltre 600 persone. I sopravvissuti sull'imbarcazione ora scortata in rotta per Pozzallo. Nelle ultime ore oltre 2.000 migranti soccorsi da navi dell'operazione Mare Nostrum
Roma - Ancora una tragedia nel Canale di Sicilia: una trentina di migranti - il numero esatto ancora non si conosce - sono morti, forse per asfissia, in un barcone che è stato soccorso in nottata da una nave della Marina militare.

Secondo quanto si è appreso, l'imbarcazione era carica di oltre 600 migranti. Quando la nave Grecale l'ha raggiunta, per alcune decine di loro (il numero delle vittime oscillerebbe tra i 27 e i 30) non c'era più niente da fare. Stipati in una parte angusta del barcone, sono morti molto probabilmente per asfissia.

Proprio la posizione in cui si trovano i corpi ha impedito il loro immediato recupero: solo un paio di cadaveri sono stati portati a bordo della nave militare, che ora sta scortando il barcone verso il porto di Pozzallo, dove dovrebbe giungere stamattina. Già soccorse invece due donne incinte.

Quella che si è conclusa in nottata tragicamente è stata un'altra giornata di soccorsi per gli uomini e le unità del dispositivo Mare Nostrum. Da venerdì - a parte l'intervento della scorsa notte - le navi della Marina militare e della Guardia costiera hanno soccorso sette barconi e hanno salvato complessivamente 1.654 persone partite dalle coste africane.

Il primo intervento, venerdì mattina, è stato eseguito dalla nave Dattilo della Guardia costiera, che ha preso a bordo 416 migranti che si trovavano su un barcone in difficoltà. Quattro invece le imbarcazioni soccorse dalla nave Grecale: un primo intervento, nei confronti di un barcone che aveva una falla ed era alla deriva, ha consentito il salvataggio di 227 persone, tra cui 19 donne e 18 minori. Successivamente sono state soccorse altre 218 persone (tra cui 29 donne e 39 minori) su un barcone e 84 su un gommone che aveva difficoltà di galleggiamento. L'ultimo intervento ha coinvolto un barcone con a bordo 327 migranti, di cui 13 donne e 25 minori. Sono complessivamente 382, invece, gli immigrati che erano sulle due imbarcazioni soccorse da nave Orione della Marina militare.

Bielorussia unico paese in Europa con la pena di morte. Non fa sapere la data dell'esecuzione e non vengono restituiti i corpi

Le persone e la dignità - Corriere della Sera
Tamara Seylun non si dà pace e non se la darà fino a quando non le verrà restituito il corpo di suo figlio Pavel, messo a morte a metà aprile.
“Voglio seppellire mio figlio, voglio recitare le preghiere e dargli sepoltura cristiana. Posso avere questo diritto?” – chiede, disperata.

Tamara, la pace, rischia di non averla mai. Perché non troverà il corpo di suo figlio.

Le autorità della Bielorussia, l’unico paese europeo a prevedere e applicare la pena di morte, non solo non rendono note in anticipo le date delle esecuzioni ma neanche informano le famiglie a esecuzione avvenuta. Queste vengono a saperlo quando, bussando al portone di una prigione, si sentono dire che il parente “non c’è più”. È il cinico modo per comunicare che l’esecuzione della condanna a morte ha avuto luogo.

Da lì, inizia il calvario delle madri: come prevede l’articolo 175.5 del codice di procedura penale, le salme dei prigionieri messi a morte non vengono restituite e il luogo di sepoltura resta segreto.

Lyubov Kovalaeva sta ancora cercando la tomba di suo figlio Vladislav,messo a morte nel marzo 2012 dopo che era stato giudicato colpevole dell’attentato alla metropolitana di Mosca dell’aprile 2011.

Due mesi dopo l’esecuzione, Lyubov ha scritto al parlamento, al ministro dell’Interno, alla procura generale, alla corte suprema e al presidente Alexander Lukashenko chiedendo che le venisse restituita la salma del figlio. Sta ancora aspettando che qualcuno le risponda.

Nell’ottobre 2012 il Consiglio Onu dei diritti umani ha concluso che “il rifiuto dello stato di restituire le salme dei condannati a morte per la sepoltura o di rivelare il luogo dove sono stati sepolti costituisce una forma di intimidazione e di punizione nei confronti delle famiglie, che vengono volutamente lasciate in uno stato d’incertezza e di sofferenza mentale”.



domenica 29 giugno 2014

Ucrania: guerra nell'est allarmanti numeri - 110 mila i rifugiati nei paesi vicini e 54 mila sfollati interni.

Libero Reporter
Ieri l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, UNHCR, ha diffuso l’allarmante resoconto sul numero di persone che in Ucraina a causa del deteriorarsi della situazione sul terreno hanno visto cambiare il loro status in rifugiati e profughi. 

Secondo questo resoconto, sebbene solo un numero relativamente piccolo di persone hanno chiesto lo status di rifugiati, in Ucraina l’agenzia ONU stima che ci siano almeno 54mila sfollati alloggiati in edifici pubblici e alcuni campi tentati. 

La gran parte di essi però, sono ospitati da parenti e amici. Un numero, quello degli sfollati, che si è incrementato ulteriormente la scorsa settimana con altri 16mila sfollati di cui 5mila bambini. 

I profughi sono stati raccolti a Rostov-On-Don e Byransk. Altri arrivi sono segnalati nell’est dell’Ucraina provenienti dalla Crimea, ma per ora, rende noto l’agenzia, non è possibile censirliFinora dalla Crimea sono scappati almeno 12mila ucraini

Sempre secondo UNHCR sono invece, circa 110mila gli ucraini che si sono rifugiati ​​in Russia, e 750 quelli che hanno chiesto asilo in Polonia, Bielorussia, Repubblica Ceca e Romania

Come sempre il motivo che spinge le popolazioni civili ad abbandonare ogni loro avere e a scappare è quello di cercare di sfuggire al dramma della guerra. 

In Ucraina la settimana appena trascorsa è stata caratterizzata da un aggravamento della situazione con un aumento del rischio per i rapimenti, le violazioni dei diritti umani e posti di blocco non autorizzati. 

Da quando è scoppiato il conflitto armato interno in Ucraina l’agenzia ONU si sta prodigando per portare aiuto alla popolazione civile distribuendo aiuti umanitari agli sfollati e aumentando la sua presenza sul territorio per meglio monitorare tutti gli spostamenti della popolazione civile. 

Soprattutto i maggiori sforzi sono stati fatti a Sviatohorsk. Nella città e nelle zone limitrofe si trova la più grande concentrazione di sfollati interni.

Eritrea - Violazioni diritti umani, ONU apre inchiesta

MISNA
Il Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha dato il via libera all’apertura di un’inchiesta sulle “massicce violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità in Eritrea”. L’organismo, con sede a Ginevra, ha approvato una risoluzione presentata da Francia e Somalia, ma con il dissenso di Cina, Pakistan, Venezuela e Russia.

Le prime conclusioni degli investigatori dovranno essere presentate durante la 28a sessione del Consiglio, che si svolgerà tra febbraio e marzo 2015.

La crisi dei diritti umani in Eritrea è stata dimenticata troppo a lungo e siamo di fronte a violazioni senza precedenti” ha dichiarato il rappresentante somalo al Consiglio, Yusuf Mohamed Ismail Bari-Bari.

La risoluzione approvata condanna “violazioni generalizzate e sistematiche dei diritti umani e delle libertà fondamentali”, tra cui esecuzioni extragiudiziari, sparizioni forzate, torture, detenzione arbitraria, ma anche “gravi restrizioni” ai danni di capi religiosi, giornalisti e difensori dei diritti umani. Il testo sollecita inoltre “la fine del regime del servizio militare a durata indeterminata”, in particolare per i ragazzi, e denuncia il ricorso alla forza ai confini per impedire agli eritrei di lasciare il paese.

Per il rappresentante eritreo Teestamicael Gehrahtu si tratta di un testo “inaccettabile”, assicurando che “armonia, progresso, pace e stabilità regnano nel paese”. L’esponente di Asmara ha accusato la vicina Etiopia di adoperarsi per “mantenere la pressione internazionale e le sanzioni Onu sull’Eritrea”.

In base all’ultimo rapporto stilato da esperti Onu, ogni mese circa 4000 eritrei, su una popolazione totale di cinque milioni, fuggono dal paese del Corno d’Africa per evitare repressione brutale e lavoro forzato.
[VV]

Israele: terzo giorno protesta migranti, indignati per condizioni di detenzione disumana

Ansa
Prosegue per il terzo giorno consecutivo, a breve distanza dal confine con l'Egitto, la protesta inscenata in Israele da un migliaio di migranti originari di Sudan ed Eritrea che denunciano la "condizioni di detenzione disumane e a tempo indefinito" di cui affermano di essere oggetto nel centro di accoglienza forzata di Holot (Neghev). 

Ieri i dimostranti (che si sono raccolti in una rada boscaglia a Nitzana, a poche centinaia di metri dal Sinai) hanno ricevuto una visita di funzionari dell'agenzia dell'Onu per i profughi (Unhcr).

"Tenteremo di varcare il confine con l'Egitto se le nostre richieste non saranno accolte", affermano i portavoce della protesta in un documento inoltrato alle agenzia di stampa. Venerdì i dimostranti hanno abbandonato il centro di Holot (dove si trovano 2.300 internati degli oltre 50 mila africani immigrati in Israele) e hanno improvvisato una Marcia della Libertà verso il Sinai egiziano, ma sono stati bloccati da reparti dell'esercito. Accampatisi in un'area desertica, hanno ricevuto acqua e viveri da un kibbutz israeliano vicino.

"Ma le nostre condizioni fisiche sono molto dure" precisano nel documento inoltrato alla stampa. Ad Israele chiedono che finalmente riconosca loro lo status di profughi e, in primo luogo, che liberi immediatamente quanti di loro sono detenuti nella prigione di Saharonim (Neghev) o ospitati nel Centro di accoglienza di Holot.

Secondo Haaretz nei confronti di uno dei dirigenti della protesta, Mutassim Ali, è stato emesso un mandato di arresto. La radio militare aggiunge che in teoria i dimostranti rischiano da questo pomeriggio di essere arrestati in massa e trasferiti nel carcere di Saharonim, dove potrebbero essere detenuti di tre mesi. Ma Israele, secondo la emittente, preferisce ancora cercare una soluzione mediata ed evitare una repressione violenta dalla protesta.

Emergenza Siria - Aleppo, le adesioni all'appello di Riccardi

Link:
Avvenire
A una settimana dall’appello di Andrea Riccardi crescono le adesioni perché il dramma di Aleppo e della Siria non sia dimenticato. Tra i firmatari, rappresentanti di associazioni, di movimenti ecclesiali, di personalità della società civile e del mondo politico. All'appello ha subito aderito Marco Tarquinio, direttore di Avvenire.



Hanno sottoscritto il testo, tra gli altri: il ministro Marianna Madia, i viceministri Andrea Olivero e Carlo Calenda, il sottosegretario Mario Giro; Rexhep Meidani, ex Presidente dell'Albania; Susanna Tamaro; Giovanni La Manna, Presidente del Centro Astalli per i Rifugiati; Gianni Bottalico, Presidente nazionale delle ACLI; il filosofo Giacomo Marramao; Antonio Ferrari; Lucio Brunelli, Direttore di Tv2000; Roberto Toscano; Domenico Quirico; Alberto Melloni; il Presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, Matteo Truffelli; Lorenzo Dellai; Graziano Del Rio, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio; Luigi Bobba – Sottosegretario al Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali; il senatore Gianpiero Dalla Zuanna; i deputati Gianluigi Gigli, Gianpiero D’Alia, Milena Santerini, Gaetano Piepoli, Gregorio Gitti, Salvatore Matarrese, Lucio Romano, Pierferdinando Casini,Federico Fauttilli, Alessio Tacconi, Valter Verini, Gea Schirò. L'appello è stato pubblicato anche sui quotidiani belgi De Standard e La Libre Belgique.
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Il testo dell'appello - «Salviamo Aleppo»
Faccio un appello per Aleppo. Accade qualcosa di terribile. Ma viene ignorato. Oppure si assiste rassegnati. Sono due anni che si combatte ad Aleppo. Nel luglio 2012 è iniziata la battaglia nella città più popolosa della Siria. Eppure i suoi due milioni di abitanti sono rimasti, preservando la millenaria coabitazione fra musulmani e cristiani. La città è segmentata: la maggior parte dei quartieri in mano lealista, ma anche zone controllate dai ribelli, pur arretrati dall'occupazione dell'estate 2012. A loro volta i ribelli sono incalzati da sudovest dalle forze governative. La gente non può uscire dalla città accerchiata dall'opposizione, tra cui fondamentalisti intransigenti e sanguinari. Per i cristiani, uscire dalla zona governativa significa rischiare la vita. Lo sanno bene i due vescovi aleppini, Gregorios Ibrahim e Paul Yazigi, da più di un anno sequestrati. Aleppo è la terza città "cristiana" del mondo arabo, dopo Il Cairo e Beirut: c'erano 300 mila cristiani!
Morte da ogni parte.
La popolazione soffre. L'aviazione di Assad colpisce con missili e bidoni esplosivi le zone in mano ai ribelli; questi bombardano gli altri quartieri con mortai e razzi artigianali. Si soffre la fame e la mancanza di medicinali. C'è l'orribile ricatto dell'acqua che i gruppi jihadisti tolgono alla città. È una guerra terribile e la morte viene da ogni parte. Passando per tunnel sotterranei, si fanno esplodere palazzi "nemici". Come sopravvivere? Si deve fermare una strage che dura da due anni. Occorre un intervento internazionale per liberare Aleppo dall'assedio. Ci vuole un soprassalto di responsabilità da parte dei Governi coinvolti: dalla Turchia, schierata con i ribelli, alla Russia, autorevole presso Assad. Salvare Aleppo val più che un'affermazione di parte sul campo! Si debbono predisporre corridoi umanitari e rifornimenti per i civili. E poi si deve trattare a oltranza la fine dei combattimenti. Una forza d'interposizione Onu sarebbe opportuna. Certo richiede tempo per essere realizzata e collaborazione da parte di Damasco. Intanto la gente di Aleppo muore. Bisogna imporre la pace in nome di chi soffre. Una sorta di "Aleppo città aperta".


Kosovo: Eulex, stupro riconosciuto per la prima volta come crimine di guerra

Nova
La procura speciale del Kosovo è "pienamente soddisfatta" della condanna a 12 e 10 anni di carcere emanata dal Tribunale di appello contro due imputati per crimini di guerra contro la popolazione civile. Lo ha reso noto la missione europea Eulex attraverso un comunicato.

Profughi kossovari verso
l'Albania - 1998
"Gli imputati hanno commesso un grave crimine di guerra contro una ragazza di 16 anni. Questo caso è una dimostrazione della volontà della comunità internazionale di porre fine all'impunità per tutti coloro che commettono tali crimini. Entrambi gli imputati in questo caso sono stati giudicati colpevoli di stupro come crimine di guerra, ed è la prima volta che ciò avviene in Kosovo", riferisce la procura.

"Il procuratore si augura che questa condanna incoraggi altre donne e uomini coraggiosi a denunciare le violenze sessuali subite durante la guerra, a prescindere dagli autori di queste violenze", riferisce ancora la nota.

Un Tribunale d'appello kosovaro ha ribaltato oggi una sentenza di assoluzione della Corte di Mitrovica, risalente al 24 giugno scorso, condannando due imputati, il cui nome non è stato rivelato, a 12 e 10 anni di carcere per crimini di guerra contro la popolazione civile. I giudici hanno ordinato la detenzione preventiva fino alla sentenza finale. Le parti hanno la possibilità di ricorrere contro la sentenza presso la Corte suprema kosovara.


Link corelatiSottosegretario Esteri Giro - Italia in prima linea nel semestre europeo contro la violenza sessuale nelle aree in conflitto

Libia Uccisa Salwa Bugaighis avvocato dei diritti umani, voce contro l’estremismo e per il dialogo

ANSA
Roma - Un atto "codardo, deprecabile e vergognoso contro una donna coraggiosa e una patriota libica": così l'ambasciatore americano in Libia Safira Deborah commentando l'uccisione a Bengasi dell'avvocato per i diritti umani Salwa Bugaighis. 

La donna, in prima fila nella difesa dei prigionieri politici durante il regime di Gheddafi, era stata insignita nel 2012 di un premio della 'Vital Voices Global Leadership Awards', una fondazione molto vicina ad Hillary Clinton.

sabato 28 giugno 2014

Malawi: la storia di Suor Anna, l'angelo di bambini e detenuti - Aiuti alimentari e sanitari in carcere

L'Arena di Verona
Ai carcerati fornisce medicinali e cibo. Ha creato un'infermeria e corsi di recupero per ex galeotti. La francescana suor Anna originaria di Affi ha realizzato 54 scuole
Ben 65 villaggi in Malawi hanno scuole materne e rurali grazie a una suora veronese che vive nel paese africano dal 2002, dopo essere stata per una decina díanni in Tanzania e poi un lungo periodo di attività a Roma per la comunità delle Francescane ausiliare laiche missionarie dellíImmacolata, in cui entrò diciassettenne nel 1960. Sono 54 le scuole già costruite dalla missionaria originaria di Affi, una decina ancora organizzate sotto líalbero più grande del villaggio o una tettoia, mentre per altre cinque tutto il materiale di costruzione E' pronto per essere montato. Il villaggio collabora alla costruzione e alla gestione della scuola. 

Suor Anna con le offerte raccolte compera il materiale. Il capo villaggio che organizza il lavoro di preparazione e cottura dei mattoni, di scavo delle fondamenta, del trasporto dell'acqua. "Con le offerte si comperano il cemento, la calce, il legname e gli infissi e si paga la manodopera Con 3.500 euro si costruisce dal nulla una scuola mentre E' gratis il servizio dei docenti".

Sono già 3.400 i bambini che frequentano queste scuole rurali e che ricevono una refezione quotidiana che integra con una miscela di farina di soia e mais, arricchita con vitamine e zucchero, la dieta povera di proteine che ricevono a casa loro, mentre per alcuni orfani E' l'unico pasto di tuttala giornata: "Bastano 50 euro per alimentare per un mese tutti i bambini di un intero asilo", fa sapere suor Anna 

L'altro impegno della suora veronese è il progetto carceri: ne segue ben nove, di cui due minorili ed è l'unica persona autorizzata ad entrare nel braccio della morte. "Questi detenuti non possono vedere nessuno al di fuori del personale del carcere e sono líunica esterna che una volta al mese li può visitare.

Con i fondi dell'8 per mille destinati alla Chiesa cattolica siamo riusciti a costruire un'infermeria nel carcere di Chichiri, che aiuta a salvare molti perché non ci sono cibi speciali per i malati e aiuti sanitari", denuncia suor Anna, che ha avviato un programma alimentare per ottomila detenuti di cui 900 sieropositivi. Si finisce in carcere rischiando di morire per le dure condizioni, anche per piccoli reati, come una nonna che deve scontare sei mesi per aver rubato un paio di scarpe per il nipote orfano che doveva andare a scuola o una mamma al primo mese di gravidanza che è stata denunciata senza prove dal vicino per un furto di mais: E' rimasta in carcere per tutta la gravidanza, ha anche partorito là e il bambino è rimasto rinchiuso con lei. "Più della metà dei detenuti dorme seduta perché non cíè spazio per sdraiarsi.

Per affrontare la debilitazione delle malattie serve cibo per integrare l'alimentazione monotona che arriva dal carcere. Sono aiutata in questo da una cooperativa costituita per offrire un futuro e assistere gli ex carcerati inserendoli nel mondo del lavoro, con interventi nell'edilizia nella falegnameria e nella sartoria e maglieria. 

Un giovane segue le pratiche legali e un altro tiene le comunicazioni con le famiglie dei detenuti. Altri lavorano nei laboratori e insegnano un mestiere o danno ai più giovani la possibilità di prepararsi agli esami per ritornare a scuola", riferisce la religiosa veronese che ringrazia "gli amici di Affi e Illasi, mio fratello Giovanni e sua moglie Marta per le offerte, che sostengono i progetti, e gli organizzatori e i partecipanti alla cena benefica di Caprino". Per aiutarla ci si può rivolgere all'associazione "Con Anna per il Malawi" Onlus in via Chiesa 10 ad Affi (telefono 349.0896901).

di Vittorio Zambaldo

Nigeria: ateo dichiarato malato mentale, a rischio di pena capitale

Blasting News
Internato in un ospedale psichiatrico dopo aver dichiarato il suo ateismo: forse la sua vita è in pericolo.
Nella regione di Kano, Mubarak Bala è stato rinchiuso in un ospedale psichiatrico dopo aver dichiarato alla sua famiglia di essere ateo. Il fatto sta suscitando grande clamore internazionale, anche grazie alla campagna su Twitter #FreeMubaraklanciata poche ore dopo l'ospedalizzazione.


L'ateismo come sintomo di squilibrio?
Kano, stato nella regione centrale della federazione nigeriana, è uno stato a grande prevalenza musulmana: la legge islamica è stata adottata sin dal 2000. Bala è stato internato dopo aver dichiarato davanti ai suoi familiari il proprio ateismo. La reazione della famiglia (secondo alcune indiscrezioni sostenitrice dell'ala estremista Boko Haram) a questo genere di affermazione è stata immediata: sono stati contattati due medici, il primo dei quali ha negato qualunque genere di squilibrio mentale. Il secondo medico ha invece correlato l'ateismo a una "condizione psicologica conflittuale", diagnosi che ha causato l'ospedalizzazione, immediata ed ovviamente non consensuale, di Bala. L'uomo è riuscito ad avere contatti con alcuni attivisti locali poco dopo l'ospedalizzazione, utilizzando un telefono cellulare sottratto ai controlli. 

L'ospedale ha dichiarato che l'uomo sarà "trattenuto solo per il tempo necessario" e che verrà immediatamente rilasciato una volta risolta la situazione psichica di conflitto. Intanto, alcuni comunicati stampa indipendenti suggeriscono uno stato di maltrattamento dell'uomo, che sarebbe stato aggredito e picchiato dai suoi stessi familiari e che si troverebbe ora sotto terapia farmacologica.

Prevista la pena di morte per il crimine d'ateismo
L'Unione Internazionale Etica ed Umanista (IHEU) ha immediatamente dato risalto alla notizia di questo ennesimo scacco ai diritti umani in Nigeria. La vita di Bala potrebbe essere a rischio: in Nigeria infatti è prevista la pena di morte per l'ateismo. Intanto, sulla rete si moltiplicano gli appelli e le petizioni per portare questa storia alla ribalta, ed ottenere il rilascio immediato di Bala. L'avvocato dell'uomo a quanto pare non ha potuto raggiungere il suo cliente, ma ha dichiarato alla BBC la volontà di organizzare una perizia psichiatrica totalmente indipendenteper accertarne le condizioni effettive e disporre eventuali interventi legali.

Giordania - Mille bambini nati nel campo profughi di Zaatari. Il direttore Caritas: diamo loro un futuro

Agenzia Fides
Amman – La piccola Aisha, nata lo scorso 27 maggio, è la millesima tra i neonati partoriti nella clinica del campo profughi di Zaatari, 80 chilometri a nord est di Amman, dove attualmente sopravvivono almeno 85mila rifugiati siriani. 

Secondo gli organismi Onu che tengono il conto delle nuove nascite a Zaatari, dopo Aisha, nello stesso campo profughi sono già nati altri 30 bambini, e dall'inizio dell'anno 37 gravidanze sono state portate a termine da ragazze al di sotto dei 18 anni. 

“E' un dato che colpisce” commenta per l'Agenzia Fides il Direttore di Caritas Giordania, Wael Suleiman, “soprattutto se si tiene conto che è riferito solo alla popolazione di Zaatari. 

In tutta la Giordania adesso ci sono un milione e 400mila profughi siriani, e tra loro stanno nascendo migliaia e migliaia di bambini. Tante donne fuggono dalla Siria proprio perchè sono incinte e vogliono partorire in un luogo che garantisca dal punto di vista sanitario requisiti minimi di sicurezza, mentre nelle città e nei villaggi da cui sono fuggite gli ospedali e le cliniche sono stati distrutti dal conflitto o vengono utilizzati solo per curare i feriti. 

Di certo” aggiunge Suleiman “questi piccoli nascono nei campi profughi come segni di speranza in una situazione che sembra non avere speranza, dove si verificano anche casi di violenza, e che interpella tutta la comunità internazionale a impegnarsi per garantire loro un futuro dignitoso”.
 
Lo scorso 18 giugno Wael Suleiman ha ritirato a Lucerna il “Caritas Prix 2014” conferito dalla Caritas svizzera per il lavoro sostenuto da Caritas Jordan a favore dei profughi siriani. “I rifugiati” spiega a Fides Suleiman, “sono stanchi della guerra, sono venuti e continuano a venire in Giordania per vivere in pace. Solo ieri ne sono arrivati 570. Non vogliono creare problemi e in questo senso, a mio giudizio, la loro presenza non contribuisce in alcun modo al rischio che la Giordania sia contagiata dai conflitti che ci circondano”. (GV)

venerdì 27 giugno 2014

Sudan, Ong: "Meriam è di nuovo libera"

La Repubblica
Secondo Sudan Change Now ha lasciato aeroporto in attesa dei documenti ora si trova in un luogo sicuro. Secondo l'avvocato è però ancora sotto custodia. Scarcerata lunedì, era stata di nuovo arrestata mentre cercare di lasciare il paese con la famiglia
"I nostri referenti di Sudan Change Now ci hanno confermato che le autorità sudanesi hanno rilasciato Meriam Yeya Ibrahim Ishag". E' quanto scrive sulla pagina Facebook di Italians for Darfur la presidente dell'associazione Antonella Napoli. Secondo l'avvocato della donna però è ancora sotto custodia.

"La donna sudanese di religione cristiana scarcerata lunedì dopo essere stata condannata a morte per apostasia - sottolinea Napoli - e nuovamente fermata e trattenuta all'aeroporto di Khartoum mentre tentava di lasciare il paese con il marito Daniel Wani e i due figli, è stata trasferita in un luogo sicuro dagli stessi servizi segreti che l'avevano bloccata e sottoposta a un lungo interrogatorio".

Egitto, 183 Fratelli mussulmani condannati alla pena di morte per i disordini dell'agosto scorso

Italia 24 News
Ieri è arrivata la sentenza del processo d’appello per i sanguinosi disordini dello scorso agosto a Minya, nel sud dell’Egitto, che portarono all’uccisione del vice comandante di una stazione di polizia dopo lo sgombero del sit-in di Rabaa el Adaweya del Cairo. Sono state 183, sulle 500 richieste, le condanne a morte, compresa quella della guida spirituale dei Fratelli Musulmani, Mohamed Badie (foto).
Mohamed Badie
Un anno fa l’Egitto ha vissuto un’estate davvero infuocata, fatta di scontri e guerriglia, durante i quali hanno perso la vita centinaia di persone. Le tensioni avevano portato alla deposizione di Mohamed Morsi, il presidente espressione dei radicali islamici. Questi ultimi si dichiarano apertamente contro il governo del presidente Abdul Fatah al Sisi, l’ex generale che ha giurato loro guerra aperta.

In merito alla sentenza, anche stavolta il verdetto dovrà passare per la ratifica, non vincolante del Gran Muftì, il più alto rappresentante della legge islamica sunnita.

Giorni difficili in Egitto, dunque, dove ai militari, e a una magistratura da sempre influenzata dai governi in carica, ha affidato il compito di respingere l’avanzata dei radicali.

A Washington, intanto, si cerca di capire quale posizione assumere. Sono diverse le organizzazioni per i diritti umani che chiedono l’annullamento della sentenza. «Le condanne a morte confermate da un tribunale egiziano vanno annullate», chiede per esempio Hassiba Hadj Sahraui, vicedirettore di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa. E aggiunge: «L’Egitto ha fatto un enorme passo indietro in tema di diritti umani», definendo l’uso della pena capitale come un mezzo «per eliminare gli avversari politici».
Gaia Albini 

Egitto: il mondo si mobilita per i reporter di Al Jazira in carcere, ma Sisi rifiuta la grazia

Il Messaggero
Mobilitazione internazionale, ed espressioni di solidarietà anche al Cairo, per i giornalisti della tv satellitare Al Jazira condannati pesantemente in Egitto per presunto "sostegno ai Fratelli musulmani". Ma nonostante le proteste, il presidente e nuovo uomo forte egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha indirettamente respinto al mittente una richiesta di grazia avanzata dagli Stati Uniti.
A Londra, .di fronte alla sede della Bbc, centinaia di giornalisti si sono radunati per denunciare l'esito del processo sotto lo slogan "journalism is not a crime".

I partecipanti hanno osservato un minuto di silenzio tappandosi la bocca con un nastro adesivo nero per sottolineare come il verdetto del Cairo rappresenti una violazione della libertà d'informazione. Intanto da Doha l'emittente panaraba ha moltiplicato i suoi appelli usando l'hashtag #freeajstaff.

E molte altre sono state le manifestazioni di sostegno ai reporter incarcerati diffuse in rete con foto o slogan. A turbare il mondo dei media è anche l'entità delle pene: con la condanna a sette anni inflitta al pluripremiato reporter australiano Peter Greste e all'egiziano-canadese Mohamed Fahmi (ex capo dell'ufficio cariota di Al Jazira) e quella a 10 anni di reclusione al producer locale Baher Mohamed.

Accusati di "disinformazione" e "sostegno materiale alla Confraternita" - di nuovo bandita come 'organizzazione terroristica dal nuovo potere egiziano - i tre sono ora nel carcere di Torà, al Cairo, assieme a quattro fotografi e operatori egiziani. Mentre7 altri 11 reporter imputati (tra cui due britannici e una olandese) sono stati condannati a 10 anni in contumacia. Ma l'allarme e gli appelli non sembrano smuovere Sisi.

"Non si compiono ingerenze nelle attività della magistratura, che è indipendente", ha sostenuto oggi il presidente ed ex generale al Cairo durante una cerimonia presso l'accademia militare. Una replica indiretta al coro di critiche internazionali, con Onu, Gran Bretagna e organizzazioni per la difesa dei diritti umani in testa, che aveva spinto Washington a sollecitare un atto di clemenza presidenziale come soluzione della vicenda.

"Chiediamo al governo egiziano di concedere la grazia a queste persone", aveva detto apertamente un portavoce della Casa Bianca, in linea con quanto chiesto dall'Australia e da decine di media stranieri presenti al Cairo e uniti in un appello alla scarcerazione. Il presidente americano Barack Obama, se vuole, ha comunque un forte strumento di pressione: il miliardo e mezzo di dollari l'anno in aiuti soprattutto militari che da ottobre sono stati congelati (e solo parzialmente sbloccati questa settimana) proprio in attesa di prove di rispetto dei diritti fondamentali da parte della nuova leadership egiziana. Nel negare la grazia, Sisi non ha del resto nascosto le difficoltà economiche e di bilancio dell'Egitto, su cui insiste da mesi.

giovedì 26 giugno 2014

Libia, l'orrore nelle carceri non ha fine mentre prosperano gli affari nel "commercio" dei disperati

La Repubblica
Human Right Watch (HRW)ha visitato nove dei centri dove vengono trattenuti, in condizioni a dir poco disumane e sottoposti a violenze di ogni sorta. "...Ho visto appendere quattro o cinque persone a testa in giù ad un albero fuori dalla porta principale e li ho visti percuoterli e frustarli sui piedi e sulla pancia"

ROMA - Mentre c'è attesa delle scelte che potrà compiere il neo-premier Ahmed Omar Maiteeq, il paese è di fatto preda di un vero e proprio pandemonio politico. Il volume d'affari più cospicuo è quello del traffico di esseri umani. Quello della benzina è passato in secondo piano. Era meno rischioso, è vero, ma non c'è dubbio che "commerciare" con esseri umani disperati conviene assai di più. Soprattutto perchè a voler partire dalla Libia sono davvero in tanti. Si contano a migliaia a Tripoli, così come a Bengasi, a Misurata, o a Zwara, considerato ormai il centro nevralgico degli "affari" che si fanno con i migranti e i profughi in Libia. A Fashloum, oppure a Gourjiy - due quartieri della capitale - centinaia di uomini provenienti dall'Africa "profonda" aspettano di partire. Sono richiedenti asilo siriani, somali, eritrei, sudanesi, che nell'attesa del "passaggio" verso l'Europa cercano di spravvivere proponendosi come lavoratori occasionali. E c'è solo da immaginare con quali compensi e quali garanzie. 
Le visite di HRW ai centri di detenzione. Intanto,  Human Rights Watch(HRW) ha visitato nove dei centri dove vengono trattenuti, in condizioni a dir poco disumane e sottoposti a violenze di ogni sorta, i migranti che comunque in Libia non vengono distinti fra quelli, cosiddetti "economici", ovvero in cerca di lavoro, e quelli che invece duggono dai loro paesi per ragioni umanitarie: guerre, discriminazioni, assenza di diritti fondamentali. I funzionari di HRW hanno così parlato con 138 detenuti dei problemi nel corso della loro detenzione. In otto dei centri - Burshada e al-Hamra, vicino Gharayan; al-Khums, a cento chilometri a est di Tripoli; Zliten, e Tomena, vicino Misurata; abu-Saleem e Tuweisha a Tripoli; e Soroman, 60 chilometri a ovest di Tripoli - i detenuti hanno parlato di gravi violenze da parte delle guardie carcerarie. Alcuni colloqui sono stati condotti in gruppo, altri in privato e confidenzialmente.

Chiusi 24 ore nei container.
 Tra le strutture utilizzate per detenere i migranti vi sono container da nave, ex-centri veterinari e uffici governativi non utilizzati e non sono adibiti ad ospitare detenuti neanche per un breve periodo. Dozzine di detenuti hanno detto a Human Rights Watch di aver passato mesi confinati 24 ore al giorno all'interno di stanze e container.

Botte e scariche elettriche.
 Guardie penitenziarie dei centri di detenzione per migranti sotto il controllo del governo libico hanno torturato, o usato violenza in altra maniera, su migranti e richiedenti asilo, con flagellazioni, pestaggi e scariche elettriche. Lo continua denunciare oggi Human Rights Watch (HRW)che ha dunque rilasciato le conclusioni preliminari delle sue indagini nel Paese, dell'aprile 2014, le quali comprendono interviste a 138 detenuti, quasi cento dei quali hanno riferito di torture e altre violenze. Le presunte violenze, il sovraffollamento massiccio, le condizioni igieniche precarie, e la mancanza di accesso a cure mediche adeguate in otto dei nove centri che Human Rights Watch ha visitato costituiscono un'infrazione degli obblighi della Libia a non compiere torture o trattare persone in modo crudele, inumano o degradante. 

Le "perquisizioni" di agenti maschi sulle donne detenute. "I detenuti ci hanno descritto come agenti maschi hanno perquisito donne e ragazze togliendo loro gli abiti e assaltando uomini e ragazzi" riferisce Gerry Simpson, ricercatore esperto sui rifugiati a Human Rights Watch. "La situazione politica in Libia può essere dura, ma il governo non ha scuse rispetto alle torture o ad altre deplorevoli violenze da parte degli agenti carcerari in questi centri di detenzione". La guardia costiera libica, che riceve aiuti dall'Unione Europea (Ue) e dall'Italia, intercetta o porta in salvo centinaia di migranti e richiedenti asilo ogni settimana mentre questi cercano di raggiungere l'Italia in barche di trafficanti, e li detiene in attesa di deportazione, insieme a migliaia di individui arrestati in Libia per essere entrati nel Paese senza permesso o per esservi rimasti senza valido permesso di soggiorno.

ALCUNE TESTIMONIANZE
  

Eritreo di 33 anni. Centro di migrazione al-Hamra, dove i detenuti vengono tenuti nei container navali. A Novembre [2013], alcuni hanno provato a scappare. Li hanno presi - racconta - hanno poi punito tutti i detenuti in uno dei container. L'ho visto succedere con i miei occhi. Li hanno tirati fuori, gli hanno tolto le camicie, gli hanno tirato acqua addosso e poi li hanno frustati con della gomma sulla schiena e sulla testa per circa mezz'ora. Stavano tutti vomitando per la sofferenza. Altre volte le guardie dicono che spareranno alla gente se non mette i piedi attraverso le barre davanti al container. Poi li picchiano. 

Somalo di 27 anni.
 Da quando sono arrivato qui [nel 2014], le guardie mi hanno aggredito due volte. Mi hanno frustato con un filo di metallo e picchiato e preso a pugni su tutto il corpo. Le ho anche viste appendere quattro o cinque persone a testa in giù ad un albero fuori dalla porta principale e poi percuoterli e frustarli sui piedi e la pancia. E una settimana fa [metà aprile 2014], li ho visti aggredire un uomo egiziano che era stato qui per tre mesi ed era malato di mente. Lo hanno preso a calci in testa e gli hanno rotto un dente. 

Ragazza eritrea di 21 anni. Centro di detenzione per migranti di Soroman. Sono qui dal febbraio scorso. Quando alle guardie non piace quello che fa qualcuno entrano racconta - urlano e lo picchiano con bastoni. Quando sono arrivata qui, le guardie hanno messo tutte noi [23 donne] in una stanza, ci hanno detto di toglierci i vestiti e ci hanno infilato le dita nella vagina.

Quei 12 milioni che UE e Italia regalano alla Libia. Sia l'Ue che l'Italia sostengono anche i centri di detenzione libici attraverso la riabilitazione di alcuni centri e il finanziamento di organizzazioni internazionali e non-governative libiche che vi forniscono assistenza. L'Ue e l'Italia hanno stanziato almeno 12 milioni di euro per i centri nei prossimi quattro anni. L'Ue e l'Italia dovrebbero sospendere ogni assistenza ai centri, che sono gestiti dal ministero degli interni, fino a che il ministero acconsenta a un'indagine sugli abusi e a che la Missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) e l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) abbiano verificato indipendentemente che le violenze siano terminate, ha dichiaratoHuman Rights Watch. Se le violenze terminano, l'Ue e l'Italia dovrebbero anche cercare un accordo con il ministero dell'interno su come utilizzare ulteriori aiuti per portare i centri di detenzione in linea con standard internazionali minimi entro la fine del 2014. Se tale scadenza dovesse risultare non rispettata, tutti gli aiuti ai centri al di sotto degli standard dovrebbero essere sospesi.

Arrivi senza precedenti. 
Le rivelazioni di violenze giungono mentre il numero di migranti e richiedenti asilo che compie il pericoloso attraversamento via mare dalla Libia all'Ue sta per raggiungere il livello record nel 2014. La Marina italiana, dall'ottobre 2013, ha messo in piedi un'operazione di salvataggio su larga scala nota come Mare Nostrum, che ha portato in salvo migliaia di richiedenti asilo e migranti da imbarcazioni inadeguate a prendere il largo. Il 17 giugno, il ministro della Difesa italiano ha detto che al summit dell'Ue del 26 e 27 giugno l'Italia chiederà all'agenzia Ue per la protezione delle frontiere, Frontex, di subentrare nel controllo dell'operazione. Di recente, migranti e richiedenti asilo hanno raggiunto l'Italia dalla Libia ad un ritmo senza precedenti. Nei primi quattro mesi del 2014 circa 42mila persone sono sbarcate in Italia, di cui appena meno di 27mila sono arrivate dalla Libia, secondo Frontex, l'agenzia delle Ue per la protezione delle frontiere. Il numero di arrivi su barconi più alto mai registrato in Italia e a Malta in un anno, il 2011, era di quasi 60mila, secondo Frontex.

Le visite e le interviste di HRW. Che ha vistato 9 dei 19 centri di detenzione gestiti dal Dipartimento alla lotta all'immigrazione clandestina (DCIM) del ministero dell'interno. In otto dei centri, 93 detenuti, tra cui diversi ragazzini anche di appena 14 anni, hanno descritto come le guardie aggrediscano regolarmente loro e altri detenuti. Hanno riportato di essere picchiati dalle guardie con spranghe, bastoni, calci di fucile, e frustati con cavi, tubi, e fruste di gomma fatte con copertoni d'auto e tubi di plastica, talvolta per lunghi periodi sulle piante dei piedi. Hanno anche detto di venire ustionati dalle guardie con sigarette, presi a calci e pugni sul torso e in testa, e di essere sottoposti a scariche elettriche con dei taser. In un centro cinque detenuti hanno detto di essere stati appesi dalle guardie a testa in giù ad un albero e poi frustati.

Un controllo solo teorico sulle guardie. Sia uomini che donne hanno riferito che, arrivati al centro, sono stati fatti spogliare e che sono state condotte perquisizioni invasive, anche nelle cavità corporali. Detenuti in quattro centri hanno detto che le guardie hanno minacciato di sparargli o hanno fatto fuoco in aria. Alcuni detenuti hanno anche descritto violenze verbali da parte delle guardie comprese offese razziste, minacce e imprecazioni frequenti. La violenza costante usata dalle guardie che lavorano nei centri di detenzione, che almeno nominalmente sono sotto il controllo del governo, costituisce un'infrazione degli obblighi internazionali della Libia di proteggere da tortura e trattamento crudele, inumano e degradante chiunque si trovi sul proprio territorio.

Nessuno è accusato di nulla, nessun processo.
 Nessuno dei detenuti intervistati da Human Rights Watch ha riferito di essere stato processato o di aver avuto la possibilità di impugnare la decisione di detenzione e deportazione. Una detenzione prolungata senza accesso ad una revisione giudiziale equivale a detenzione arbitraria, proibita dal diritto internazionale. "In un centro dopo l'altro, i detenuti si sono messi in fila per parlare della paura in cui vivono ogni giorno, chiedendosi quando arriverà un nuovo giro di botte o fustigazioni" ha detto Simpson. "Le autorità chiudono un occhio di fronte a queste terribili violenze e hanno creato una cultura di completa impunità per la violenza contro migranti e richiedenti asilo".

Il dramma del sovraffollamento.
 Human Rights Watch ha anche documentato gravi sovraffollamenti nei nove centri visitati e condizioni igieniche scarsissime in otto di essi. In alcuni centri, i ricercatori di Human Rights Watch hanno visto fino a sessanta uomini e ragazzi ammucchiati in spazi minuscoli di appena 30 metri quadri. In altri, centinaia di detenuti straripano dalle stanze verso stretti corridoi, in alcuni casi allagati a causa di servizi igienici intasati, pur di usare ogni spazio disponibile.

Niente cure mediche. Detenuti bisognosi di cure mediche hanno detto che le guardie gli rifiutano il trasferimento in ospedali o cliniche o di non ricevere cure adeguate all'interno del centro di detenzione. Alcuni membri del personale dei centri di detenzione hanno detto a Human Rights Watch di non avere mezzi sufficienti per dare ai detenuti, tra cui donne incinte e bambini, cure adeguate, né i mezzi per trasferirli in ospedali per cure specializzate.

Perchè l'Ue e l'Italia non chiedono conto dei loro soldi? "L'Ue e altri donatori dovrebbero chiarire alle autorità libiche che non continueranno a sostenere centri detentivi dove le guardie abusano di migranti e richiedenti asilo con completa impunità" ha detto Simpson. "I donatori dovrebbero insistere a che gli abusi finiscano e che le condizioni migliorino prima che riprendano gli aiuti". Human Rights Watch pubblicherà un rapporto completo su quanto ha scoperto circa gli abusi e le condizioni dei centri di detenzione.

Da chiudere subito Soroman e Tomena.
 Il Dipartimento per la lotta alla migrazione irregolare del ministero dell'interno libico dovrebbe chiudere immediatamente i centri di detenzione di Soroman e Tomena. Dei nove centri visitati, è lì che i detenuti si misurano con le violenze più gravi e le condizioni peggiori in parte a causa dello stato fatiscente degli edifici e alle loro dimensioni ridotte, oltre al massiccio sovraffollamento. Le autorità dovrebbero trasferire i detenuti che si trovano lì in altri centri di detenzione per migranti, come il centro Abu Saleem  -  diverso dalla prigione di Abu Saleem  -  a Tripoli, che ha molto più spazio.

HRW: "Rilasciateli e lasciate lavorare l'Unhcr".
 In linea con i suoi doveri legali internazionali relativi a tutti i migranti e richiedenti asilo detenuti in Libia, le autorità dovrebbero rimuovere tutti i detenuti dalla Libia senza procrastinare, se hanno riscontrato l'illegalità della loro permanenza all'interno del Paese, o rilasciarli se desiderano chiedere asilo presso l'agenzia Onu per i rifugiati, l'Unhcr. Il governo dovrebbe annunciare che alle guardie è proibito usare violenza contro i detenuti, impartire loro istruzioni su come condurre le perquisizioni dei detenuti, tra cui l'uso di guardie donne per la perquisizione di detenuti donne, ove possibile, e sospendere e punire coloro che sono stati colti nel commettere violenze.

Per i libici migranti economici e sfollati sono la stessa cosa.
 Quando la Libia detiene stranieri privi di documenti, non fa distinzioni tra coloro in cerca di lavoro in Libia o nell'Ue, e i richiedenti asilo in fuga da persecuzioni e altre violenze nei Paesi di provenienza. La Libia non ha ratificato la Convenzione sui rifugiati del 1951 e non ha una propria legge o procedure che disciplinino l'asilo politico. L'Unhcr in Libia non ha un protocollo d'intesa che governi la sua presenza e la sua azione in Libia. La Libia ha ratificato la Convenzione che regola gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa.

La replica delle autorità libiche. Le autorità libiche hanno detto a HRW che non deportano cittadini eritrei e somali nei loro rispettivi Paesi, alla luce delle diffuse violazioni dei diritti umani in Eritrea e del conflitto in Somalia. Tuttavia, detenuti eritrei e somali che non beneficiano di altre modalità informali di rilascio, languono per mesi - e a volte per più di un anno - in detenzione, secondo alcuni funzionari libici, l'Unhcr e l'Organizzazione internazionale per le migrazioni.


E registrazioni dei richiedenti asilo sono ferme. Nonostante l'Unhcr registri alcuni richiedenti asilo che vivono nelle aree urbane della Libia, le autorità hanno bloccato tutte le registrazioni di richiedenti asilo detenuti nel giugno 2013, ha riferito l'Unhcr a Human Rights Watch. Le autorità libiche dovrebbero permettere immediatamente all'Unhcr di riprendere la registrazione di chiunque desideri cercare asilo in Libia e di porre fine alla propria automatica e prolungata detenzione di richiedenti asilo. 

I casi (rari) in cui sarebbe possibile la detenzione. Le linee guida sulla detenzione dell'Unhcr, che si ispirano al diritto internazionale, affermano che le autorità governative dovrebbero detenere i richiedenti asilo solo come "ultima risorsa", come misura strettamente necessaria e proporzionale per ottenere uno scopo legittimamente legale e non dovrebbero detenere richiedenti asilo allo scopo di deportarli. La detenzione è permessa solo brevemente per stabilire l'identità di una persona o per periodi più lunghi se è il solo modo per raggiungere obiettivi più ampi quali proteggere la sicurezza nazionale o la salute pubblica. 

Venezuela: Hrw; gravi abusi in repressione proteste e torture su persone fermate

Ansa
Il gruppo di difesa dei diritti umani Human Rights Watch (Hrw) ha espresso la sua "profonda preoccupazione per la gravissima situazione dei diritti umani in Venezuela, che rappresenta quanto di più allarmante si sia osservato in quel paese da anni": la denuncia è contenuta in un rapporto al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (Unhrc).

Secondo Hrw, a partire dallo scorso 12 febbraio - quando si sono intensificate le proteste di piazza contro il governo di Nicolas Maduro, nelle quali sono morte 42 persone e altre centinaia sono rimaste ferite - le forze di sicurezza venezuelane "hanno applicato frequentemente la forza illegittima contro manifestanti disarmati e semplici pedoni".

Questi abusi "fanno parte di una pratica sistematica delle forze di sicurezza", si legge nel rapporto, e includono "colpi brutali, uso di armi da fuoco, pallottole di gomma e gas lacrimogeni in modo indiscriminato contro la folla", nonché "spari deliberati e a bruciapelo contro persone disarmate".

A questo si aggiungono, sostiene Hrw, azioni contro giornalisti e altre persone che documentavano la repressione, e una tolleranza sistematica riguardo a "bande armate pro-governative che hanno attaccato impunemente i manifestanti, a volte con la collaborazione" delle forze di sicurezza. I detenuti, secondo il gruppo di difesa dei diritti umani, hanno subito "una varietà di abusi gravi" che "in alcuni casi hanno chiaramente costituito torture".

Giappone: eseguita condanna a morte per impiccagione, la nona sotto Abe

La Presse
In Giappone è stata eseguita oggi la condanna a morte per impiccagione a carico di un detenuto 68enne, Masanori Kawasaki. 

Lo riferisce il ministero della Giustizia giapponese e lo riporta l'agenzia di stampa giapponese Kyodo. Questa esecuzione porta a nove il totale delle condanne a morte eseguite in Giappone dal lancio del governo guidato dal primo ministro Shinzo Abe a dicembre del 2012. 

L'uomo era stato condannato con l'accusa di avere accoltellato e ucciso la cognata 58enne e le due nipoti di lei a novembre del 2007.

domenica 22 giugno 2014

Irak, Mosul, già 1500 in un campo profughi, parlano di ISIL, paura dei bombardamenti iracheni

La Presse
I rifugiati della città irachena di Mosul ora vivono in un campo profughi che ospita più di 1500 persone. 

Un numero che cresce di giorno in giorno. Uno di loro Ibrahim Hussein, 40 anni, e 4 figli, di cui una bimba appena nata ha detto che a Mosul c’erano regole molto severe prima della crisi e prima che Isil prendesse il controllo della città. 

Le Nazioni Unite per i rifugiati stanno collaborando con le organizzazioni non governative per fornire cibo ai profughi. Alcuni di loro non sono contrari o spaventati dal gruppo Isil. Un uomo 55enne, Ahmad Khalil Ebrahim, 55 anni, ha detto che i militanti proteggevano la gente e i pozzi petroliferi. 

Quello che sembra di maggior preoccupazione sono i bombardamenti dell’esercito iracheno. L’offensiva dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante (Isil) ha promesso di marciare su Baghdad e altre città sante sciite

Papa Francesco ai detenuti di Castovillari:" Dio perdona e accompagna. La società deve imitarlo"

Cari sorelle e fratelli,
il primo gesto della mia visita pastorale è l’incontro con voi, in questa Casa circondariale di Castrovillari. In questo modo vorrei esprimere la vicinanza del Papa e della Chiesa ad ogni uomo e ogni donna che si trova in carcere, in ogni parte del mondo. Gesù ha detto: «Ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,36).  
Nelle riflessioni che riguardano i detenuti, si sottolinea spesso il tema del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e l’esigenza di corrispondenti condizioni di espiazione della pena. Questo aspetto della politica penitenziaria è certamente essenziale e l’attenzione in proposito deve rimanere sempre alta. Ma tale prospettiva non è ancora sufficiente, se non è accompagnata e completata da un impegno concreto delle istituzioni in vista di un effettivo reinserimento nella società (cfr Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti alla 17ª Conferenza dei Direttori delle Amministrazioni penitenziarie del Consiglio d’Europa, 22 novembre 2012). Quando questa finalità viene trascurata, l’esecuzione della pena degrada a uno strumento di sola punizione e ritorsione sociale, a sua volta dannoso per l’individuo e per la società. E Dio non fa questo, con noi. Dio, quando ci perdona, ci accompagna e ci aiuta nella strada. Sempre. Anche nelle cose piccole. Quando noi andiamo a confessarci, il Signore ci dice: “Io ti perdono. Ma adesso vieni con me”. E Lui ci aiuta a riprendere la strada. Mai condanna. Mai perdona soltanto, ma perdona e accompagna. Poi siamo fragili e dobbiamo ritornare alla confessione, tutti. Ma Lui non si stanca. Sempre ci riprende per mano. Questo è l’amore di Dio, e noi dobbiamo imitarlo! La società deve imitarlo. Fare questa strada.
D’altra parte, un vero e pieno reinserimento della persona non avviene come termine di un percorso solamente umano. In questo cammino entra anche l’incontro con Dio, la capacità di lasciarci guardare da Dio che ci ama. E’ più difficile lasciarsi guardare da Dio che guardare Dio. E’ più difficile lasciarsi incontrare da Dio che incontrare Dio, perché in noi c’è sempre una resistenza. E Lui ti aspetta, Lui ci guarda, Lui ci cerca sempre. Questo Dio che ci ama, che è capace di comprenderci, capace di perdonare i nostri errori. Il Signore è un maestro di reinserimento: ci prende per mano e ci riporta nella comunità sociale. Il Signore sempre perdona, sempre accompagna, sempre comprende; a noi spetta lasciarci comprendere, lasciarci perdonare, lasciarci accompagnare. 
Auguro a ciascuno di voi che questo tempo non vada perduto, ma possa essere un tempo prezioso, durante il quale chiedere e ottenere da Dio questa grazia. Così facendo contribuirete a rendere migliori prima di tutto voi stessi, ma nello stesso tempo anche la comunità, perché, nel bene e nel male, le nostre azioni influiscono sugli altri e su tutta la famiglia umana. 
Un pensiero affettuoso voglio rivolgerlo in questo momento ai vostri familiari; che il Signore vi conceda di riabbracciarli in serenità e in pace.
E infine un incoraggiamento a tutti coloro che operano in questa Casa: ai Dirigenti, agli agenti di Polizia carceraria, a tutto il personale.
Di cuore vi benedico tutti e vi affido alla protezione della Madonna, nostra Madre. E per favore, vi chiedo di pregare per me, perché anche io ho i miei sbagli e devo fare penitenza. Grazie.