Giacomo ha sei anni e mezzo, da oltre cinque vive
con la mamma in carcere. Per la legge non dovrebbe essere lì, ma in un centro che ancora non c’è
Giacomo non ha colpe da espiare. Non ha commesso reati, eppure è un condannato senza che mai nessun giudice abbia scritto una sentenza. È il detenuto più piccolo del carcere di Sollicciano, appena sei anni e quattro mesi, ma anche il più grande tra quelli mai approdati nell’istituto fiorentino e forse anche nel resto d’Italia. A memoria, dicono quelli che conoscono la sua storia, un caso unico. Giacomo — il nome ovviamente è di fantasia — detiene un altro record: ha passato quasi tutta la sua «piccola» vita tra le sbarre: cinque anni e tre mesi, come dire un ergastolo.
L’ARRIVO IN CARCERE — È arrivato nella sezione femminile di Sollicciano come «ospite» insieme alla mamma arrestata a Bari nel 2009 per reati legati allo sfruttamento della prostituzione.
L’ARRIVO IN CARCERE — È arrivato nella sezione femminile di Sollicciano come «ospite» insieme alla mamma arrestata a Bari nel 2009 per reati legati allo sfruttamento della prostituzione.
La madre, oggi 42 anni, nel novembre 2010 è arrivata a Firenze. All’epoca Giacomo aveva un anno, non camminava ancora e diceva solo due parole. La casa per lui è sempre stata quella cella della sezione femminile, l’unica che ha conosciuto. Lì ha iniziato a camminare, a parlare e lì ha imparato anche a riconoscere il suono dell’unica porta di ferro che segna il confine tra i dannati di un girone e l’altro mondo di Sollicciano, quello per le mamme e i «bambini-detenuti-senza condanna» che lì non dovrebbero starci. Fino a qualche mese fa Giacomo non era da solo. C’erano altre mamme ed altri due bambini a vivere lì. Poi gli altri sono andati via, in case famiglie, e lui è rimasto. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, gli anni sono diventati cinque.
LA NUOVA «FAMIGLIA» — Dietro le quinte della «sezione mamme» c’è il lavoro di tante persone. I volontari delle associazioni fanno tutti i giorni qualcosa per farla somigliare meno a un carcere: hanno sostituito i portoni blindati con porte di legno, hanno tolto le brande in ferro e messo letti in legno, hanno dipinto le pareti, hanno arredato le stanze per renderle il più possibile casa e non cella, hanno realizzato un piccolo parco giochi ma «un carcere resta sempre un carcere, anche se lo rendi più bello e lo dipingi con i colori dell’oro — dice un’agente della polizia penitenziaria — soprattutto per un bambino di quasi sette anni che adesso comincia a capire che la sua vita non è come quella di tutti gli altri bambini». La famiglia di Giacomo sono la madre — che ha una pena da scontare fino al gennaio 2019 — le agenti di polizia penitenziaria e le volontarie che tutti i giorni vanno a prenderlo per accompagnarlo all’asilo, lo riportano a casa, fanno i colloqui con le insegnanti e lo seguono nell’attività pomeridiana quando rientra dalla madre. Giacomo ha cominciato ad andare all’asilo nido, alla materna e a settembre comincerà la prima elementare.
L’ESTATE DIVERSA — Quest’estate, grazie alla caparbietà di Silk Stegemann, psicologa e coordinatrice del progetto «Bambini e carcere» di Telefono Azzurro, Giacomo riuscirà anche a frequentare i centri estivi. Il che significa per lui una boccata di ossigeno per altri due mesi, dopo la fine della scuola. «È stata una grande conquista — spiega Silk Stegemann — Cerchiamo fargli avere una vita il più possibile normale visto che comunque i diritti di questi bambini che il destino ha portato in un carcere sono stati già compromessi». Un lavoro non facile quello dei volontari: «Dobbiamo stare attenti a non fare troppo — spiega ancora la psicologa — perché il nostro obiettivo è sempre quello di proteggere la relazione madre e figlio». Fino ad oggi Giacomo non si è reso conto di essere un bambino diverso. Ma adesso che è diventato più grande e si confronta con gli altri bambini diventa difficile rispondere alle sue domande. «Perché mi chiudono a chiave la sera quando torno a casa?», ha chiesto un giorno alle educatrici. E alla domanda di un compagno di scuola — «tu dove abiti?» — con il candore che solo un bambino può avere ha risposto: «Casa mia è in carcere». E adesso, quando non arrivano i volontari a portarlo fuori, ad esempio la domenica, lui protesta perché vuole uscire, e la sera, quando sente che chiudono a chiave la porta, piange e protesta.
LA LEGGE — Ma perché un bambino è rimasto così tanto tempo a Sollicciano? La legge prevede che i bambini non vengano separati dalle madri detenute fino a tre anni. Una legge del 2011 ha aumentato fino a sei anni l’età dei bambini che possono stare con le madri a patto però che siano in un Icam, un istituto a custodia attenuata per le detenute madri, quello che Firenze aspetta da anni. Nel caso della madre di Giacomo qualsiasi percorso alternativo è stato impossibile: troppo alta la pena da scontare per reati gravi. E allora? «Allora Giacomo è rimasto qui, in questa specie di limbo, ad aspettare, colpa di una burocrazia che non guarda in faccia neppure un bambino», raccontano da Sollicciano. Hanno provato a cercare uno zio all’estero per affidarlo a lui quando anche il padre era in carcere ma dopo un anno di ricerche che non hanno dato alcun risultato sono stati costretti ad arrendersi. L’attaccamento della madre al bambino, e del bambino alla madre, ha fatto il resto. «Conosciamo questa vicenda e la stiamo seguendo da tempo — spiega Franco Corleone, garante regionale per i diritti dei detenuti — contiamo di arrivare a una soluzione entro settembre, quando il bambino comincerà ad andare a scuole». Adesso ai primi di luglio ci sarà un’udienza al tribunale dei minori nella speranza di arrivare prima possibile a un affidamento ad alcuni familiari del padre che si sono fatti avanti. «Se ci fosse stato a Firenze l’Icam questa storia avrebbe avuto una soluzione prima — spiega Grazia Sestini, garante per l’infanzia della Regione Toscana — speriamo che questa struttura veda la luce il prima possibile per evitare che un altro caso del genere si possa ripetere».
LA NUOVA «FAMIGLIA» — Dietro le quinte della «sezione mamme» c’è il lavoro di tante persone. I volontari delle associazioni fanno tutti i giorni qualcosa per farla somigliare meno a un carcere: hanno sostituito i portoni blindati con porte di legno, hanno tolto le brande in ferro e messo letti in legno, hanno dipinto le pareti, hanno arredato le stanze per renderle il più possibile casa e non cella, hanno realizzato un piccolo parco giochi ma «un carcere resta sempre un carcere, anche se lo rendi più bello e lo dipingi con i colori dell’oro — dice un’agente della polizia penitenziaria — soprattutto per un bambino di quasi sette anni che adesso comincia a capire che la sua vita non è come quella di tutti gli altri bambini». La famiglia di Giacomo sono la madre — che ha una pena da scontare fino al gennaio 2019 — le agenti di polizia penitenziaria e le volontarie che tutti i giorni vanno a prenderlo per accompagnarlo all’asilo, lo riportano a casa, fanno i colloqui con le insegnanti e lo seguono nell’attività pomeridiana quando rientra dalla madre. Giacomo ha cominciato ad andare all’asilo nido, alla materna e a settembre comincerà la prima elementare.
L’ESTATE DIVERSA — Quest’estate, grazie alla caparbietà di Silk Stegemann, psicologa e coordinatrice del progetto «Bambini e carcere» di Telefono Azzurro, Giacomo riuscirà anche a frequentare i centri estivi. Il che significa per lui una boccata di ossigeno per altri due mesi, dopo la fine della scuola. «È stata una grande conquista — spiega Silk Stegemann — Cerchiamo fargli avere una vita il più possibile normale visto che comunque i diritti di questi bambini che il destino ha portato in un carcere sono stati già compromessi». Un lavoro non facile quello dei volontari: «Dobbiamo stare attenti a non fare troppo — spiega ancora la psicologa — perché il nostro obiettivo è sempre quello di proteggere la relazione madre e figlio». Fino ad oggi Giacomo non si è reso conto di essere un bambino diverso. Ma adesso che è diventato più grande e si confronta con gli altri bambini diventa difficile rispondere alle sue domande. «Perché mi chiudono a chiave la sera quando torno a casa?», ha chiesto un giorno alle educatrici. E alla domanda di un compagno di scuola — «tu dove abiti?» — con il candore che solo un bambino può avere ha risposto: «Casa mia è in carcere». E adesso, quando non arrivano i volontari a portarlo fuori, ad esempio la domenica, lui protesta perché vuole uscire, e la sera, quando sente che chiudono a chiave la porta, piange e protesta.
LA LEGGE — Ma perché un bambino è rimasto così tanto tempo a Sollicciano? La legge prevede che i bambini non vengano separati dalle madri detenute fino a tre anni. Una legge del 2011 ha aumentato fino a sei anni l’età dei bambini che possono stare con le madri a patto però che siano in un Icam, un istituto a custodia attenuata per le detenute madri, quello che Firenze aspetta da anni. Nel caso della madre di Giacomo qualsiasi percorso alternativo è stato impossibile: troppo alta la pena da scontare per reati gravi. E allora? «Allora Giacomo è rimasto qui, in questa specie di limbo, ad aspettare, colpa di una burocrazia che non guarda in faccia neppure un bambino», raccontano da Sollicciano. Hanno provato a cercare uno zio all’estero per affidarlo a lui quando anche il padre era in carcere ma dopo un anno di ricerche che non hanno dato alcun risultato sono stati costretti ad arrendersi. L’attaccamento della madre al bambino, e del bambino alla madre, ha fatto il resto. «Conosciamo questa vicenda e la stiamo seguendo da tempo — spiega Franco Corleone, garante regionale per i diritti dei detenuti — contiamo di arrivare a una soluzione entro settembre, quando il bambino comincerà ad andare a scuole». Adesso ai primi di luglio ci sarà un’udienza al tribunale dei minori nella speranza di arrivare prima possibile a un affidamento ad alcuni familiari del padre che si sono fatti avanti. «Se ci fosse stato a Firenze l’Icam questa storia avrebbe avuto una soluzione prima — spiega Grazia Sestini, garante per l’infanzia della Regione Toscana — speriamo che questa struttura veda la luce il prima possibile per evitare che un altro caso del genere si possa ripetere».
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