“Arrivano a migliaia, con le macchine o a piedi, bisognosi di tutto, alla disperata ricerca di un luogo sicuro”: monsignor Amel Shimon Nona, vescovo caldeo di Mosul, è raggiunto dalla MISNA in un villaggio cristiano dell’estremo nord dell’Iraq dove i rifugiati sono accolti nelle case, nella scuola o nell’aula per il catechismo.
Monsignor Nona sta concludendo una visita dei centri abitati del governatorato di Dahuk, sulle montagne del Kurdistan iracheno che conducono alla Turchia. “Sono zone – spiega il vescovo – che appaiono più sicure rispetto alla Piana di Ninive; per questo a migliaia, cristiani ma anche yazidi, si spingono fin qui”.
Le parole di monsignor Nona arrivano da Fish Khabor, un villaggio situato a un’ottantina di chilometri di distanza dalla città di Mosul, capoluogo della provincia di Ninive caduto a giugno nelle mani dei combattenti sunniti dello Stato islamico. È da loro che stanno fuggendo cristiani, yazidi e altre minoranze componenti storiche del mosaico etnico-religioso dell’Iraq. “Lo Stato islamico – sottolinea il vescovo – è una minaccia per queste comunità; speriamo davvero che i bombardamenti americani cominciati la settimana scorsa possano fermarne l’avanzata”.
Una speranza condivisa dalle centinaia di yazidi che anche oggi stanno superando Fish Khabor diretti verso Erbil, il capoluogo della regione autonoma del Kurdistan. “Sono gli ultimi – dice monsignor Nona – anche tra i profughi: non hanno dove dormire e riposano lungo la strada; noi cerchiamo di aiutarli come possiamo, accogliendoli e ospitandoli nei nostri villaggi”.
Quella irachena è un’emergenza che durerà a lungo, nonostante i bombardamenti americani a difesa degli alleati (e dei pozzi di petrolio) del Kurdistan. E nonostante, sottolinea il vescovo, i rivolgimenti politici che a Baghdad hanno portato ieri alla nomina di un nuovo primo ministro. Sullo sciita Haider Al Abadi, che ha ottenuto il sostegno dell’Iran dopo quello degli Stati Uniti, monsignor Nona non si esprime. “Speriamo che un nuovo governo possa dare un contributo per la pace” si limita a dire, aggiungendo con amarezza: “Dei politici gli iracheni non si fidano più”.
[VG]
Le parole di monsignor Nona arrivano da Fish Khabor, un villaggio situato a un’ottantina di chilometri di distanza dalla città di Mosul, capoluogo della provincia di Ninive caduto a giugno nelle mani dei combattenti sunniti dello Stato islamico. È da loro che stanno fuggendo cristiani, yazidi e altre minoranze componenti storiche del mosaico etnico-religioso dell’Iraq. “Lo Stato islamico – sottolinea il vescovo – è una minaccia per queste comunità; speriamo davvero che i bombardamenti americani cominciati la settimana scorsa possano fermarne l’avanzata”.
Una speranza condivisa dalle centinaia di yazidi che anche oggi stanno superando Fish Khabor diretti verso Erbil, il capoluogo della regione autonoma del Kurdistan. “Sono gli ultimi – dice monsignor Nona – anche tra i profughi: non hanno dove dormire e riposano lungo la strada; noi cerchiamo di aiutarli come possiamo, accogliendoli e ospitandoli nei nostri villaggi”.
Quella irachena è un’emergenza che durerà a lungo, nonostante i bombardamenti americani a difesa degli alleati (e dei pozzi di petrolio) del Kurdistan. E nonostante, sottolinea il vescovo, i rivolgimenti politici che a Baghdad hanno portato ieri alla nomina di un nuovo primo ministro. Sullo sciita Haider Al Abadi, che ha ottenuto il sostegno dell’Iran dopo quello degli Stati Uniti, monsignor Nona non si esprime. “Speriamo che un nuovo governo possa dare un contributo per la pace” si limita a dire, aggiungendo con amarezza: “Dei politici gli iracheni non si fidano più”.
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