Il Sussidiario
Secondo i servizi segreti, almeno dieci ufficiali dell'esercito nord coreano sarebbero stati condannati a morte per aver guardato alla televisione delle soap opera della Corea del sud.
Un doppio crimine dunque: aver guardato canali televisivi dei nemici sud coreani e aver guardato delle banali fiction amorose.
Per il sanguinario regime di Kim Jong-un questo tipo di programmi induce a non credere più alla ideologia comunista che regola la vita nel paese, dunque sono strettamente vietati.
Nonostante questo internet e la diffusione di dvd clandestini permettono a sempre più nord coreani di guardare programmi televisivi vietati.
Gli uomini ad esempio amano i film d'azione di produzione occidentale mentre le donne preferiscono le soap opera e i drammi. Recentemente un gruppo di attivisti della Corea del sud ha inviato in Nord Corea chiavette usb che permettono di guardare i programmi vietati al computer attaccaei a dei palloncini.
La Corea del Nord risponde con il carcere duro nei campi di lavoro per chiunque sorpreso a guardare programmi esteri e la pena di morte per chi li distribuisce.
Tornando alla notizia, gli ufficiali sono stati uccisi in pubblico, allo stadio della città di Wonsan davanti a circa 10mila persone radunate appositamente per assistere all'esecuzione.
venerdì 31 ottobre 2014
Isil: Human Rights Watch; a Mossul esecuzione di massa di 600 detenuti a giugno
La Presse
A giugno scorso lo Stato islamico (ex Isil) ha ucciso circa 600 detenuti sciiti uomini della prigione di Badoosh vicino Mossul, la seconda città più grande dell'Iraq. È quanto denuncia Human Rights Watch (Hrw), spiegando che i detenuti sono stati costretti in massa a inginocchiarsi sull'orlo di un burrone e poi sono stati uccisi a colpi di armi automatiche. La ricostruzione dei fatti fornita da Hrw si fonda su interviste fatte ai sopravvissuti.
A giugno scorso lo Stato islamico (ex Isil) ha ucciso circa 600 detenuti sciiti uomini della prigione di Badoosh vicino Mossul, la seconda città più grande dell'Iraq. È quanto denuncia Human Rights Watch (Hrw), spiegando che i detenuti sono stati costretti in massa a inginocchiarsi sull'orlo di un burrone e poi sono stati uccisi a colpi di armi automatiche. La ricostruzione dei fatti fornita da Hrw si fonda su interviste fatte ai sopravvissuti.
Secondo quanto riporta Human Rights Watch, i prigionieri sciiti sono stati separati da diverse centinaia di sunniti e da un piccolo numero di cristiani, che invece in un secondo momento sono stati liberati. Sempre a giugno scorso lo Stato islamico annunciò di avere compiuto "esecuzioni" su circa 1.700 soldati e personale militare catturati a Camp Speicher, fuori Tikrit.
Tra i prigionieri uccisi c'erano anche alcuni curdi e yazidi, riferiscono ancora i 15 sopravvissuti intervistati. I detenuti si trovavano in carcere per vari tipi di reati, da omicidio ad aggressione a reati non legati alla violenza.
Tra i prigionieri uccisi c'erano anche alcuni curdi e yazidi, riferiscono ancora i 15 sopravvissuti intervistati. I detenuti si trovavano in carcere per vari tipi di reati, da omicidio ad aggressione a reati non legati alla violenza.
Prima di separare i gruppi, i militanti hanno caricato fino a 1.500 persone su alcuni furgoni e li hanno portati in una zona di deserto isolata a circa due chilometri dalla prigione. Poi, dopo avere portato via diverse centinaia di persone dai furgoni, hanno costretto gli sciiti a mettersi in fila lungo il ciglio del dirupo e li hanno contati ad alta voce prima di sparare colpi di armi automatiche. "Un proiettile mi ha colpito la testa e sono caduto a terra, a quel punto ho sentito un altro proiettile colpirmi il braccio", racconta uno dei sopravvissuti. "Sono rimasto in stato di incoscienza per cinque minuti, una persona davanti a me è stata colpita alla testa e il proiettile è passato dall'altra parte, è caduto davanti a me", ricorda. I prigionieri sopravvissuti sono fra 30 e 40, la maggior parte dei quali sono rotolati giù nella valle fingendo di essere morti o si sono riparati in mezzo ai corpi degli altri detenuti.
Diritti Umani in Etiopia - Amnesty accusa: gli etiopici di etnia Oromo nel mirino del Governo
MISNA
Il governo dell’Etiopia ha “preso di mira in modo spietato” il gruppo etnico più consistente del paese, sulla base di presunti legami con formazioni ribelli: lo sostiene Amnesty International, in un rapporto fondato sulle testimonianze di oltre 200 vittime di abusi e torture ora all’estero.
Il governo dell’Etiopia ha “preso di mira in modo spietato” il gruppo etnico più consistente del paese, sulla base di presunti legami con formazioni ribelli: lo sostiene Amnesty International, in un rapporto fondato sulle testimonianze di oltre 200 vittime di abusi e torture ora all’estero.
Secondo l’ong, che ha sede a Londra, solo nel 2011 circa 5000 esponenti della comunità Oromo sono stati arrestati “per un’effettiva o presunta opposizione pacifica al governo”.
Molte delle vittime di abusi e torture, tra le quali elettroshock e violenze sessuali, sarebbero state sospettate di legami con il Fronte di liberazione Oromo (Olf): un’organizzazione costretta alla clandestinità, che denuncia un’egemonia politica della minoranza tigrina.
Molte delle vittime di abusi e torture, tra le quali elettroshock e violenze sessuali, sarebbero state sospettate di legami con il Fronte di liberazione Oromo (Olf): un’organizzazione costretta alla clandestinità, che denuncia un’egemonia politica della minoranza tigrina.
Vaticano - Veglio': da Mare Nostrum a Triton, disumana indifferenza verso immigrati
Radio vaticana
Avrà inizio il 1° novembre l’operazione dell’Unione Europea chiamata “Triton” che a differenza di “Mare Nostrum” non avrà come mandato primario il salvataggio di persone in mare. Grande la preoccupazione delle associazioni, cattoliche e non, che si impegnano sul tema dell’immigrazione che chiedono al governo italiano che “Mare Nostrum” continui.
Avrà inizio il 1° novembre l’operazione dell’Unione Europea chiamata “Triton” che a differenza di “Mare Nostrum” non avrà come mandato primario il salvataggio di persone in mare. Grande la preoccupazione delle associazioni, cattoliche e non, che si impegnano sul tema dell’immigrazione che chiedono al governo italiano che “Mare Nostrum” continui.
Un salvataggio dell'operazione "Mare Nostrum" |
Il mondo politico è diviso: alcuni esponenti di diversi partiti, specie della Lega e di Forza Italia, sostengono che “Mare Nostrum” è stata un’operazione fallimentare e sbagliata perché ha incentivato l’arrivo degli immigrati in Italia. Dunque, in Europa sembra prevalere una scelta di “difesa” dei confini e di contenimento dell’immigrazione più che preoccupazioni di tipo umanitario: Adriana Masotti ha sentito in merito il card. Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti:
R. – Ha detto bene, proprio il cambio dell’impostazione: con “Mare Nostrum” andavamo ad aiutare dovunque questi poveri migranti si trovassero, invece questa operazione “Triton” è per difendere i confini, una gran bella differenza, no? Quella delle migrazioni non è una cosa semplice. Migliaia di persone lasciano il proprio Paese mica perché si divertono, ma lo fanno per necessità, per fuggire da situazioni di pericolo e di indigenza. Sia ben presente anche ciò che succede in questo momento in Siria, in Iraq, in Etiopia, ma ci sarebbe una lista di Paesi che non finisce mai… Le partenze senza il piano di Mare nostrum avrebbero causato quindi molte più morti di quelle che purtroppo, circa 3000, sono avvenute durante l’anno. Quanto a "Mare Nostrum" se ben ricordo, è nato dopo il 3 ottobre di due anni fa, quando successe quella disgrazia dove morirono 368 persone. Io ho la gioia che proprio nell’anniversario sono andato a Lampedusa, e loro mi hanno dato una croce fatta col legno delle barche affondate. Una croce che porto sempre con me, invece delle solite croci episcopali, perché questo è un ricordo che mi fa pensare a queste tragedie e mi fa essere quasi più buono: tante volte infatti ci dimentichiamo che tante persone vivono in maniera dignitosa pur nell’enorme difficoltà che incontrano nella vita.
D. – Che cosa dire quindi a coloro che pensano che "Mare Nostrum" abbia incentivato gli arrivi e a quelli che vedono l’immigrazione sempre come un’emergenza in qualche modo da contrastare?
R. - Si può anche pensare che sia vero, perché queste navi andavano a prenderli anche oltre il confine, nelle acque internazionali, molte volte vicino ai Paesi da dove questi migranti partivano e quindi questi si sentivano quasi incentivati… Va bene, ma questo è un aspetto della realtà. Però io trovo di una cattiveria e di una insensibilità unica fare questo ragionamento: questi poveracci si trovano a nord dell’Africa, sono arrivati lì dopo aver - molte volte - attraversato il deserto. Chissà quanti ne sono morti nel cercare di arrivare in Libia, perché di solito dalla Libia partono. Arrivano in Libia dove vengono messi in certi campi che - io credo - le nostre stalle in confronto siano migliori e più igieniche… Ora se, invece di lasciarli di nuovo nel pericolo di morire nel Mediterraneo, li aiutiamo e li cerchiamo di salvarli… Certo in Italia - io parlo dell’Italia, ma come potrei parlare della Spagna o come potrei parlare della Grecia, al confine sud dell’Europa – quelli che sono contrari a questa politica di Mare Nostrum dicono: “abbiamo anche noi problemi”… Però è un fenomeno, quello dell’immigrazione, che non si fermerà mai: finché ci sarà un Paese più ricco di un altro, questi poveracci lasceranno il proprio Paese per cercare di vivere in maniera migliore. Non solo: il più delle volte, ultimamente, si tratta di rifugiati, di persone cioè che scappano da situazioni di pericolo per la loro vita. Per cui, anche se qualcuno può pensare questo, è brutto. E’ brutto dire: “Che ci importa a noi!”. Non solo non è cristiano, ma credo non sia nemmeno umano.
D. - Ci dovrebbe essere, dunque, per risolvere questo problema dell’immigrazione - che lei ha detto essere complesso - un impegno a tutto campo: politico, diplomatico…
R. - Tempo addietro, di fronte a questo fenomeno che aumentava, i Paesi europei avevano deciso di dare lo 0,7 per cento del proprio Pil per aiutare queste nazioni povere, anche per scoraggiare gli abitanti di questi poveri Paesi a lasciare la loro patria per venire qui. Ebbene, di tutti i Paesi che hanno promesso, credo che solo due Paesi - due Paesi scandinavi - hanno osservato questo impegno… Certo è un problema quello dell’immigrazione, ma sono un problema anche questi poveracci che sono molto più poveri e vivono in condizioni molto più infelici di quelli che ci sono in Europa. E’ un fenomeno che continuerà ed è quindi importante sensibilizzare la gente. Io ho sentito alcuni politici dire, vedendo la gente che arrivava con queste barche - tra l’altro non si sa da dove vengono, possono venire dalla Siria, possono venire dall’Iraq, possono venire dalla Libia…- ma ritornino ai loro Paesi!”. Come si fa a dire così? Si può dire ad uno che scappa dall’Iraq, torna nel tuo Paese? Sarebbe condannarlo a morte, no?
R. – Ha detto bene, proprio il cambio dell’impostazione: con “Mare Nostrum” andavamo ad aiutare dovunque questi poveri migranti si trovassero, invece questa operazione “Triton” è per difendere i confini, una gran bella differenza, no? Quella delle migrazioni non è una cosa semplice. Migliaia di persone lasciano il proprio Paese mica perché si divertono, ma lo fanno per necessità, per fuggire da situazioni di pericolo e di indigenza. Sia ben presente anche ciò che succede in questo momento in Siria, in Iraq, in Etiopia, ma ci sarebbe una lista di Paesi che non finisce mai… Le partenze senza il piano di Mare nostrum avrebbero causato quindi molte più morti di quelle che purtroppo, circa 3000, sono avvenute durante l’anno. Quanto a "Mare Nostrum" se ben ricordo, è nato dopo il 3 ottobre di due anni fa, quando successe quella disgrazia dove morirono 368 persone. Io ho la gioia che proprio nell’anniversario sono andato a Lampedusa, e loro mi hanno dato una croce fatta col legno delle barche affondate. Una croce che porto sempre con me, invece delle solite croci episcopali, perché questo è un ricordo che mi fa pensare a queste tragedie e mi fa essere quasi più buono: tante volte infatti ci dimentichiamo che tante persone vivono in maniera dignitosa pur nell’enorme difficoltà che incontrano nella vita.
D. – Che cosa dire quindi a coloro che pensano che "Mare Nostrum" abbia incentivato gli arrivi e a quelli che vedono l’immigrazione sempre come un’emergenza in qualche modo da contrastare?
R. - Si può anche pensare che sia vero, perché queste navi andavano a prenderli anche oltre il confine, nelle acque internazionali, molte volte vicino ai Paesi da dove questi migranti partivano e quindi questi si sentivano quasi incentivati… Va bene, ma questo è un aspetto della realtà. Però io trovo di una cattiveria e di una insensibilità unica fare questo ragionamento: questi poveracci si trovano a nord dell’Africa, sono arrivati lì dopo aver - molte volte - attraversato il deserto. Chissà quanti ne sono morti nel cercare di arrivare in Libia, perché di solito dalla Libia partono. Arrivano in Libia dove vengono messi in certi campi che - io credo - le nostre stalle in confronto siano migliori e più igieniche… Ora se, invece di lasciarli di nuovo nel pericolo di morire nel Mediterraneo, li aiutiamo e li cerchiamo di salvarli… Certo in Italia - io parlo dell’Italia, ma come potrei parlare della Spagna o come potrei parlare della Grecia, al confine sud dell’Europa – quelli che sono contrari a questa politica di Mare Nostrum dicono: “abbiamo anche noi problemi”… Però è un fenomeno, quello dell’immigrazione, che non si fermerà mai: finché ci sarà un Paese più ricco di un altro, questi poveracci lasceranno il proprio Paese per cercare di vivere in maniera migliore. Non solo: il più delle volte, ultimamente, si tratta di rifugiati, di persone cioè che scappano da situazioni di pericolo per la loro vita. Per cui, anche se qualcuno può pensare questo, è brutto. E’ brutto dire: “Che ci importa a noi!”. Non solo non è cristiano, ma credo non sia nemmeno umano.
D. - Ci dovrebbe essere, dunque, per risolvere questo problema dell’immigrazione - che lei ha detto essere complesso - un impegno a tutto campo: politico, diplomatico…
R. - Tempo addietro, di fronte a questo fenomeno che aumentava, i Paesi europei avevano deciso di dare lo 0,7 per cento del proprio Pil per aiutare queste nazioni povere, anche per scoraggiare gli abitanti di questi poveri Paesi a lasciare la loro patria per venire qui. Ebbene, di tutti i Paesi che hanno promesso, credo che solo due Paesi - due Paesi scandinavi - hanno osservato questo impegno… Certo è un problema quello dell’immigrazione, ma sono un problema anche questi poveracci che sono molto più poveri e vivono in condizioni molto più infelici di quelli che ci sono in Europa. E’ un fenomeno che continuerà ed è quindi importante sensibilizzare la gente. Io ho sentito alcuni politici dire, vedendo la gente che arrivava con queste barche - tra l’altro non si sa da dove vengono, possono venire dalla Siria, possono venire dall’Iraq, possono venire dalla Libia…- ma ritornino ai loro Paesi!”. Come si fa a dire così? Si può dire ad uno che scappa dall’Iraq, torna nel tuo Paese? Sarebbe condannarlo a morte, no?
giovedì 30 ottobre 2014
Libia: Amnesty; crimini di guerra da parte delle milizie, torture su detenuti e civili
Tm News
In Libia le milizie pro-governative e quelle ribelli che cercano di assumere il controllo della parte occidentale del paese nordafricano stanno commettendo crimini di guerra, torturando i detenuti e colpendo i civili.
In Libia le milizie pro-governative e quelle ribelli che cercano di assumere il controllo della parte occidentale del paese nordafricano stanno commettendo crimini di guerra, torturando i detenuti e colpendo i civili.
La Libia è al centro di violenti combattimenti, in particolare nella sua parte occidentale e nella seconda città del paese, Bengasi. Amnesty ha affermato che le milizie che si combattono mostrano un "completo irrispetto" per le vittime civile e le ha accusato di colpire indiscriminatamente con l'artiglieria anche quartieri fittamente abitati da civili.
Iran - Dopo la condanna a morte di Jabbari: donne dietro le sbarre per critiche al regime
Panorama
L’ultima donna a finire dietro le sbarre a Teheran è Ghoncheh Ghavami, 25 anni, iraniana con passaporto britannico. Critica del regime degli ayatollah, è stata arrestata a giugno per aver tentato di assistere alla partita di pallavolo fra Iran e Italia (off-limits per le donne). Nel famigerato carcere di Evin, la giurista laureata alla Soas di Londra ha iniziato lo sciopero della fame, in attesa della sentenza. Per la sua liberazione sono state raccolte 500 mila firme. Un caso tutt’altro che isolato.
L’ultima donna a finire dietro le sbarre a Teheran è Ghoncheh Ghavami, 25 anni, iraniana con passaporto britannico. Critica del regime degli ayatollah, è stata arrestata a giugno per aver tentato di assistere alla partita di pallavolo fra Iran e Italia (off-limits per le donne). Nel famigerato carcere di Evin, la giurista laureata alla Soas di Londra ha iniziato lo sciopero della fame, in attesa della sentenza. Per la sua liberazione sono state raccolte 500 mila firme. Un caso tutt’altro che isolato.
Goncheh Ghavami, arrestata per aver
cercato di vedere una partita di pallavolo
|
Marzieh Rasouli sta scontando una sentenza di due anni «per propaganda» contro gli ayatollah e verrà punita con 50 frustate. Scrittrice e giornalista riformista, ha la grave colpa di avere collaborato con la Bbc in persiano, censurata in Iran. Languono in carcere anche la blogger Roya Saberi Nejad, condannata a 20 anni, e Farideh Shagholi, che su Facebook ha attaccato la Suprema guida Ali Khamenei.
Ha fatto scalpore l’impiccagione di Reyhaneh Jabbari, la ventiseienne accusata di aver ucciso un membro dei servizi segreti che voleva violentarla. Secondo l’opposizione iraniana, durante l’attuale presidenza sono stati giustiziati un migliaio di prigionieri, comprese 27 donne.
Ha fatto scalpore l’impiccagione di Reyhaneh Jabbari, la ventiseienne accusata di aver ucciso un membro dei servizi segreti che voleva violentarla. Secondo l’opposizione iraniana, durante l’attuale presidenza sono stati giustiziati un migliaio di prigionieri, comprese 27 donne.
Grazie all’intervento del presidente riformista Hassan Rouhani, però, a settembre sono state cancellate le sentenze di condanna alle tre donne che avevano partecipato alla parodia di Happy a Teheran. Per aver ballato la nota canzone dedicata alla gioia del cantante Usa Pharrell Williams erano state condannate, assieme agli uomini, a sei mesi di carcere e a 91 frustate.
Reyhaneh: Ban e Onu contro la pena di morte
ONU Italia
New York – Senza commentare direttamente l’esecuzione di Reyhaneh, ma rispondendo a una domanda di un giornalista in proposito, il portavoce dell’Onu Stephane Dujarric ha ribadito che “il segretario Generale Ban Ki moon e le Nazioni Unite sono contro la pena di morte”.
New York – Senza commentare direttamente l’esecuzione di Reyhaneh, ma rispondendo a una domanda di un giornalista in proposito, il portavoce dell’Onu Stephane Dujarric ha ribadito che “il segretario Generale Ban Ki moon e le Nazioni Unite sono contro la pena di morte”.
E’ entrato invece direttamente in tema l’esperto Onu indipendente delle Nazioni Unite Ahmed Shaheed, Special Rapporteur sui diritti umani in Iraq, che si e’ detto “scioccato” per l’esecuzione della ragazza. Shaheed ha detto di aver sollevato più volte le sue preoccupazioni sul processo contro Reyhaneh con il governo iraniano “ma di non aver mai ricevuto risposte soddisfacenti”.
In Iran, diritto alla vita, sistema giudiziario, persecuzione religiosa e discriminazione contro le donne – ha aggiunto l’esperto Onu – sono fattori di particolare preoccupazione nonostante l’elezione alla presidenza del moderato Hassan Rohani.
“La mia maggiore preoccupazione sono i temi della vita”, ha indicato Shaheed, aggiungendo di aver osservato un “aumento” nelle esecuzioni negli ultimi 12-15 mesi: almeno 852 persone sono state messe a morte tra luglio 2013 e giugno 2014, una crescita “allarmante” di numeri che già erano alti negli anni precedenti, il piu’ alto tasso di esecuzioni per numero di abitanti del mondo. Shaheed ha parlato in Terza Commissione, dove a novembre sara’ messa ai voti in prima lettura la risoluzione per la moratoria della pena di morte, un fronte su cui si stanno impegnando particolarmente in questi giorni la diplomazia italiana con la Rappresentanza Permanente d’Italia all’Onu e organizzazioni non governative come la Comunita’ di Sant’Egidio, Nessuno Tocchi Caino e Amnesty Italia.
Continuano intanto in Iran le esecuzioni di minori – solo nel 2014 otto ragazzi sotto i 18 anni – mentre sono aumentati i tipi di reato passibili di pena capitale per includere adesso crimini economici e di natura politica. Anche per una mancanza di sostegno parlamentare – ha detto Shaheed – Rohani non e’ stato in grado di risolvere il problema e mantenere gli impegni in materia di rispetto dei diritti umani.
In Iran, diritto alla vita, sistema giudiziario, persecuzione religiosa e discriminazione contro le donne – ha aggiunto l’esperto Onu – sono fattori di particolare preoccupazione nonostante l’elezione alla presidenza del moderato Hassan Rohani.
“La mia maggiore preoccupazione sono i temi della vita”, ha indicato Shaheed, aggiungendo di aver osservato un “aumento” nelle esecuzioni negli ultimi 12-15 mesi: almeno 852 persone sono state messe a morte tra luglio 2013 e giugno 2014, una crescita “allarmante” di numeri che già erano alti negli anni precedenti, il piu’ alto tasso di esecuzioni per numero di abitanti del mondo. Shaheed ha parlato in Terza Commissione, dove a novembre sara’ messa ai voti in prima lettura la risoluzione per la moratoria della pena di morte, un fronte su cui si stanno impegnando particolarmente in questi giorni la diplomazia italiana con la Rappresentanza Permanente d’Italia all’Onu e organizzazioni non governative come la Comunita’ di Sant’Egidio, Nessuno Tocchi Caino e Amnesty Italia.
Continuano intanto in Iran le esecuzioni di minori – solo nel 2014 otto ragazzi sotto i 18 anni – mentre sono aumentati i tipi di reato passibili di pena capitale per includere adesso crimini economici e di natura politica. Anche per una mancanza di sostegno parlamentare – ha detto Shaheed – Rohani non e’ stato in grado di risolvere il problema e mantenere gli impegni in materia di rispetto dei diritti umani.
Alessandra Baldini
mercoledì 29 ottobre 2014
Ethiopia: Ethnic Oromos arrested, tortured and killed by the state in relentless repression of dissent
www.amnesty.org
Thousands of members of Ethiopia’s largest ethnic group, the Oromo, are being ruthlessly targeted by the state based solely on their perceived opposition to the government, said Amnesty International in a new report released today.
Thousands of members of Ethiopia’s largest ethnic group, the Oromo, are being ruthlessly targeted by the state based solely on their perceived opposition to the government, said Amnesty International in a new report released today.
“Because I am Oromo” – Sweeping repression in the Oromia region of Ethiopia exposes how Oromos have been regularly subjected to arbitrary arrest, prolonged detention without charge, enforced disappearance, repeated torture and unlawful state killings as part of the government’s incessant attempts to crush dissent.
“The Ethiopian government’s relentless crackdown on real or imagined dissent among the Oromo is sweeping in its scale and often shocking in its brutality,” said Claire Beston, Amnesty International’s Ethiopia researcher.
“This is apparently intended to warn, control or silence all signs of ‘political disobedience’ in the region.”
More than 200 testimonies gathered by Amnesty International reveal how the Ethiopian government’s general hostility to dissent has led to widespread human rights violations in Oromia, where the authorities anticipate a high level of opposition. Any signs of perceived dissent in the region are sought out and suppressed, frequently pre-emptively and often brutally.
At least 5,000 ethnic Oromos have been arrested between 2011 and 2014 based on their actual or suspected peaceful opposition to the government.
These include peaceful protesters, students, members of opposition political parties and people expressing their Oromo cultural heritage.
In addition to these groups, people from all walks of life – farmers, teachers, medical professionals, civil servants, singers, businesspeople, and countless others – are regularly arrested in Oromia based only on the suspicion that they don’t support the government. Many are accused of ‘inciting’ others against the government.
Family members of suspects have also been targeted by association – based only on the suspicion they shared or ‘inherited’ their relative’s views – or are arrested in place of their wanted relative.
Many of those arrested have been detained without charge for months or even years and subjected to repeated torture. Throughout the region, hundreds of people are detained in unofficial detention in military camps. Many are denied access to lawyers and family members.
Dozens of actual or suspected dissenters have been killed.
The majority of those targeted are accused of supporting the Oromo Liberation Front (OLF) - the armed group in the region.
However, the allegation is frequently unproven as many detainees are never charged or tried. Often it is merely a pretext to silence critical voices and justify repression.
“People are arrested for the most tenuous of reasons: organizing a student cultural group, because their father had previously been suspected of supporting the OLF or because they delivered the baby of the wife of a suspected OLF member. Frequently, it’s because they refused to join the ruling party,” said Claire Beston.
In April and May 2014, events in Oromia received some international attention when security forces fired live ammunition during a series of protests and beat hundreds of peaceful protesters and bystanders. Dozens were killed and thousands were arrested.
“These incidents were far from being unprecedented in Oromia – they were merely the latest and bloodiest in a long pattern of suppression. However, much of the time, the situation in Oromia goes unreported,” said Claire Beston.
Torture
Amnesty International’s report documents regular use of torture against actual or suspected Oromo dissenters in police stations, prisons, military camps and in their own homes.
A teacher told how he had been stabbed in the eye with a bayonet during torture in detention because he refused to teach propaganda about the ruling party to his students.
A young girl said she had hot coals poured on her stomach while she was detained in a military camp because her father was suspected of supporting the OLF.
A student was tied in contorted positions and suspended from the wall by one wrist because a business plan he prepared for a university competition was deemed to be underpinned by political motivations.
Former detainees repeatedly told of methods of torture including beatings, electric shocks, mock execution, burning with heated metal or molten plastic and rape, including gang rape.
Although the majority of former detainees interviewed said they never went to court, many alleged they were tortured to extract a confession.
“We interviewed former detainees with missing fingers, ears and teeth, damaged eyes and scars on every part of their body due to beating, burning and stabbing - all of which they said were the result of torture,” said Claire Beston.
Detainees are subject to miserable conditions, including severe overcrowding, underground cells, being made to sleep on the ground and minimal food. Many are never permitted to leave their cells, except for interrogation and, in some cases, aside from once or twice a day to use the toilet. Some said their hands or legs were bound in chains for months at a time.
As Ethiopia heads towards general elections in 2015, it is likely that the government’s efforts to suppress dissent, including through the use of arbitrary arrest and detention and other violations, will continue unabated and may even increase.
“The Ethiopian government must end the shameful targeting of thousands of Oromos based only on their actual or suspected political opinion. It must cease its use of detention without charge, torture and ill-treatment, incommunicado detention, enforced disappearance and unlawful killings to muzzle actual or suspected dissent,” said Claire Beston.
Interviewees repeatedly told Amnesty International that there was no point trying to complain or seek justice in cases of enforced disappearance, torture, possible killings or other violations. Some were arrested when they did ask about a relative’s fate or whereabouts.
Amnesty International believes there is an urgent need for intervention by regional and international human rights bodies to conduct independent investigations into these allegations of human rights violations in Oromia.
“The Ethiopian government’s relentless crackdown on real or imagined dissent among the Oromo is sweeping in its scale and often shocking in its brutality,” said Claire Beston, Amnesty International’s Ethiopia researcher.
“This is apparently intended to warn, control or silence all signs of ‘political disobedience’ in the region.”
More than 200 testimonies gathered by Amnesty International reveal how the Ethiopian government’s general hostility to dissent has led to widespread human rights violations in Oromia, where the authorities anticipate a high level of opposition. Any signs of perceived dissent in the region are sought out and suppressed, frequently pre-emptively and often brutally.
At least 5,000 ethnic Oromos have been arrested between 2011 and 2014 based on their actual or suspected peaceful opposition to the government.
These include peaceful protesters, students, members of opposition political parties and people expressing their Oromo cultural heritage.
In addition to these groups, people from all walks of life – farmers, teachers, medical professionals, civil servants, singers, businesspeople, and countless others – are regularly arrested in Oromia based only on the suspicion that they don’t support the government. Many are accused of ‘inciting’ others against the government.
Family members of suspects have also been targeted by association – based only on the suspicion they shared or ‘inherited’ their relative’s views – or are arrested in place of their wanted relative.
Many of those arrested have been detained without charge for months or even years and subjected to repeated torture. Throughout the region, hundreds of people are detained in unofficial detention in military camps. Many are denied access to lawyers and family members.
Dozens of actual or suspected dissenters have been killed.
The majority of those targeted are accused of supporting the Oromo Liberation Front (OLF) - the armed group in the region.
However, the allegation is frequently unproven as many detainees are never charged or tried. Often it is merely a pretext to silence critical voices and justify repression.
“People are arrested for the most tenuous of reasons: organizing a student cultural group, because their father had previously been suspected of supporting the OLF or because they delivered the baby of the wife of a suspected OLF member. Frequently, it’s because they refused to join the ruling party,” said Claire Beston.
In April and May 2014, events in Oromia received some international attention when security forces fired live ammunition during a series of protests and beat hundreds of peaceful protesters and bystanders. Dozens were killed and thousands were arrested.
“These incidents were far from being unprecedented in Oromia – they were merely the latest and bloodiest in a long pattern of suppression. However, much of the time, the situation in Oromia goes unreported,” said Claire Beston.
Torture
Amnesty International’s report documents regular use of torture against actual or suspected Oromo dissenters in police stations, prisons, military camps and in their own homes.
A teacher told how he had been stabbed in the eye with a bayonet during torture in detention because he refused to teach propaganda about the ruling party to his students.
A young girl said she had hot coals poured on her stomach while she was detained in a military camp because her father was suspected of supporting the OLF.
A student was tied in contorted positions and suspended from the wall by one wrist because a business plan he prepared for a university competition was deemed to be underpinned by political motivations.
Former detainees repeatedly told of methods of torture including beatings, electric shocks, mock execution, burning with heated metal or molten plastic and rape, including gang rape.
Although the majority of former detainees interviewed said they never went to court, many alleged they were tortured to extract a confession.
“We interviewed former detainees with missing fingers, ears and teeth, damaged eyes and scars on every part of their body due to beating, burning and stabbing - all of which they said were the result of torture,” said Claire Beston.
Detainees are subject to miserable conditions, including severe overcrowding, underground cells, being made to sleep on the ground and minimal food. Many are never permitted to leave their cells, except for interrogation and, in some cases, aside from once or twice a day to use the toilet. Some said their hands or legs were bound in chains for months at a time.
As Ethiopia heads towards general elections in 2015, it is likely that the government’s efforts to suppress dissent, including through the use of arbitrary arrest and detention and other violations, will continue unabated and may even increase.
“The Ethiopian government must end the shameful targeting of thousands of Oromos based only on their actual or suspected political opinion. It must cease its use of detention without charge, torture and ill-treatment, incommunicado detention, enforced disappearance and unlawful killings to muzzle actual or suspected dissent,” said Claire Beston.
Interviewees repeatedly told Amnesty International that there was no point trying to complain or seek justice in cases of enforced disappearance, torture, possible killings or other violations. Some were arrested when they did ask about a relative’s fate or whereabouts.
Amnesty International believes there is an urgent need for intervention by regional and international human rights bodies to conduct independent investigations into these allegations of human rights violations in Oromia.
Texas executes Miguel Paredes
Texas Tribune
Huntsville, TX - A former San Antonio gang member was executed Tuesday evening in Huntsville, Texas for his part in a 2002 triple slaying.
Miguel Paredes, 32, was convicted along with 2 other men in the September 2000 slayings of three people with ties to the Mexican Mafia.
Huntsville, TX - A former San Antonio gang member was executed Tuesday evening in Huntsville, Texas for his part in a 2002 triple slaying.
Miguel Paredes, 32, was convicted along with 2 other men in the September 2000 slayings of three people with ties to the Mexican Mafia.
Miguel Paredes |
The victims' bodies were rolled up in a carpet, driven about 50 miles southwest, dumped and set on fire. A farmer investigating a grass fire found the remains.
Paredes was pronounced dead at 6:54 p.m. CDT, 22 minutes after being injected with a lethal dose of the sedative pentobarbital. The execution was delayed slightly to ensure the IV lines were functioning properly, said Department of Criminal Justice spokesman Jason Clark. The procedure calls for 2 working lines.
Normally needles are placed in the crease of an inmate's arms near the elbows, but in Paredes' case, prison officials inserted IV lines into his hands.
As witnesses entered the death chamber in Huntsville, Paredes smiled and mouthed several kisses to 4 friends watching through a window and repeatedly told them he loved them. He told everyone gathered that he hoped his victims' family members would "let go of all of the hate because of all my actions."
"I came in as a lion and I come as peaceful as a lamb," Paredes said. "I'm at peace. I hope society sees who else they are hurting with this."
As the drugs began taking effect, he took several deep breaths while praying. He started to snore and eventually stopped.
No friends or relatives of the victims attended Paredes' execution. Cain's family said in a statement afterward that Cain was "no longer with us for no other reason than being in the wrong place at the wrong time."
"Our family has waited 14 years for justice to finally be served," the statement said.
The execution was carried out after the U.S. Supreme Court turned down a last-day appeal from attorneys who contended Paredes was mentally impaired and his previous lawyers were deficient for not investigating his mental history.
Miguel Angel Paredes was convicted for the shooting deaths of Adrian Torres, 27; his 23-year-old girlfriend, Nelly Bravo; and Shawn Michael Cain, 23. Their burned bodies were found in nearby Frio County.
Two co-defendants, John Anthony Saenz and Greg Alvarado, were also convicted in the deaths. Bexar County prosecutors claimed the 3 were settling a drug debt with Torres when the murders occurred.
Paredes told the San Antonio Express-News he and his fellow Hermanos Pistoleros Latinos associates met up with Torres, a member of a rival gang, the Mexican Mafia, to confront him about threats he had made.
Paredes, who was 18 at the time of the murders, was the only 1 of the 3 defendants sentenced to death. Saenz was found guilty of capital murder but sentenced to life in prison. Alvarado pleaded guilty and is serving a life sentence.
On Monday, Paredes' lawyer, David Dow of Houston, asked the U.S. 5th Circuit Court of Appeals in New Orleans to stay the execution while it considered an appeal Dow also filed on Monday.
In the appeal, Dow argued that another appellate attorney failed to investigate whether Paredes was taking psychiatric medication when he waived his right to challenge his sentence based on ineffective trial counsel.
Paredes becomes the 10th condemned inmate to be put to death this year in Texas, and the 518th overall since the state resumed capital punishment on December 7, 1982.
Paredes becomes the 279th condemned inmate to be put to death in Texas since Rick Perry became governor in 2001. With no other lethal injections scheduled this year, the annual total will be the lowest since 3 were carried out in 1996. But at least 9 are scheduled for early 2015, including 4 in January.
Paredes becomes the 31st condemned inmate to be put to death this year in the USA and the 1390th overall since the nation resumed executions on January 17, 1977.
Read more: http://deathpenaltynews.blogspot.com/2014/10/texas-executes-miguel-paredes.html#ixzz3HZd2UmC6
Paredes was pronounced dead at 6:54 p.m. CDT, 22 minutes after being injected with a lethal dose of the sedative pentobarbital. The execution was delayed slightly to ensure the IV lines were functioning properly, said Department of Criminal Justice spokesman Jason Clark. The procedure calls for 2 working lines.
Normally needles are placed in the crease of an inmate's arms near the elbows, but in Paredes' case, prison officials inserted IV lines into his hands.
As witnesses entered the death chamber in Huntsville, Paredes smiled and mouthed several kisses to 4 friends watching through a window and repeatedly told them he loved them. He told everyone gathered that he hoped his victims' family members would "let go of all of the hate because of all my actions."
"I came in as a lion and I come as peaceful as a lamb," Paredes said. "I'm at peace. I hope society sees who else they are hurting with this."
As the drugs began taking effect, he took several deep breaths while praying. He started to snore and eventually stopped.
No friends or relatives of the victims attended Paredes' execution. Cain's family said in a statement afterward that Cain was "no longer with us for no other reason than being in the wrong place at the wrong time."
"Our family has waited 14 years for justice to finally be served," the statement said.
The execution was carried out after the U.S. Supreme Court turned down a last-day appeal from attorneys who contended Paredes was mentally impaired and his previous lawyers were deficient for not investigating his mental history.
Miguel Angel Paredes was convicted for the shooting deaths of Adrian Torres, 27; his 23-year-old girlfriend, Nelly Bravo; and Shawn Michael Cain, 23. Their burned bodies were found in nearby Frio County.
Two co-defendants, John Anthony Saenz and Greg Alvarado, were also convicted in the deaths. Bexar County prosecutors claimed the 3 were settling a drug debt with Torres when the murders occurred.
Paredes told the San Antonio Express-News he and his fellow Hermanos Pistoleros Latinos associates met up with Torres, a member of a rival gang, the Mexican Mafia, to confront him about threats he had made.
Paredes, who was 18 at the time of the murders, was the only 1 of the 3 defendants sentenced to death. Saenz was found guilty of capital murder but sentenced to life in prison. Alvarado pleaded guilty and is serving a life sentence.
On Monday, Paredes' lawyer, David Dow of Houston, asked the U.S. 5th Circuit Court of Appeals in New Orleans to stay the execution while it considered an appeal Dow also filed on Monday.
In the appeal, Dow argued that another appellate attorney failed to investigate whether Paredes was taking psychiatric medication when he waived his right to challenge his sentence based on ineffective trial counsel.
Paredes becomes the 10th condemned inmate to be put to death this year in Texas, and the 518th overall since the state resumed capital punishment on December 7, 1982.
Paredes becomes the 279th condemned inmate to be put to death in Texas since Rick Perry became governor in 2001. With no other lethal injections scheduled this year, the annual total will be the lowest since 3 were carried out in 1996. But at least 9 are scheduled for early 2015, including 4 in January.
Paredes becomes the 31st condemned inmate to be put to death this year in the USA and the 1390th overall since the nation resumed executions on January 17, 1977.
Read more: http://deathpenaltynews.blogspot.com/2014/10/texas-executes-miguel-paredes.html#ixzz3HZd2UmC6
Migranti - Vi presento Ahmed. Vi può dire che vuol dire sbarcare a Lampedusa e ricostruirsi una vita
Resto al sud
Vi presento Ahmed, 40 anni, 1 moglie, 4 figli. Sbarcato a Lampedusa 11 anni fa.
Accolto dalla comunità di Sant’Egidio per le prime necessità e aiutato a trovare un lavoro.
Vi presento Ahmed, 40 anni, 1 moglie, 4 figli. Sbarcato a Lampedusa 11 anni fa.
Accolto dalla comunità di Sant’Egidio per le prime necessità e aiutato a trovare un lavoro.
Ha iniziato come scaricatore di cassette di pesce al mercato durante la notte.
Lì ha incontrato il proprietario di una pescheria, quella del mio quartiere, che ho ha assunto, messo in regola.
Ahmed ha lasciato la casa di accoglienza e si è affittato una casetta tutta per lui, si è sposato e ha avuto i figli.
Io lo conosco da quando mi sono trasferita qui una vita fa. Ahmed mi conservava il pesce buono, io gli insegnavo l’italiano.
Oggi Ahmed ha rilevato dall’ex proprietario che è andato in pensione la pescheria e vi lavora con la moglie.
Ecco amici miei, quando vi dovesse sorgere un piccolo dubbio sulla questione immigrazione, fatevi un giro qui dalle mie parti e chiedete ad Ahmed che vuol dire arrivare in Italia con i soli vestiti addosso e costruirsi un futuro con le briciole, accontentandosi dei lavori che gli italiani non vogliono fare.
Chiedete a lui cosa vuol dire lavorare 16 ore al giorno, in una lingua che non si capisce, fra gente diversa e non sempre amichevole.
Chiedete cosa insegna ai suoi figli, fatevi raccontare la speranza che cosa è in grado di fare.
E già che ci siete chiedete a lui quanto rispetto ha per le nostre tradizioni, noi che spesso ci infastidiamo per le loro.
Quando ci lamentiamo del nostro lavoro, di quello che abbiamo o quando non riusciamo a trovarlo, chiediamoci cosa siamo disposti a fare e proviamo a domandarci cosa sono disposti a fare loro.
Auguri al mio amico Ahmed, un Brindisi al suo coraggio e alla sua forza che mi ha insegnato tanto.
Lì ha incontrato il proprietario di una pescheria, quella del mio quartiere, che ho ha assunto, messo in regola.
Ahmed ha lasciato la casa di accoglienza e si è affittato una casetta tutta per lui, si è sposato e ha avuto i figli.
Io lo conosco da quando mi sono trasferita qui una vita fa. Ahmed mi conservava il pesce buono, io gli insegnavo l’italiano.
Oggi Ahmed ha rilevato dall’ex proprietario che è andato in pensione la pescheria e vi lavora con la moglie.
Ecco amici miei, quando vi dovesse sorgere un piccolo dubbio sulla questione immigrazione, fatevi un giro qui dalle mie parti e chiedete ad Ahmed che vuol dire arrivare in Italia con i soli vestiti addosso e costruirsi un futuro con le briciole, accontentandosi dei lavori che gli italiani non vogliono fare.
Chiedete a lui cosa vuol dire lavorare 16 ore al giorno, in una lingua che non si capisce, fra gente diversa e non sempre amichevole.
Chiedete cosa insegna ai suoi figli, fatevi raccontare la speranza che cosa è in grado di fare.
E già che ci siete chiedete a lui quanto rispetto ha per le nostre tradizioni, noi che spesso ci infastidiamo per le loro.
Quando ci lamentiamo del nostro lavoro, di quello che abbiamo o quando non riusciamo a trovarlo, chiediamoci cosa siamo disposti a fare e proviamo a domandarci cosa sono disposti a fare loro.
Auguri al mio amico Ahmed, un Brindisi al suo coraggio e alla sua forza che mi ha insegnato tanto.
Tanzania, il dramma delle spose bambine: senza futuro e vittime di abusi
La Repubblica
Nello stato dell’africa occidentale la legge sul matrimonio fissa l’età minima per le ragazze a 15 anni o 14 con il consenso dei genitori. Una lacuna che mina la salute sia fisica che mentale delle giovani ragazze e le consegna a una vita fatta, nella maggior parte dei casi, di ignoranza e privazioni. A dare l’allarme è Human rights watch
Nello stato dell’africa occidentale la legge sul matrimonio fissa l’età minima per le ragazze a 15 anni o 14 con il consenso dei genitori. Una lacuna che mina la salute sia fisica che mentale delle giovani ragazze e le consegna a una vita fatta, nella maggior parte dei casi, di ignoranza e privazioni. A dare l’allarme è Human rights watch
Roma - I matrimoni precoci limitano gravemente l’accesso delle giovani spose all’istruzione esponendole a costanti abusi e violenze come lo stupro coniugale e la mutilazione genitale femminile. A dirlo il rapporto “Senza via d’uscita: spose bambine e violazioni dei diritti umani in Tanzania” di Human rights watch che ha intervistato 135 ragazze in dodici distretti dello stato, analizzando la legislazione e le sue lacune nella protezione dei bambini e delle vittime dei matrimoni precoci.
Infanzia negata. Nonostante il numero delle spose bambine sia diminuito negli ultimi anni, in Tanzania ancora quattro donne su dieci si è sposata prima dei 18 anni. Una tradizione centenaria difficile da modificare e non ostacolata dalla legge che non prevede ancora un limite d’età per il matrimonio. Il Marriage act del 1971 prevedeva un minimo di 18 anni per i ragazzi e 15 per le ragazze (14 con il benestare di un tribunale). Ma nella nuova proposta di Costituzione presentata nell’ottobre 2014 questa soglia è stata rimossa, lasciando un vuoto molto pericoloso. “Il progetto costituzionale non prevede, purtroppo, un’età minima - afferma Brenda Akia ricercatrice sui diritti delle donne di Hrw e autrice del rapporto- Il governo dovrebbe dar prova di leadership e fissare a 18 anni l'età minima nel Marriage Act fornendo una protezione più forte per i giovani sposi”.
Sei sposata? Non studi. Mancanza di sostegno e impossibilità di ottenere risarcimenti, sono solo alcune delle difficoltà incontrate dalle spose bambine. Politiche educative discriminatorie e vaghe incrementano i matrimoni precoci, minando l’istruzione delle giovani. Molte scuole della Tanzania, prima dell’iscrizione, obbligano le studentesse a sottoporsi a test di gravidanza. Il governo inoltre permette agli istituti di espellere o escludere gli studenti sposati o coloro che commettono reati "contro la morale" come appunto una gravidanza o il sesso prematrimoniale. A incoraggiare i matrimoni precoci ci sono anche gli esami che d’accesso alla scuola secondaria. Molte bambine, una volta bocciate, sono costrette dalle famiglie a sposarsi. Come Salia J., 19 anni, costretta dalla famiglia a sposarsi quando ne aveva 15 dopo non aver passato l’esame di maturità. “Mio padre – racconta - ha deciso di farmi sposare perché mi vedeva in casa senza far niente”.
Una via d’uscita. Mancanza di soldi, la volontà di fuggire da situazioni di pericolo o la necessità di coprire una gravidanza indesiderata, sono le maggiori cause che spingono le famiglie a dare in sposa le giovani figlie. Anita è stata costretta a sposarsi dal padre, quando aveva appena 15 anni. “Mio padre mi ha detto di non aver abbastanza soldi per mantenermi a scuola. Poi ho scoperto che aveva già ricevuto venti mucche per la mia dote”. Diversa la storia di Judith, che a 14 anni, per sfuggire alle avances del datore di lavoro per cui lavorava come collaboratrice domestica, ha accettato la proposta di un suo collega. “Ho visto il matrimonio – afferma - come la mia unica possibilità di fuggire ai maltrattamenti dal mio capo”.
Infanzia negata. Nonostante il numero delle spose bambine sia diminuito negli ultimi anni, in Tanzania ancora quattro donne su dieci si è sposata prima dei 18 anni. Una tradizione centenaria difficile da modificare e non ostacolata dalla legge che non prevede ancora un limite d’età per il matrimonio. Il Marriage act del 1971 prevedeva un minimo di 18 anni per i ragazzi e 15 per le ragazze (14 con il benestare di un tribunale). Ma nella nuova proposta di Costituzione presentata nell’ottobre 2014 questa soglia è stata rimossa, lasciando un vuoto molto pericoloso. “Il progetto costituzionale non prevede, purtroppo, un’età minima - afferma Brenda Akia ricercatrice sui diritti delle donne di Hrw e autrice del rapporto- Il governo dovrebbe dar prova di leadership e fissare a 18 anni l'età minima nel Marriage Act fornendo una protezione più forte per i giovani sposi”.
Sei sposata? Non studi. Mancanza di sostegno e impossibilità di ottenere risarcimenti, sono solo alcune delle difficoltà incontrate dalle spose bambine. Politiche educative discriminatorie e vaghe incrementano i matrimoni precoci, minando l’istruzione delle giovani. Molte scuole della Tanzania, prima dell’iscrizione, obbligano le studentesse a sottoporsi a test di gravidanza. Il governo inoltre permette agli istituti di espellere o escludere gli studenti sposati o coloro che commettono reati "contro la morale" come appunto una gravidanza o il sesso prematrimoniale. A incoraggiare i matrimoni precoci ci sono anche gli esami che d’accesso alla scuola secondaria. Molte bambine, una volta bocciate, sono costrette dalle famiglie a sposarsi. Come Salia J., 19 anni, costretta dalla famiglia a sposarsi quando ne aveva 15 dopo non aver passato l’esame di maturità. “Mio padre – racconta - ha deciso di farmi sposare perché mi vedeva in casa senza far niente”.
Una via d’uscita. Mancanza di soldi, la volontà di fuggire da situazioni di pericolo o la necessità di coprire una gravidanza indesiderata, sono le maggiori cause che spingono le famiglie a dare in sposa le giovani figlie. Anita è stata costretta a sposarsi dal padre, quando aveva appena 15 anni. “Mio padre mi ha detto di non aver abbastanza soldi per mantenermi a scuola. Poi ho scoperto che aveva già ricevuto venti mucche per la mia dote”. Diversa la storia di Judith, che a 14 anni, per sfuggire alle avances del datore di lavoro per cui lavorava come collaboratrice domestica, ha accettato la proposta di un suo collega. “Ho visto il matrimonio – afferma - come la mia unica possibilità di fuggire ai maltrattamenti dal mio capo”.
Matrimonio e violenza. Sono poche le ragazze che riescono a sfuggire ai matrimoni in tenera età sopportando abusi e ritorsioni da parte delle famiglie. Nella maggior parte dei casi le giovani spose vengono abusate dai mariti che oltre alle violenze, anche sessuali, vietano alle mogli di prendere decisioni sulle loro vite. Molte delle intervistate hanno raccontato di esser state abbandonate con figli a carico senza alcuna fonte di sostentamento. In alcuni casi le vittime hanno subito violenze anche da parte dei suoceri e le ragazze di etnia Maasai e Gogo sono state costrette a subire, come preparazione al matrimonio, la mutilazione genitale.
Il governo dov’è? “Il matrimonio precoce – conclude Akia – ha una serie di impatti negativi sulla vita delle donne. Il governo della Tanzania dovrebbe prendere misure immediate e a lungo termine per porre fine a questa pratica e dare un sostegno sia economico che psicologico alle vittime di abusi e violenze”.
Il governo dov’è? “Il matrimonio precoce – conclude Akia – ha una serie di impatti negativi sulla vita delle donne. Il governo della Tanzania dovrebbe prendere misure immediate e a lungo termine per porre fine a questa pratica e dare un sostegno sia economico che psicologico alle vittime di abusi e violenze”.
di Chiara Nardinocchi
Cina: Pechino riduce numero reati punibili con pena capitale... ne rimangono sempre 55
Adnkronos
Nella lista ne rimangono sempre 55, anche crimini non violenti come corruzione e traffico droga. La Cina riduce il numero dei reati punibili con la pena di morte. Una commissione del Congresso nazionale popolare, ha valutato la proposta presentata oggi dal governo di togliere dalla lunga lista di reati, molti dei quali non di sangue, che prevedono la pena capitale per nove reati, tra i quali traffico di armi, falsificazione di denaro e sfruttamento della prostituzione.
Nella lista ne rimangono sempre 55, anche crimini non violenti come corruzione e traffico droga. La Cina riduce il numero dei reati punibili con la pena di morte. Una commissione del Congresso nazionale popolare, ha valutato la proposta presentata oggi dal governo di togliere dalla lunga lista di reati, molti dei quali non di sangue, che prevedono la pena capitale per nove reati, tra i quali traffico di armi, falsificazione di denaro e sfruttamento della prostituzione.
Una volta che la proposta diventerà legge, le eventuali sentenze capitali di detenuti condannati per uno di questi nove reati saranno commutate in ergastoli.
Non è la prima volta che la Cina riduce il numero dei reati capitali: negli anni scorsi ne aveva abolito altri 13, senza che vi fossero "effetti negativi per la sicurezza pubblica", ha affermato alla Xinhua, l'agenzia ufficiale cinese, Li Shishi, consigliere legale del governo che sottolinea anche come l'opinione pubblica abbia sostenuto questi cambiamenti.
In Cina rimangono comunque ben 55 reati punibili con la pena di morte, compreso il traffico di droga, gravi atti di corruzione ed altri crimini non violenti. Il numero delle esecuzioni nel paese, che si ritiene sia il più alto nel mondo, è un segreto di stato, ma in alcuni casi, più importanti, vengono riportate dalla stampa. Come nel caso delle recenti esecuzioni di detenuti condannati per terrorismo nella regione a maggioranza uigura dello Xinjang.
Le associazioni per i diritti umani ritengono che in Cina lo scorso anno vi siano state più esecuzioni di quelle avvenute in tutto il resto del mondo, nonostante che il governo abbia affermato di aver limitato il ricorso alla pena di morte dopo l'introduzione dell'appello obbligatorio di fronte alla Corte Suprema per ogni condanna.
La Dui Hua Foundation, organizzazione che ha base negli Stati Uniti, ritiene che nel 2013 siano state mandate a morte 2.400 persone e che anche quest'anno verrà raggiunta una cifra simile, proprio per l'aumento delle condanne e delle esecuzioni per terrorismo.
"La diminuzione annuale del numero delle esecuzioni in Cina che si registra da qualche tempo, probabilmente verrà bloccata nel 2014 a causa dell'aumento delle condanne per terrorismo nello Xinjiang e per corruzione in tutto il paese", affermano dall'associazione che ricorda come nel 2002 furono 12mila le esecuzioni e nel 2007 furono 6.500.
Non è la prima volta che la Cina riduce il numero dei reati capitali: negli anni scorsi ne aveva abolito altri 13, senza che vi fossero "effetti negativi per la sicurezza pubblica", ha affermato alla Xinhua, l'agenzia ufficiale cinese, Li Shishi, consigliere legale del governo che sottolinea anche come l'opinione pubblica abbia sostenuto questi cambiamenti.
In Cina rimangono comunque ben 55 reati punibili con la pena di morte, compreso il traffico di droga, gravi atti di corruzione ed altri crimini non violenti. Il numero delle esecuzioni nel paese, che si ritiene sia il più alto nel mondo, è un segreto di stato, ma in alcuni casi, più importanti, vengono riportate dalla stampa. Come nel caso delle recenti esecuzioni di detenuti condannati per terrorismo nella regione a maggioranza uigura dello Xinjang.
Le associazioni per i diritti umani ritengono che in Cina lo scorso anno vi siano state più esecuzioni di quelle avvenute in tutto il resto del mondo, nonostante che il governo abbia affermato di aver limitato il ricorso alla pena di morte dopo l'introduzione dell'appello obbligatorio di fronte alla Corte Suprema per ogni condanna.
La Dui Hua Foundation, organizzazione che ha base negli Stati Uniti, ritiene che nel 2013 siano state mandate a morte 2.400 persone e che anche quest'anno verrà raggiunta una cifra simile, proprio per l'aumento delle condanne e delle esecuzioni per terrorismo.
"La diminuzione annuale del numero delle esecuzioni in Cina che si registra da qualche tempo, probabilmente verrà bloccata nel 2014 a causa dell'aumento delle condanne per terrorismo nello Xinjiang e per corruzione in tutto il paese", affermano dall'associazione che ricorda come nel 2002 furono 12mila le esecuzioni e nel 2007 furono 6.500.
martedì 28 ottobre 2014
La storia dei "baby" rifugiati, bimbi siriani nati in Libano
Askanews
Roma - Nascono sotto un tendone, in un campo profughi, senza certificato di nascita: siriani ma nati in Libano, che diventa così la loro terra d'esilio. Sono i 'bebè' profughi, bimbi siriani che vedono la luce in Libano, paese dove la madre si è rifugiata. Come Maram, siriana, costretta a lasciare il proprio Paese in seguito alla guerra.
Ha dato alla luce una bimba, nel campo profughi di Arsal, nel nord del Libano. Ma la gioia di essere diventata mamma non fa dimenticare la sua difficile situazione di rifugiata.
"Sarà ciò che Dio vuole. Il nostro futuro di rifugiati è nelle sue mani, fino a che la situazione non sarà migliore". Sono più di un milione i profughi siriani in Libano, fuggiti da una sanguinosa guerra che si trascina oramai da tre anni. Medici senza frontiere ha aperto un reparto maternità all'interno del campo di Arsal. Questa infermiera, Maria Luz Ruiz, ha seguito 27 parti in 5 settimane.
"La maternità è una cosa importantissima per le donne siriane. Prima di tutto diciamo loro quanto sia importante essere incinte. E poi quando partoriscono vediamo che sono molto felici". Ma per i bebè la vita si fa dura fin dall'inizio: le difficili condizioni sanitarie nel campo profughi, per i più grandi nessun accesso alla scuola. Solamente compagni con cui giocare.
Iran - Dopo l'esecuzione di Reyhaneh e gli attacchi con l'acido, esplode la rabbia delle donne sul web e in alcune piazze
AdnKronos/Aki
Teheran – “Basta impiccagioni”, “abolite la pena capitale”. Sono alcune delle reazioni dei cittadini iraniani, attivi sul web, all’impiccagione di Reyhaneh Jabbari, la 26enne riconosciuta colpevole dell’uccisione dell’uomo che voleva stuprarla.
La rabbia degli iraniani, sul web e in alcune piazze delle principali citta’ iraniane, si era scatenata contro il governo già alcuni giorni fa, a seguito degli attacchi con l’acido contro le donne registrati nella Repubblica islamica e in particolare a Isfahan.
Teheran – “Basta impiccagioni”, “abolite la pena capitale”. Sono alcune delle reazioni dei cittadini iraniani, attivi sul web, all’impiccagione di Reyhaneh Jabbari, la 26enne riconosciuta colpevole dell’uccisione dell’uomo che voleva stuprarla.
La notizia ha suscitato l’indignazione degli iraniani, che sui social media hanno pubblicato numerosi post e commenti di condanna della magistratura della Repubblica islamica e chiedendo l’abolizione della pena capitale in Iran.
Anche su diversi siti d’opposizione quali ‘Iranpressnews’ e ‘Peykeiran’ sono stati pubblicati vari interventi di condanna dell’esecuzione di Reyhaneh, così come sono stati ospitati dai principali canali televisivi satellitari dell’opposizione all’estero quali ‘Channelone’, ‘Parstv’ e ‘Andishe’, che avevano dato vita a una importante campagna contro l’impiccagione della donna.
La rabbia degli iraniani, sul web e in alcune piazze delle principali citta’ iraniane, si era scatenata contro il governo già alcuni giorni fa, a seguito degli attacchi con l’acido contro le donne registrati nella Repubblica islamica e in particolare a Isfahan.
Secondo i dimostranti e alcuni media d’opposizione, gli attacchi con l’acido sarebbero avvenuti contro donne che non avrebbero indossato il velo correttamente. Questa versione, tuttavia, è stata smentita dalle autorità e dai media ufficiali.
Alcuni siti d’opposizione riportano che, al fine di contenere possibili proteste, a seguito dell’impiccagione di Reyhaneh e degli attacchi con l’acido contro le donne, si sono schierate, nelle ultime ore, le forze anti-sommossa iraniane di fronte alla sede centrale del ministero degli Interni a Teheran.
Secondo le stime delle Nazioni Unite e delle organizzazioni attive nell’ambito dei diritti umani quali Amnesty International e Human Rights Watch, sono state impiccate in Iran oltre 550 persone nel corso del 2013. Alcune di queste impiccagioni sono state eseguite in pubblico nelle piazze dei centri urbani.
lunedì 27 ottobre 2014
Myanmar in migliaia di profughi, su barche, in cerca di una terra ”Rohingya”
MISNA
L’aggravarsi del clima di paura nello stato Rakhine, sta spingendo migliaia di musulmani Rohingya a lasciare nuovamente il paese. In queste ultime due settimane, sono circa 10.000 le persone che si sono imbarcate per raggiungere il sud della Thailandia, la Malesia o l’Indonesia, hanno detto gli attivisti che operano nella zona dove la maggioranza Rohingya vive in campi isolati. ” Si tratta di un numero così enorme che non ha precedenti” hanno dichiarato gli attivisti ai media locali.
L’aggravarsi del clima di paura nello stato Rakhine, sta spingendo migliaia di musulmani Rohingya a lasciare nuovamente il paese. In queste ultime due settimane, sono circa 10.000 le persone che si sono imbarcate per raggiungere il sud della Thailandia, la Malesia o l’Indonesia, hanno detto gli attivisti che operano nella zona dove la maggioranza Rohingya vive in campi isolati. ” Si tratta di un numero così enorme che non ha precedenti” hanno dichiarato gli attivisti ai media locali.
Molti rifugiati cercano di attraversare il mare delle Andamane percorrendo circa 1.000 chilometri lungo le coste della Thailandia, nella speranza di raggiungere Aceh, la regione indonesiana, a nord di Medan, nell’isola di Sumatra. Aceh è l’unico luogo che, fin dal 2009, ha accolto i profughi Rohingya. L’accoglienza è molto diversa per coloro che sbarcano in Thailandia o in Malesia dove i rifugiati spesso sono portati in campi di detenzione e di lavori forzati e soggetti ad estorsioni.
“ Di solito la fine della stagione delle piogge vede aumentare il numero delle partenze ma quest’anno – sempre secondo gli osservatori – arresti e scontri uniti alla generale situazione di oppressione nell’area settentrionale dello stato Rakhine combinata con la preoccupazione che le autorità insistono per escludere i Rohingya dall cittadinanza, hanno fatto lievitare il numero “.
Nelle ultime settimane le autorità birmane avrebbero compiuto dozzine di arresti fra i membri della minoranza musulmana per presunti legami con il gruppo militante Rohingya Solidarity Organisation (Rso). Durante gli arresti e la detenzione essi avrebbero subito maltrattamenti, torture e abusi. A causa dei maltrattamenti subiti, almeno 3 persone sarebbero morte , secondo i dati forniti dall’organizzazione Arakan Project. Win Myaing, portavoce governativo dello stato Rakhine, ha smentito ogni accusa di arresti e di morti fra i Rohingya della zona.
“ Di solito la fine della stagione delle piogge vede aumentare il numero delle partenze ma quest’anno – sempre secondo gli osservatori – arresti e scontri uniti alla generale situazione di oppressione nell’area settentrionale dello stato Rakhine combinata con la preoccupazione che le autorità insistono per escludere i Rohingya dall cittadinanza, hanno fatto lievitare il numero “.
Nelle ultime settimane le autorità birmane avrebbero compiuto dozzine di arresti fra i membri della minoranza musulmana per presunti legami con il gruppo militante Rohingya Solidarity Organisation (Rso). Durante gli arresti e la detenzione essi avrebbero subito maltrattamenti, torture e abusi. A causa dei maltrattamenti subiti, almeno 3 persone sarebbero morte , secondo i dati forniti dall’organizzazione Arakan Project. Win Myaing, portavoce governativo dello stato Rakhine, ha smentito ogni accusa di arresti e di morti fra i Rohingya della zona.
Germania, impreparata di fronte al numero di rifugiati. Violenze e maltrattamenti nei centri profughi
Pagina 99
Il paese è impreparato ad accogliere l’ondata di persone in fuga dalle zone di crisi. La politica è in ritardo e tenta di correre ai ripari. E mentre si fronteggia la carenza di posti letto con container e tendoni dell’Oktoberfest
Colonia - Il ragazzo è a terra, i pantaloni sporchi del suo stesso conato. Vicino a lui un materasso sudicio. In un tedesco zoppicante implora: “Perché mi maltratti?”. La replica arriva da un paio di voci fuori campo: “Devo spaccarti il muso? Sdraiati e mettiti a dormire nel tuo stesso vomito” dicono i vigilantes. Il filmato registrato con un cellulare da una guardia, finito in mano a un giornalista e poi consegnato alle forze dell’ordine, mostra un episodio di umiliazione e violenza verificatosi in un centro di accoglienza di profughi a Burbach, cittadina del Nordreno Vestfalia, Land della Germania occidentale. Fin da subito, ci si rende conto che non si tratta di un caso isolato. Parallelamente al video spunta anche una foto, in cui delle guardie in perfetto stile Guantanamo sogghignano mentre posano premendo gli stivali sul volto di un richiedente asilo algerino. Tutto questo veniva alla luce un mese fa. Lo scandalo come prevedibile è stato immediato e ha aperto una voragine nella politica migratoria tedesca, scopertosi impreparata a gestire l’arrivo, sempre più consistente, di migranti.
La vicenda ha però di fatto rivelato una falla estremamente rischiosa: la catena di subappalti dei servizi di sicurezza nei campi profughi. A Burbach, la European Homecare, società responsabile della gestione del centro – a cui è stata tolta la licenza, aveva concesso in subappalto i servizi di vigilanza a un’altra società, la SKI. Paghe striminzite, guardie impreparate a gestire possibili tensioni, alcune di loro assunte nonostante precedenti penali per percosse e droga. Sotto accusa, per non aver predisposto controlli, il ministro dell’Interno del Land, il socialdemocratico Ralf Jäger, che costretto a dare un rapido segnale, blocca immediatamente i subappalti. Ed è il primo atto di una politica colta in fallo e chiamata a correre ai ripari.
Che i primi fatti gravi si siano registrati in Nordreno Vestfalia non è un caso. È il Land che da solo accoglie il maggior numero di rifugiati di tutta la Germania – oltre il 20%. Ecco che allora mentre la procura apre un’inchiesta sulla vicenda di Burbach, a Essen in un recente vertice vengono rivisti gli standard di accoglienza, si pianifica un aumento dei posti letto da 5.000 a 7.500 (ma è solo la metà rispetto alle reali necessità) e la regione stanzia 190 milioni di euro per il prossimo anno, 46 milioni in più rispetto ai fondi preventivamente assegnati. Buona parte servirà a finanziare il potenziamento di personale qualificato. Perché questo sembra uno dei punti deboli, e non solo in Nordreno Vestfalia. Da un mese a questa parte in tutto il paese si sono moltiplicate le denunce di maltrattamenti nei centri di accoglienza. A Berlino proprio in questi giorni è emerso l’ennesimo episodio: un migrante originario del Kosovo, preso a pedate da una guardia.
È cronaca di un’emergenza annunciata, perché le stime parlano chiaro: entro la fine dell’anno sono attesi 200.000 richiedenti asilo in Germania, il doppio rispetto allo scorso anno. Governo federale, Länder, città e comuni ne sono a conoscenza, ma sembrano impreparati a gestire una situazione, peraltro ampiamente prevista. Nella ricca Baviera, la confusione è tale che sono i sindaci a prendere in mano la situazione e a risolvere l’emergenza – anche se spetterebbe al governo regionale. I centri profughi esistenti sono sovraffollati, iI sindaco di Monaco Dieter Reiter (Spd) ha quindi deciso di sua iniziativa di allestire accampamenti, adibire a posti letto alcune aree dell’Olympiastadion e i tendoni dell’Oktoberfest sui Theresienwiese. Ma con le temperature in calo e l’inverno alle porte, potrebbero non bastare più. Già ora, oltre ai vestiti e alle coperte, le associazioni di volontariato invitano a donare legna da ardere, perché anche durante la giornata trascorsa fuori, il gelo si fa sentire. Come se non bastasse, l’uragano Gonzalo ha spazzato via delle tendopoli nei pressi di Norimberga e i rifugiati sono stati dirottati verso un ex centro commerciale e in una palestra. E anche nella capitale le cose non vanno meglio. A Berlino si è pensato di destinare a 2.400 rifugiati, sei container, uno dei quali accoglierà vittime di gravi patologie e traumi. Ma sono tutte soluzioni temporanee.
Di chi è la responsabilità del caos profughi? I comuni accusano i Länder. I Länder girano le critiche al governo di Berlino, incolpando tra l’altro anche il ministero dell’Immigrazione per i ritardi sulle pratiche di richiesta d’asilo – un rifugiato mediamente deve attendere sette mesi prima di sapere se potrà restare o meno in Germania. E proprio a Berlino, ieri (23 ottobre), si è tenuto un vertice con i rappresentanti dei Länder a colloquio con la Cancelleria di Stato. Fumata nera però perché non è stata presa alcuna decisione, né sui maggiori finanziamenti richiesti dalle regioni al governo, tanto meno sull’utilizzo di immobili governativi (per esempio le caserme) per dare un tetto ai rifugiati. Se ne riparlerà a dicembre quando Angela Merkel incontrerà i governatori di tutte le regioni.
Dal governo federale però i segnali non sono incoraggianti e si guarda ai rifugiati con un’ottica distorta. Secondo un portavoce del ministero dell’Interno, interpellato dal quotidiano Die Welt il problema è da ricercare nelle espulsioni, troppo poche. I migranti sarebbero quindi incoraggiati a venire in Germania. A giugno – stando a quanto riportato da Die Welt, erano oltre 140.000 i rifugiati che stando alla normativa stabilita dalla Convenzione di Dublino (la richiesta d’asilo va inoltrata presso il primo paese di approdo) non avrebbero dovuto trovarsi sul suolo tedesco e solo 5.700 le espulsioni registrate. Numeri che tuttavia poco raccontano dell’incapacità di accogliere l’ondata di profughi che arriva da Siria, Eritrea o Iraq del nord, paesi martoriati dai conflitti o da condizioni di povertà estrema. A breve arriverà probabilmente una nuova normativa. Ma la linea sembra averla data il ministro dell’Interno Thomas De Maizière (Cdu), fattosi portavoce al Bundestag di una legge, peraltro già approvata un paio di settimane fa, che rende più difficile la richiesta di asilo per chi proviene dai Balcani, perché non considerato più paese “a rischio”. Come dire, non venite qui. Andate altrove.
domenica 26 ottobre 2014
Amnistia e indulto 2014, i diritti umani e carceri, il 27 ottobre l’ONU esaminerà la situazione italiana
Contatto News
Amnistia e indulto 2014 - Lunedì 27 Ottobre al Palais des Nations di Ginevra l’Onu esaminerà la situazione dei diritti umani in Italia.
Amnistia e indulto 2014 - Lunedì 27 Ottobre al Palais des Nations di Ginevra l’Onu esaminerà la situazione dei diritti umani in Italia.
Tra le questioni sollevate nella relazione nazionale e attraverso le domande avanzate ricevuti sono: politiche per l`immigrazione e per l`integrazione; i diritti dei migranti e dei richiedenti asilo politico; la lotta contro la discriminazione e atti razzisti; minoranze etniche; i diritti delle donne e dei bambini e la violenza contro le donne; il sistema giudiziario e quello penitenziario; le condizioni delle carceri; la libertà d`espressione e di religione; la lotta contro il traffico d`esseri umani; e la formazione sui diritti umani per le forze dell’ordine.
Amnistia e indulto 2014 - La vocazione di questo esame è di mettere in luce gli sviluppi nel campo dei diritti umani rispetto a quanto discusso nel primo ciclo, e di dare l`opportunità ad ogni paese sotto esame di dettagliare i passi fatti per mettere in opera le raccomandazioni ricevute durante l`esame nel primo ciclo.
Amnistia e indulto 2014 - La vocazione di questo esame è di mettere in luce gli sviluppi nel campo dei diritti umani rispetto a quanto discusso nel primo ciclo, e di dare l`opportunità ad ogni paese sotto esame di dettagliare i passi fatti per mettere in opera le raccomandazioni ricevute durante l`esame nel primo ciclo.
Argentina: il 70% dei detenuti in carcerazione preventiva
www.agensir.it
Dopo le parole di Papa Francesco sulla pena di morte e sulla carcerazione preventiva, il segretario di Giustizia della nazione, Julian Alvarez, ha riconosciuto nel corso di un'intervista televisiva che "attualmente in Argentina i detenuti in carcere sono 60mila di cui il 70% è sotto il regime di carcerazione preventiva".
Dopo le parole di Papa Francesco sulla pena di morte e sulla carcerazione preventiva, il segretario di Giustizia della nazione, Julian Alvarez, ha riconosciuto nel corso di un'intervista televisiva che "attualmente in Argentina i detenuti in carcere sono 60mila di cui il 70% è sotto il regime di carcerazione preventiva".
"I processi sono così lunghi che si decide la carcerazione preventiva", ha spiegato il funzionario. Secondo quanto affermato da Alvarez, con le modifiche al codice di procedura penale, annunciate dalla presidente Cristina Kirchner questa settimana, "questa percentuale s'invertirà". "Oggi i processi durano da quattro a dieci anni. Con il nuovo codice un anno al massimo. Dopo l'anno, il giudice rischierà di essere sanzionato dal Consiglio dei magistrati per non avere portato avanti la causa", ha detto il funzionario.
Per quanto riguarda le critiche che il progetto dell'Esecutivo ha ricevuto dai media e dall'opposizione, Alvarez ha affermato: "Dicono che facciamo questa riforma per garantire impunità, ma la critica non resiste a un minimo analisi. Dicono anche che siamo razzisti perché si prevede l'espulsione degli stranieri coinvolti in delitti gravi, ma questo è un Paese d'immigranti e la norma non ha niente a che vedere con il razzismo".
Per quanto riguarda le critiche che il progetto dell'Esecutivo ha ricevuto dai media e dall'opposizione, Alvarez ha affermato: "Dicono che facciamo questa riforma per garantire impunità, ma la critica non resiste a un minimo analisi. Dicono anche che siamo razzisti perché si prevede l'espulsione degli stranieri coinvolti in delitti gravi, ma questo è un Paese d'immigranti e la norma non ha niente a che vedere con il razzismo".
sabato 25 ottobre 2014
L’Olanda vuole rimandare richiedenti asilo della Somalia nelle mani degli insorti islamisti
Corriere della Sera
Dopo la sentenza Sharifi e altri contro Italia e Grecia con cui martedì scorso la Corte europea dei diritti umani ha condannato i due paesi per aver messo a rischio, nel 2009, la vita di un gruppo di richiedenti asilo afgani, un altro caso di mancato rispetto delle norme a tutela dei rifugiati coinvolge un paese dell’Unione europea.
L’Olanda sta cercando in tutti i modi di espellere richiedenti asilo della Somalia in zone di questo paese controllate dal gruppo islamista al-Shabab, responsabile negli ultimi anni di attentati e altri crimini efferati, tra cui uccisioni sommarie, lapidazioni delle adultere, frustate, amputazioni e altre forme di tortura.
Dopo la sentenza Sharifi e altri contro Italia e Grecia con cui martedì scorso la Corte europea dei diritti umani ha condannato i due paesi per aver messo a rischio, nel 2009, la vita di un gruppo di richiedenti asilo afgani, un altro caso di mancato rispetto delle norme a tutela dei rifugiati coinvolge un paese dell’Unione europea.
L’Olanda sta cercando in tutti i modi di espellere richiedenti asilo della Somalia in zone di questo paese controllate dal gruppo islamista al-Shabab, responsabile negli ultimi anni di attentati e altri crimini efferati, tra cui uccisioni sommarie, lapidazioni delle adultere, frustate, amputazioni e altre forme di tortura.
Dalla fine del 2012, il governo olandese ritiene che la Somalia sia un “paese sicuro” e ha sospeso la prassi automatica di non rimpatriare richiedenti asilo somali sostituendola con una valutazione caso per caso. Lo stesso criterio è stato adottato da altri paesi europei, come Danimarca, Norvegia, Regno Unito e Svezia.
Nella capitale somala Mogadiscio e in altre zone del paese si continua a morire: autobombe, attacchi kamikaze, scontri tra esercito e al-Shabab anche nel 2014 hanno fatto strage di civili. C’è chi prevede una lunga guerra.
Data la situazione, Amnesty International giudica l’atteggiamento del governo olandese incomprensibile e irresponsabile, oltre che contrario al diritto internazionale: non si può espellere una persona in un paese dove la sua vita e la sua libertà siano a rischio. Rimandare richiedenti asilo somali tra le mani di al-Shabab è come comunicargli una condanna a morte.
Lo scorso novembre, l’Olanda ha espulso Ahmed Said, 26 anni. Lo ha messo su un aereo che è atterrato a Mogadiscio, una città che Ahmed non aveva mai visto poiché aveva lasciato la Somalia oltre 20 anni prima con la sua famiglia. Tre giorni dopo, al-Shabab ha compiuto un attacco suicida: almeno sei persone sono morte, mentre Ahmed ha avuto la fortuna di essere tra i numerosi feriti.
Dopo questo episodio, il governo somalo ha chiesto all’Olanda di sospendere nuovamente le espulsioni. Ma il ministero dell’Immigrazione sta tornando alla carica per convincere Mogadiscio a cambiare idea.
Nella capitale somala Mogadiscio e in altre zone del paese si continua a morire: autobombe, attacchi kamikaze, scontri tra esercito e al-Shabab anche nel 2014 hanno fatto strage di civili. C’è chi prevede una lunga guerra.
Data la situazione, Amnesty International giudica l’atteggiamento del governo olandese incomprensibile e irresponsabile, oltre che contrario al diritto internazionale: non si può espellere una persona in un paese dove la sua vita e la sua libertà siano a rischio. Rimandare richiedenti asilo somali tra le mani di al-Shabab è come comunicargli una condanna a morte.
Lo scorso novembre, l’Olanda ha espulso Ahmed Said, 26 anni. Lo ha messo su un aereo che è atterrato a Mogadiscio, una città che Ahmed non aveva mai visto poiché aveva lasciato la Somalia oltre 20 anni prima con la sua famiglia. Tre giorni dopo, al-Shabab ha compiuto un attacco suicida: almeno sei persone sono morte, mentre Ahmed ha avuto la fortuna di essere tra i numerosi feriti.
Dopo questo episodio, il governo somalo ha chiesto all’Olanda di sospendere nuovamente le espulsioni. Ma il ministero dell’Immigrazione sta tornando alla carica per convincere Mogadiscio a cambiare idea.
Gran Bretagna: record di suicidi nelle carceri inglesi, dal 2012 al 2013 aumentati del 69%
www.west-info.eu
Dal periodo 2012-13 al 2013-14 il numero di suicidi nella galere inglesi è aumentato del 69%. L'incremento percentuale più alto negli ultimi dieci anni.
Dal periodo 2012-13 al 2013-14 il numero di suicidi nella galere inglesi è aumentato del 69%. L'incremento percentuale più alto negli ultimi dieci anni.
Una situazione carceraria definita spaventosa e inaccettabile dalla relazione annuale dell'Ispettore capo delle prigioni di Sua Maestà. Nella sua relazione, inoltre, il funzionario denuncia come gli istituti di reclusione d'Oltremanica registrino crescente violenza, deterioramento della sicurezza e sovraffollamento.
di Ivano Abbadessa
di Ivano Abbadessa
Iran, Reyhaneh Jabbari la donna che aveva ucciso l'uomo che le voleva fare violenza è stata impiccata.
La Stampa
All’esecuzione della giovane iraniana, condannata a morte per l’uccisione dell’uomo che voleva stuprarla, erano presenti i genitori. Inutili gli appelli internazionali per salvarla
All’esecuzione della giovane iraniana, condannata a morte per l’uccisione dell’uomo che voleva stuprarla, erano presenti i genitori. Inutili gli appelli internazionali per salvarla
Reyhaneh Jabbari, la giovane iraniana condannata a morte per l’uccisione dell’uomo che voleva stuprarla, è stata impiccata a mezzanotte. All’esecuzione erano presenti i genitori di Reyhaneh e il figlio della vittima, che secondo le fonti ha tolto lo sgabello da sotto i piedi della ragazza. La notizia dell’imminente esecuzione era arrivata ieri sera, quando i genitori della ragazza erano stati convocati in carcere per vederla per l’ultima volta.
La 26enne era poi stata trasferita in un altro carcere non precisato, dove all’alba è stata impiccata. A nulla è valsa la campagna internazionale lanciata per salvare Reyhaneh, né gli appelli che la madre, Sholeh Pakravan, ha affidato ad Aki-Adnkrons International. «L’ho abbracciata per l’ultima volta - diceva la donna nell’ultimo appello, di ieri sera - intervenite al più presto, fate qualcosa per salvare la vita di mia figlia».
La pagina Facebook della campagna per salvare la giovane arredatrice d’interni ha pubblicato la scritta «Riposa in pace». L’esecuzione era stata fissata per il 30 settembre ma era stata poi rinviata facendo sperare in un atto di clemenza. Venerdì alla madre era stato permesso di visitare Reyhaneh per un’ora, un segnale che l’impiccagione era imminente.
Il relatore dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu aveva denunciato che il processo del 2009 era stato viziato da molte irregolarità e non aveva tenuto conto che si era trattato di legittima difesa di fronte a un tentativo di stupro. Il perdono della famiglia della vittima avrebbe salvato Reyhaneh dalla forca, ma il figlio dell’uomo ha chiesto che la ragazza negasse di aver subito un tentativo di stupro e lei si è sempre rifiutata di farlo.
La 26enne era poi stata trasferita in un altro carcere non precisato, dove all’alba è stata impiccata. A nulla è valsa la campagna internazionale lanciata per salvare Reyhaneh, né gli appelli che la madre, Sholeh Pakravan, ha affidato ad Aki-Adnkrons International. «L’ho abbracciata per l’ultima volta - diceva la donna nell’ultimo appello, di ieri sera - intervenite al più presto, fate qualcosa per salvare la vita di mia figlia».
La pagina Facebook della campagna per salvare la giovane arredatrice d’interni ha pubblicato la scritta «Riposa in pace». L’esecuzione era stata fissata per il 30 settembre ma era stata poi rinviata facendo sperare in un atto di clemenza. Venerdì alla madre era stato permesso di visitare Reyhaneh per un’ora, un segnale che l’impiccagione era imminente.
Il relatore dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu aveva denunciato che il processo del 2009 era stato viziato da molte irregolarità e non aveva tenuto conto che si era trattato di legittima difesa di fronte a un tentativo di stupro. Il perdono della famiglia della vittima avrebbe salvato Reyhaneh dalla forca, ma il figlio dell’uomo ha chiesto che la ragazza negasse di aver subito un tentativo di stupro e lei si è sempre rifiutata di farlo.
Tunisia, i profughi della guerra libica nel campo di confine lasciati soli e pronti a partire per l'Europa
La Repubblica
Reportage da Ras Jdir, lungo la linea che divide i due paesi dove c'è un campo per rifugiati. In pochi hanno compiuto la scelta dura di restare nella desolazione di Choucha: l'area è stata infatti abbandonata dalle Nazioni Unite e da tutte le organizzazioni internazionali intervenute nei due anni di emergenza
Choucha (confine Tunisia- Libia) - L'auto percorre l'ultimo tratto di strada in mezzo ad una implacabile tempesta di sabbia. Da almeno 30 chilometri ormai il paesaggio intorno non regala che un'infinita distesa di terra deserta: siamo a pochi passi da Ras Jdir, la linea di frontiera che apre le porte della Libia, in un luogo perduto nel quale, ormai da 3 anni, un centinaio di uomini e donne lottano per sopravvivere.
Lo chiamano Choucha, questo pezzo dimenticato di mondo nel Sud profondissimo della Tunisia, un cumulo di tende malmesse, fatte di tela e di stracci, nelle quali vivono gli ultimi profughi della guerra libica.
Non a caso sono qui. È proprio qui infatti che nel febbraio del 2011, durante l'emergenza rifugiati seguita alla rivolta contro il regime del colonnello Gheddafi, l'Alto Commissariato per le Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) insediò uno dei campi profughi più grandi di sempre: si calcola che nei due anni e quattro mesi di operatività il presidio di Choucha abbia ricevuto quasi 3 milioni di persone in fuga dal conflitto in Libia. Per mesi i funzionari delle Nazioni Unite si sono impegnati in un complicato lavoro di indicizzazione delle migliaia di esseri umani arrivate nel campo: fuggire da una guerra non era infatti considerato abbastanza, così si è provveduto a distinguere gli uomini e le donne fra profughi, quindi in fuga da una guerra, da una persecuzione etnica, da un'oggettiva condizione di disperazione, e migranti, mossi invece dalla sola ricerca di una migliore condizione economica.
I primi sono stati via via imbarcati verso una nuova avventura, in uno dei paesi che ha accettato le loro richieste di asilo; ai secondi è stato invece offerto il rimpatrio volontario nei paesi d'origine. Molti, anziché attendere un responso ufficiale, hanno preferito prendere uno dei barconi in partenza dalla costa libica, nella speranza di raggiungere l'isola di Lampedusa.
Nel campo non c'è più acqua né corrente elettrica. Alcuni, pochi a dire il vero, hanno compiuto la scelta più dura, restando nella desolazione di Choucha: il campo è stato infatti abbandonato dalle Nazioni Unite e da tutte le organizzazioni internazionali intervenute nei due anni di emergenza il 30 giugno 2013.
Nel campo non c'è più acqua né corrente elettrica. Alcuni, pochi a dire il vero, hanno compiuto la scelta più dura, restando nella desolazione di Choucha: il campo è stato infatti abbandonato dalle Nazioni Unite e da tutte le organizzazioni internazionali intervenute nei due anni di emergenza il 30 giugno 2013.
Da allora sono stati tagliati acqua, elettricità e ogni servizio di assistenza, fra cui anche l'infermeria medica. "Vengo dalla Somalia, dal mio paese me ne sono andato quando ero ancora un ragazzino. Vivevo in Libia da diversi anni quando è scoppiata la guerra e sai qual è stata la mia unica colpa? Quella di provare a resistere. Sono arrivato qui a Choucha quando ormai era troppo tardi, o almeno così mi hanno detto. Troppo tardi per cosa? Per vivere? Per reclamare il mio diritto ad esistere in questo mondo? - racconta Ayud, 34 anni, di Kismayo, una città nel sud della Somalia dilaniata dalla guerra civile e dalle battaglie fra milizie islamiste ed esercito nazionale - Mi hanno offerto di tornare nel mio paese, ma io in Somalia non ci posso andare, c'è la guerra lì! Sono rimasto a Choucha perché ho il diritto di vivere e non voglio prendere una barca e rischiare di morire, per dimostrare cosa, che sono vivo? Io sono qui adesso, e pretendo che qualcuno mi ascolti: siamo essere umani, ma ci trattano peggio di bestie."
Ora l'area è controllata dall'esercito tunisino. Dal giugno del 2013 ad oggi la responsabilità del campo di Choucha è passata nelle mani dell'esercito tunisino, che di fatto si limita a controllare la zona con un pattugliamento costante e senza offrire alcun supporto umanitario. Nelle scorse settimane la Croce Rossa Internazionale e l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni hanno confermato l'intenzione delle autorità tunisine di sgomberare la tendopoli per ragioni di sicurezza. Per i 114 occupanti di Choucha resteranno allora poche opzioni. La permanenza in Tunisia appare difficile, sia per le complicate condizioni economiche e politiche in cui versa il paese, ancora alla ricerca di stabilità dopo la rivoluzione del 2011, che per la mancanza di una legge nazionale che disciplini il diritto di asilo. Agli uomini e alle donne di Choucha non resterà quindi che rientrare in Libia o salpare su un barcone con destinazione Lampedusa. Per dimostrare, un'altra volta, di essere ancora, prima che profughi o migranti, esseri umani.
Ora l'area è controllata dall'esercito tunisino. Dal giugno del 2013 ad oggi la responsabilità del campo di Choucha è passata nelle mani dell'esercito tunisino, che di fatto si limita a controllare la zona con un pattugliamento costante e senza offrire alcun supporto umanitario. Nelle scorse settimane la Croce Rossa Internazionale e l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni hanno confermato l'intenzione delle autorità tunisine di sgomberare la tendopoli per ragioni di sicurezza. Per i 114 occupanti di Choucha resteranno allora poche opzioni. La permanenza in Tunisia appare difficile, sia per le complicate condizioni economiche e politiche in cui versa il paese, ancora alla ricerca di stabilità dopo la rivoluzione del 2011, che per la mancanza di una legge nazionale che disciplini il diritto di asilo. Agli uomini e alle donne di Choucha non resterà quindi che rientrare in Libia o salpare su un barcone con destinazione Lampedusa. Per dimostrare, un'altra volta, di essere ancora, prima che profughi o migranti, esseri umani.
di Mauro Mondello
venerdì 24 ottobre 2014
Appello Onu per il Sudan: serve aiuto a migliaia di rifugiati del Sud Sudan
TMNews
Milano - L'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati chiede alla comunità internazionale di intervenire per salvare i migliaia di rifugiati del Sud Sudan. Sono donne bambini, uomini costretti a pagare il conto della guerra civile che ha devastato il Paese, provocando migliaia di morti e demolendo l'economia e il futuro del Sudan. Antonio Guterres è Alto commissario dell'Onu per i rifugiati.
Milano - L'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati chiede alla comunità internazionale di intervenire per salvare i migliaia di rifugiati del Sud Sudan. Sono donne bambini, uomini costretti a pagare il conto della guerra civile che ha devastato il Paese, provocando migliaia di morti e demolendo l'economia e il futuro del Sudan. Antonio Guterres è Alto commissario dell'Onu per i rifugiati.
"Il Sudan, la comunità locale e i rifugiati hanno bisogno della solidarietà della comunità internazionale, affinché noi possiamo rispondere ai problemi dell'educazione, la salute, i bisogni sanitari. Non solo per i rifugiati ma per i villaggi che li ospitano generosamente".
Lucy è una delle migliaia di rifugiate che vive nel campo. "Qualche volta ci sono medicine, qualche volta no. Ogni giorno muore un bambino nel campo, ogni giorno noi vediamo i bambini morire".
Lucy è una delle migliaia di rifugiate che vive nel campo. "Qualche volta ci sono medicine, qualche volta no. Ogni giorno muore un bambino nel campo, ogni giorno noi vediamo i bambini morire".
Rapporto Human Rights Watch: il calo dei diritti umani nella Turchia
Futuro Quotidiano
In Turchia si assiste ad un preoccupante calo dei diritti umani. “Turkey is undergoing a worrying rollback of human rights”. Lo scrive nero su bianco l’Human Rights Watch (Osservatorio per i Diritti Umani, Hrw) nel suo rapporto Turkey’s Human Rights Rollback.
In Turchia si assiste ad un preoccupante calo dei diritti umani. “Turkey is undergoing a worrying rollback of human rights”. Lo scrive nero su bianco l’Human Rights Watch (Osservatorio per i Diritti Umani, Hrw) nel suo rapporto Turkey’s Human Rights Rollback.
Foto simbolo delle manifestazioni di Gezi park |
Nell’introduzione, il documento non lascia spazio a dubbi interpretativi: “negli ultimi nove mesi, al fine di soffocare le indagini sulla corruzione, il partito di governo AKP (guidato dal suo leader Recep Tayyip Erdoğan, oggi presidente turco, ndr) ha cercato di limitare l’indipendenza dei giudici e indebolire lo Stato di diritto”.
Un atteggiamento che trae origine da un sentimento antigovernativo di massa che già lo scorso anno diede vita a numerose proteste e dalla volontà di sottacere lo scandalo di corruzione emerso nel dicembre 2013 che “va dritto al cuore del governo dell’AKP” e a cui l’esecutivo rispose con azioni mirate: indebolire le forze di polizia, elevare il suo potere al di sopra di quello giudiziario, silenziare la stampa e la rete. L’allora premier Erdoğan fece anche oscurare Twitter e You Tube.
La recente elezione di Erdoğan a presidente della Turchia conferma le preoccupazioni. Tanto da spingere l’Osservatorio a delineare alcune aree di intervento per rafforzare il rispetto dei diritti umani in Turchia: a) assicurare il processo di pace con i Curdi, vera grande possibilità di affermazione dei diritti umani da estendere a tutte le minoranze; b) riformare la giustizia, “da sistema utilizzato dall’ esecutivo contro gli oppositori politici [...], ad uno fortemente indipendente e imparziale”; c) sconfiggere la cultura dell’impunità; d) garantire la libertà di espressione, associazione e assemblea.
Un atteggiamento che trae origine da un sentimento antigovernativo di massa che già lo scorso anno diede vita a numerose proteste e dalla volontà di sottacere lo scandalo di corruzione emerso nel dicembre 2013 che “va dritto al cuore del governo dell’AKP” e a cui l’esecutivo rispose con azioni mirate: indebolire le forze di polizia, elevare il suo potere al di sopra di quello giudiziario, silenziare la stampa e la rete. L’allora premier Erdoğan fece anche oscurare Twitter e You Tube.
La recente elezione di Erdoğan a presidente della Turchia conferma le preoccupazioni. Tanto da spingere l’Osservatorio a delineare alcune aree di intervento per rafforzare il rispetto dei diritti umani in Turchia: a) assicurare il processo di pace con i Curdi, vera grande possibilità di affermazione dei diritti umani da estendere a tutte le minoranze; b) riformare la giustizia, “da sistema utilizzato dall’ esecutivo contro gli oppositori politici [...], ad uno fortemente indipendente e imparziale”; c) sconfiggere la cultura dell’impunità; d) garantire la libertà di espressione, associazione e assemblea.
Interventi quanto mai necessari per andare oltre l’Accordo di Ankara e sancire l’ingresso della Turchia nella grande famiglia europea. Ma le stringenti interpretazioni in tema di diritti fondamentali di libertà e giustizia insieme alle crescenti difficoltà incontrate dalla stampa (più) critica gettano un’ulteriore ombra sul già difficile processo di integrazione europea della Turchia. Che a parte i buoni propositi espressi in ambito dell’Universal Periodic Review 2010 (la ricognizione periodica dell’Onu), sui diritti umani fa passi indietro.
Un danno di immagine (e di sostanza) importante per un paese destinato a giocare un ruolo internazionale di rilievo e di cerniera tra l’occidente e il mondo arabo. Linea di confine su cui corre la lotta contro i jihadisti dello Stato islamico e il terrorismo dell’Isis. Ma se da un lato, ci sarà un avvicinamento all’Europa sulla spinta della lotta all’Isis, dall’altro il “circostanziato” rollback sui diritti fondamentali dell’uomo denunciato dall’Hrw riavvolge, e di misura, il processo di ingresso della Turchia di Erdoğan nell’Unione a 28.
Un danno di immagine (e di sostanza) importante per un paese destinato a giocare un ruolo internazionale di rilievo e di cerniera tra l’occidente e il mondo arabo. Linea di confine su cui corre la lotta contro i jihadisti dello Stato islamico e il terrorismo dell’Isis. Ma se da un lato, ci sarà un avvicinamento all’Europa sulla spinta della lotta all’Isis, dall’altro il “circostanziato” rollback sui diritti fondamentali dell’uomo denunciato dall’Hrw riavvolge, e di misura, il processo di ingresso della Turchia di Erdoğan nell’Unione a 28.
Giustizia - Unione delle Camere Penali Italiane: dopo le parole di Papa Francesco l'ergastolo va abolito e il 41-bis riformato
Adnkronos
"L'ergastolo deve essere abolito, le carceri devono garantire il rispetto della dignità dell'uomo, il regime carcerario del 41-bis deve essere radicalmente riformato, la custodia cautelare deve essere l'extrema ratio e non l'anticipazione della pena".
"L'ergastolo deve essere abolito, le carceri devono garantire il rispetto della dignità dell'uomo, il regime carcerario del 41-bis deve essere radicalmente riformato, la custodia cautelare deve essere l'extrema ratio e non l'anticipazione della pena".
È questa la posizione dell'unione camere penali italiane a commento le parole del Papa che condannano ergastolo, carcerazione preventiva e invitano al rispetto di chi subisce "a volte forme di tortura" nella privazione della dignità. Il discorso di Papa Francesco "tocca i temi fondamentali del sistema penale e lo fa come sempre in modo coraggioso e schietto, senza alcuna possibilità di fraintendimento" commentano i penalisti.
"Le parole del Santo Padre esprimono principi da sempre sostenuti dall'unione camere penali, e nei quali essa crede fermamente, che mettono l'uomo, la sua individualità e la sua dignità personale al centro come valore fondante ed imprescindibile di ogni sistema sociale" sottolineano gli appartenenti all'unione camere penali. Su tutti questi temi, concludono i penalisti, "non c'è più tempo da perdere, troppo ne è già stato speso inutilmente e le sofferenze che sono ingiustamente procurate a chi subisce gli effetti e le modalità di pene inique, di carcerazioni inutili, obbligano tutti e ciascuno a rispondere con solerzia e coscienza alle parole illuminate e cariche di umanità del Papa".
"Le parole del Santo Padre esprimono principi da sempre sostenuti dall'unione camere penali, e nei quali essa crede fermamente, che mettono l'uomo, la sua individualità e la sua dignità personale al centro come valore fondante ed imprescindibile di ogni sistema sociale" sottolineano gli appartenenti all'unione camere penali. Su tutti questi temi, concludono i penalisti, "non c'è più tempo da perdere, troppo ne è già stato speso inutilmente e le sofferenze che sono ingiustamente procurate a chi subisce gli effetti e le modalità di pene inique, di carcerazioni inutili, obbligano tutti e ciascuno a rispondere con solerzia e coscienza alle parole illuminate e cariche di umanità del Papa".
Convegno di Sant’Egidio a Tokyo con reduce innocente per 46 anni nel “death row”, stop esecuzioni
OnuItalia
Tokyo– Iwao Hakamada ha vinto il suo ultimo match in un’aula di tribunale e oggi e’ vivo per raccontare la sua storia: l’ex pugile giapponese, al fianco del presidente della commissione Diritti Umani della Camera Mario Marazziti, ha preso parte a un convegno organizzato dalla Comunita’ di Sant’Egidio a Tokyo sulla pena di morte in Asia.
Tokyo– Iwao Hakamada ha vinto il suo ultimo match in un’aula di tribunale e oggi e’ vivo per raccontare la sua storia: l’ex pugile giapponese, al fianco del presidente della commissione Diritti Umani della Camera Mario Marazziti, ha preso parte a un convegno organizzato dalla Comunita’ di Sant’Egidio a Tokyo sulla pena di morte in Asia.
Hakamada, 78 anni, e’ stato rilasciato il 26 marzo dopo 48 anni di carcere, 46 dei quali nel braccio della morte. Una detenzione da Guinness, un record mondiale. Grazie alla prova del Dna il prigioniero aveva ottenuto la revisione del processo e la scarcerazione: non era stato lui a sterminare una famiglia di quattro persone, il delitto per il quale nel 1968 era stato condannato all’impiccagione.
Il Convegno di Sant’Egidio a Tokyo, e l’altro organizzato dalla comunità trasteverina a Manila, rientrano nella campagna internazionale ‘Non c’è giustizia senza vita’. “L’Asia resta il continente dove la pena di morte continua a mantenere il più alto numero di vittime, anche se non mancano significativi segnali di apertura da parte di alcuni governi e della società civile”, ha dichiarato Marco Impagliazzo, presidente dell’organizzazione.
Il Convegno di Sant’Egidio a Tokyo, e l’altro organizzato dalla comunità trasteverina a Manila, rientrano nella campagna internazionale ‘Non c’è giustizia senza vita’. “L’Asia resta il continente dove la pena di morte continua a mantenere il più alto numero di vittime, anche se non mancano significativi segnali di apertura da parte di alcuni governi e della società civile”, ha dichiarato Marco Impagliazzo, presidente dell’organizzazione.
“La Coalizione Mondiale contro la Pena di Morte, che oggi raccoglie 150 organizzazioni internazionali, è nata nel 2002 nella sede della nostra Comunità a Trastevere”, ha aggiunto Impagliazzo aggiungendo che le parole di papa Francesco contro la pena di morte del papa “ci incoraggiano a proseguire sul cammino intrapreso e ad insistere affinché il tema della moratoria delle esecuzioni capitali venga riproposto ed approvato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite in corso a New York”.
giovedì 23 ottobre 2014
Australia: "profughi deportati", deputato fa ricorso Corte Penale Internazionale dell'Aia
Ansa
Un deputato indipendente in Australia ha fatto ricorso alla Corte Penale Internazionale dell'Aia chiedendo di aprire un'inchiesta "sui crimini contro l'umanità perpetrati da membri del governo australiano contro le persone che arrivano in acque australiane per chiedere asilo".
Un deputato indipendente in Australia ha fatto ricorso alla Corte Penale Internazionale dell'Aia chiedendo di aprire un'inchiesta "sui crimini contro l'umanità perpetrati da membri del governo australiano contro le persone che arrivano in acque australiane per chiedere asilo".
La denuncia contro la politica restrittiva del governo conservatore di Canberra verso i richiedenti asilo che tentano di raggiungere l'Australia via mare, viene da Andrew Wilkie, deputato della Tasmania, già funzionario dei servizi segreti che si era dimesso per protesta contro le bugie sulle armi di distruzione di massa in possesso di Saddam Hussein in Iraq. L'Australia richiude i richiedenti asilo che arrivano via mare in centri di detenzione stabiliti dal Paese su isole del Pacifico: nel territorio esterno australiano di Christmas, a Manus in Papua Nuova Guinea e nel minuscolo stato-isola di Nauru.
Le misure, introdotte dal precedente governo laburista, sono state confermate e rafforzate dall'attuale governo conservatore di Tony Abbott, per frenare l'afflusso di migranti provenienti da Paesi come Sri Lanka, Iraq, Iran e Afghanistan. L'obiettivo dichiarato è di scoraggiare i trafficanti di esseri umani, dopo che centinaia di persone sono naufragate nel tentativo di raggiungere acque australiane.
"Gli effetti di questa politica sono che uomini, donne e bambini sono detenuti a forza e a tempo indefinito", ha scritto Wilkie nella lettera alla Corte. "Le condizioni che subiscono durante la detenzione sono causa di grandi sofferenze oltre che di gravi lesioni fisiche e mentali", aggiunge, accusando il governo di violare i trattati internazionali sui diritti dei profughi, i diritti dei minori e i diritti civili.
Le misure, introdotte dal precedente governo laburista, sono state confermate e rafforzate dall'attuale governo conservatore di Tony Abbott, per frenare l'afflusso di migranti provenienti da Paesi come Sri Lanka, Iraq, Iran e Afghanistan. L'obiettivo dichiarato è di scoraggiare i trafficanti di esseri umani, dopo che centinaia di persone sono naufragate nel tentativo di raggiungere acque australiane.
"Gli effetti di questa politica sono che uomini, donne e bambini sono detenuti a forza e a tempo indefinito", ha scritto Wilkie nella lettera alla Corte. "Le condizioni che subiscono durante la detenzione sono causa di grandi sofferenze oltre che di gravi lesioni fisiche e mentali", aggiunge, accusando il governo di violare i trattati internazionali sui diritti dei profughi, i diritti dei minori e i diritti civili.
Iscriviti a:
Post (Atom)