Il presidente del Centro per i diritti umani del Bahrein, arrestato quattro volte, denuncia il silenzio internazionale sulle violazioni dei diritti umani da parte di Manama. La minaccia dell'Is e l'ombra di Riyad.
"Ieri in piazza a protestare c’era il 20% della popolazione del Bahrein e non ne ha parlato nessuno". È arrabbiato Nabeel Rajab, presidente del Centro per i diritti umani del Bahrein, finito in carcere quattro volte, l’ultima il 2 ottobre scorso quando è stato arrestato per aver scritto in un tweet “che molti bahreiniti che si sono uniti all’Isis [Stato Islamico, Is, ndr] venivano da istituzioni per la sicurezza”.
"Negli ultimi 3 anni, il 7% della popolazione del Bahrein è stata arrestata e 4 mila persone sono ancora in prigione. Parliamo nell’80% dei casi di persone punite per aver manifestato pacificamente o per aver espresso su Internet opinioni contro il regime. Secondo i giudici sono tutti terroristi che rappresentano una minaccia alla sicurezza nazionale. Ogni settimana tra le 25 e le 30 persone finiscono in carcere così”.
Rajab racconta il suo paese attraverso questi dati. Il Bahrein ha poco più di un milione di abitanti, riserve di petrolio per oltre 124 milioni di barili, un pil pro capite che l’anno scorso ha superato quello italiano, ma la ricchezza non ha protetto l’isola dalle proteste della "primavera araba", come è invece avvenuto in altri paesi del Golfo. Le mobilitazioni continuano nonostante la repressione.
Secondo quanto riportato dall’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch, "le forze di sicurezza (in Bahrein) hanno continuato ad arrestare arbitrariamente persone in cittadine dove le proteste anti-governative avvengono con regolarità. I critici del governo di alto profilo rimangono in carcere con accuse legate unicamente al fatto di aver esercitato il diritto di libertà di espressione e di assemblea.
Il sistema giudiziario, presieduto da membri della famiglia regnante, non ha ancora processato nessuno degli ufficiali per le violazioni dei diritti umani accadute dal 2011, tra cui anche la morte - avvenuta in seguito a tortura - di persone che si trovavano in stato detentivo".
"I paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo hanno mandato l’esercito in Bahrein per fermare le proteste durante la primavera araba. La stampa internazionale non ne ha parlato per niente, neanche i giornali inglesi che in genere sono molto attenti”, Rajab spiega in un’intervista per Limes.
I giornalisti stranieri non hanno più facile accesso all’isola, così come i membri di organizzazioni per i diritti umani. Anche per i fotografi è sempre più difficile non essere arrestati. Nonostante le oggettive difficoltà, Rajab crede che il silenzio dei media sia voluto: “Il Regno Unito ha un legame speciale con la famiglia regnante del Bahrein; non a caso i media inglesi seguono con grande attenzione le violazioni dei diritti umani in Qatar, ma ignorano quelle in Bahrein.
Londra ha dei legami militari con il Bahrein e vende le armi a diversi paesi del Golfo. Rapporti di questo tipo dipendono dai regnanti: se il regnante salta, saltano anche questi accordi, quindi la Gran Bretagna ha interesse a mantenere lo status quo in Bahrein”.
Nel documentario del 2011 di Aljazeera, Bahrain: Shouting in the Dark, vincitore anche dell’Amnesty International Media Award, vengono raccontate le violenze subite dalla popolazione a maggioranza sciita nell’isola in cui regna la famiglia sunnita Al Khalifa.
Rajab crede che sia riduttivo spiegare il conflitto interno come una lotta tra sciiti e sunniti. La protesta dei bahreiniti è politica, non religiosa, e mira a ottenere un sistema democratico in cui vengano rispettati i diritti umani.
"Molti credono che l’introduzione di un sistema democratico in Bahrein andrebbe a rafforzare l’Iran perché la maggioranza della popolazione in Bahrein è sciita come in Iran, non sunnita come negli altri Stati del Golfo" spiega Rajab, scosso dal caos che vi è nel Paese e dalla presenza sempre più egemonica dell’Arabia Saudita.
"Il Bahrein sta diventando una colonia saudita, ma noi non siamo una società tribale come loro, noi abbiamo una storia diversa, una società più evoluta con un sistema scolastico dagli anni Venti, chiese e sinagoghe” afferma Rajab.
Nonostante le differenze, un paese appare sempre più come il prolungamento dell’altro, anche grazie al ponte intitolato a re Fahd, su cui fino a poco tempo fa passavano i carri armati del Peninsula Shield Force inviati dai paesi del Golfo per soffocare le proteste a Manama.
Le minacce arrivano anche da altre direzioni: il Bahrein è uno dei cinque alleati arabi a partecipare ai raid aerei contro lo Stato Islamico organizzati da una coalizione che al fianco degli Stati Uniti vede Arabia Saudita, Qatar, Giordania ed Emirati Arabi Uniti. “Noi siamo contro l’Is e abbiamo paura” ammette Rajab.
Il califfato ha dichiarato in passato l’intenzione di attaccare i paesi del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita che ospita Mecca e Medina, i due luoghi santi più importanti per i musulmani, dove in migliaia si dirigono ogni anno per l’hajj, il pellegrinaggio che rappresenta il quinto pilastro dell’Islam.
A luglio di quest’anno il re saudita Abdullah ha ordinato di prendere tutte le misure necessarie per fermare l’avanzata dell’Is, schierando 30 mila soldati al confine con l’Iraq. Se è vero ciò che ha twittato Rajab, ossia che cittadini dei servizi di sicurezza del Bahrein si sono uniti allo Stato Islamico, informazioni sensibili sull’isola potrebbero già essere nelle mani del califfato, dando a Manama ragioni per aver paura.
di Francesca Astorri
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.