Pestaggi con bastoni, aste di ferro e bottiglie piene d'acqua, detenuti ammanettati ai termosifoni o appesi al soffitto con ganci, asfissiati con buste di plastica o maschere antigas senza areazione; aghi infilati sotto le unghie delle dita di mani e piedi; scariche elettriche; getti d'acqua gelida; stupri e altre forme di violenza sessuale contro donne e uomini.
Questa è la tortura, dilagante e incontrollata, praticata in Uzbekistan contro centinaia di persone ogni anno, al momento dell'arresto, durante i trasferimenti, quando sono in attesa del processo e nei centri di detenzione. L'aveva già denunciata, 10 anni fa, l'ambasciatore britannico in quel paese, che per questo perse il posto.
Gli ex detenuti descrivono un quadro straziante delle condizioni di isolamento carcerario. Nelle piccole celle di cemento spesso non ci sono finestre né areazione. D'inverno, quando le temperature scendono sotto lo zero, non c'è riscaldamento. D'estate le celle sono soffocanti. Spesso non c'è spazio per il letto quindi ai detenuti viene portata una brandina stretta solo per la notte che viene poi tolta il mattino seguente. Durante il giorno, quindi, i detenuti devono accovacciarsi o sedersi sul pavimento di cemento.
Ieri, nell'ambito della campagna mondiale "Stop alla tortura" gli attivisti di Amnesty International in Austria, Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lettonia, Polonia, Regno Unito, Spagna e Svizzera hanno manifestato di fronte alle ambasciate dell'Uzbekistan (e a Roma anche al Circo Massimo) innalzando cartelloni con le scritte "Basta segreti e bugie. Stop alla tortura in Uzbekistan" e per chiedere il rilascio di Dilorom Abdukadirova, una prigioniera di coscienza condannata a 18 anni, in carcere nel 2010 per aver preso parte, cinque anni prima, alle proteste di Andijan in favore di migliori condizioni economiche, che le forze di sicurezza repressero con centinaia di morti, per lo più manifestanti pacifici.
L'Uzbekistan – un paese retto da una piccola élite, con al centro la famiglia presidenziale, che controlla le importanti riserve di oro, uranio e rame del paese e presiede l'industria miliardaria di cotone – non dispone di un meccanismo indipendente di controllo delle carceri e le organizzazioni internazionali per i diritti umani non possono entrare nel paese.
I difensori dei diritti umani, giornalisti e attivisti della società civile sono costantemente vessati e controllati dai funzionari di sicurezza. Le comunicazioni sono intercettate, le manifestazioni pacifiche e gli incontri con i diplomatici vengono ostacolati. Gli attivisti vengono picchiati dalla polizia e dagli agenti dei servizi segreti. I loro familiari e conoscenti sono costantemente minacciati di rappresaglie.
Per denunciare l'uso della tortura in Uzbekistan e chiedere all'Italia e all'Europa di sollevare il problema nelle relazioni bilaterali col paese centroasiatico, è in questi giorni a Roma Nadejda Atayeva, in esilio in Francia, presidente dell'associazione Human Rigths for Central Asia.
Oggi, Nadejda Atayeva sarà ospite a partire dalle 18 di una video-chat di Amnesty International, mentre venerdi 24 alle 17.30 prenderà parte a una conferenza sulla tortura alla libreria Fandango Incontro in via dei Prefetti 22.
di Riccardo Noury
Gli ex detenuti descrivono un quadro straziante delle condizioni di isolamento carcerario. Nelle piccole celle di cemento spesso non ci sono finestre né areazione. D'inverno, quando le temperature scendono sotto lo zero, non c'è riscaldamento. D'estate le celle sono soffocanti. Spesso non c'è spazio per il letto quindi ai detenuti viene portata una brandina stretta solo per la notte che viene poi tolta il mattino seguente. Durante il giorno, quindi, i detenuti devono accovacciarsi o sedersi sul pavimento di cemento.
Ieri, nell'ambito della campagna mondiale "Stop alla tortura" gli attivisti di Amnesty International in Austria, Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lettonia, Polonia, Regno Unito, Spagna e Svizzera hanno manifestato di fronte alle ambasciate dell'Uzbekistan (e a Roma anche al Circo Massimo) innalzando cartelloni con le scritte "Basta segreti e bugie. Stop alla tortura in Uzbekistan" e per chiedere il rilascio di Dilorom Abdukadirova, una prigioniera di coscienza condannata a 18 anni, in carcere nel 2010 per aver preso parte, cinque anni prima, alle proteste di Andijan in favore di migliori condizioni economiche, che le forze di sicurezza repressero con centinaia di morti, per lo più manifestanti pacifici.
L'Uzbekistan – un paese retto da una piccola élite, con al centro la famiglia presidenziale, che controlla le importanti riserve di oro, uranio e rame del paese e presiede l'industria miliardaria di cotone – non dispone di un meccanismo indipendente di controllo delle carceri e le organizzazioni internazionali per i diritti umani non possono entrare nel paese.
I difensori dei diritti umani, giornalisti e attivisti della società civile sono costantemente vessati e controllati dai funzionari di sicurezza. Le comunicazioni sono intercettate, le manifestazioni pacifiche e gli incontri con i diplomatici vengono ostacolati. Gli attivisti vengono picchiati dalla polizia e dagli agenti dei servizi segreti. I loro familiari e conoscenti sono costantemente minacciati di rappresaglie.
Per denunciare l'uso della tortura in Uzbekistan e chiedere all'Italia e all'Europa di sollevare il problema nelle relazioni bilaterali col paese centroasiatico, è in questi giorni a Roma Nadejda Atayeva, in esilio in Francia, presidente dell'associazione Human Rigths for Central Asia.
Oggi, Nadejda Atayeva sarà ospite a partire dalle 18 di una video-chat di Amnesty International, mentre venerdi 24 alle 17.30 prenderà parte a una conferenza sulla tortura alla libreria Fandango Incontro in via dei Prefetti 22.
di Riccardo Noury
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