Oggi a Palazzo Ducale la testimonianza di un ex condannato uzbeko nell'ambito di "Cities for Life" l'iniziativa contro la pena capitale
Marat Rachmanov che non sapeva di essere condannato a morte mise in moto l’auto – e il destino – una sera a Samarcanda, dopo una cena abbondante. Avevano mangiato e bevuto parecchio, a casa della sorella che non vedeva da un po’, da quando si era trasferito a Mosca e aveva trovato un lavoro nel ristorante dell’aeroporto. Così, quando l’amica di sua sorella gli ha chiesto un passaggio a casa per lei e suo figlio, gli sembrò scortese rispondere di no. La sua vita di prima è finita quella sera d’inverno, nel 1999, salutando la donna e il bambino che rientravano a casa. Il giorno dopo è l’inizio di un incubo macabro che non lo lascia nemmeno oggi che Marat ha 42 anni, ed è sopravvissuto a 13 mesi nel braccio della morte e a dieci anni di carcere uzbeko, in una cella di cinque passi per cinque: “Ho ricominciato tutto da zero, sono un miracolato – racconta lui, che oggi alle 17.45 sarà a Palazzo Ducale, nella Sala del Maggior Consiglio, per Cities for Life, la giornata promossa della Comunità di Sant’Egidio contro la pena di morte – eppure, è un ricordo che non si cancella. Per questo esco di casa presto e lavoro anche fino alle due di notte, in un forno industriale. Perché se ti fermi a pensare, anche un istante, torni lì dentro. In quella cella”.
L’incubo è iniziato quel mattino, con gli agenti davanti alla porta: perché la donna e il bambino che Marat aveva accompagnato a casa erano stati trovati morti, e la polizia uzbeka aveva già il suo colpevole. Lui. Condannato alla fucilazione. “Mi hanno picchiato, isolato, volevano che firmassi una confessione – racconta Marat, che oggi al Ducale parlerà della sua storia davanti al sindaco Marco Doria, a Luca Borzani, con Simona Merlo della Comunità di Sant’Egidio e Tamara Chikunova, fondatrice dell’associazione “Madri contro la pena di morte e la tortura” dopo aver perso suo figlio Dmitrij, di soli 20 anni – hanno anche arrestato mia sorella, rinchiusa in una cella accanto alla mia con suo figlio di un anno e mezzo: hanno minacciato di ritorcersi su di loro”.
I ricorsi dell’Ambasciata Russa in sua difesa (Marat aveva preso la cittadinanza di Mosca) sono stati respinti uno dopo l’altro. La condanna era già scritta: la cella pronta. Cinque passi per cinque, sottoterra, il pavimento di cemento. “Non potevamo lavarci, e non possiamo definire cibo quello che ci davano – ricorda Marat – quando c’era troppo sovraffollamento, acceleravano con le fucilazioni. Ti picchiano, ma il vero obiettivo è spezzarti dentro. Ma al tempo stesso fanno di tutto perché tu non ti uccida. Ti riducono a uno stato tale che non hai più volontà: all’inizio hai paura di morire, poi diventa indifferente. Poi lo desideri”. Fino a quando, nella vita di Marat entra Tamara Chikunova, contattata dalla sorella. Che insieme alla Comunità di Sant’Egidio inizia la sua battaglia, che ha portato alla cancellazione della pena di morte in Uzbekistan il primo gennaio del 2008 e alla salvezza di più di 90 condannati a morte. Tra questi c’era Marat Rachmanov. La pena viene commutata in dieci anni nel carcere di Namangan. “Quando sono uscito, la prima cosa che ho fatto è stata dormire. Ho dormito per due giorni di fila”. Oggi, Marat si è laureato. Ha due bambini, una femmina di due anni e un maschio di cinque. Una vita. E incubi che non lo lasciano mai. Non è mai più tornato in Uzbekistan.
L’incubo è iniziato quel mattino, con gli agenti davanti alla porta: perché la donna e il bambino che Marat aveva accompagnato a casa erano stati trovati morti, e la polizia uzbeka aveva già il suo colpevole. Lui. Condannato alla fucilazione. “Mi hanno picchiato, isolato, volevano che firmassi una confessione – racconta Marat, che oggi al Ducale parlerà della sua storia davanti al sindaco Marco Doria, a Luca Borzani, con Simona Merlo della Comunità di Sant’Egidio e Tamara Chikunova, fondatrice dell’associazione “Madri contro la pena di morte e la tortura” dopo aver perso suo figlio Dmitrij, di soli 20 anni – hanno anche arrestato mia sorella, rinchiusa in una cella accanto alla mia con suo figlio di un anno e mezzo: hanno minacciato di ritorcersi su di loro”.
I ricorsi dell’Ambasciata Russa in sua difesa (Marat aveva preso la cittadinanza di Mosca) sono stati respinti uno dopo l’altro. La condanna era già scritta: la cella pronta. Cinque passi per cinque, sottoterra, il pavimento di cemento. “Non potevamo lavarci, e non possiamo definire cibo quello che ci davano – ricorda Marat – quando c’era troppo sovraffollamento, acceleravano con le fucilazioni. Ti picchiano, ma il vero obiettivo è spezzarti dentro. Ma al tempo stesso fanno di tutto perché tu non ti uccida. Ti riducono a uno stato tale che non hai più volontà: all’inizio hai paura di morire, poi diventa indifferente. Poi lo desideri”. Fino a quando, nella vita di Marat entra Tamara Chikunova, contattata dalla sorella. Che insieme alla Comunità di Sant’Egidio inizia la sua battaglia, che ha portato alla cancellazione della pena di morte in Uzbekistan il primo gennaio del 2008 e alla salvezza di più di 90 condannati a morte. Tra questi c’era Marat Rachmanov. La pena viene commutata in dieci anni nel carcere di Namangan. “Quando sono uscito, la prima cosa che ho fatto è stata dormire. Ho dormito per due giorni di fila”. Oggi, Marat si è laureato. Ha due bambini, una femmina di due anni e un maschio di cinque. Una vita. E incubi che non lo lasciano mai. Non è mai più tornato in Uzbekistan.
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