Nuovi dati evidenziano la situazione dei Rohingya, oltre un milione di individui, etnia apolide che vive un’esistenza stentata e perseguitata nello stato orientale birmano di Rakhine e, a centinaia di migliaia, nei campi profughi in Bangladesh.
Tuttavia, soprattutto a causa delle persecuzioni, incentivate anche da elementi radicali buddhisti, che hanno ripreso vigore dal giugno 2012, in numero crescente i Rohingya cercano un’esistenza meno precaria nella fuga per mare. Facilitata anche questa in modo sempre più massiccio, da organizzazioni di trafficanti con la connivenza delle autorità birmane e dei paesi lungo la rotta.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur/Unhcr), dall’inizio dell’anno 53.000 rohingya hanno tentato il difficile viaggio via nave con destinazione soprattutto le coste malesi oppure quelle thailandesi, da cui proseguire via terra verso la Malesia, paese ritenuto accogliente perché di fede musulmana come i fuggiaschi e verso, in misura minore, la pure musulmana Indonesia o la lontana e non più accogliente Australia.
Dei 50.000 partiti dalle aree di frontiera tra Myanmar e Bangladesh, un numero maggiore di almeno il 15% rispetto a quello dello stesso periodo dell’anno precedente, ma almeno 21.000 negli ultimi due mesi, una crescita del 37% se il dato è confrontato con l’ottobre-novembre 2013. I restanti 3000 sono invece partiti dalla costa di Sittwe, capoluogo dello stato Rakhine, più a Sud.
Si calcola che complessivamente dal gennaio 2012 si siano imbarcati in 120.000, spinti anche dalle tensioni e dalle violenze che hanno evidenziato pure la non volontà del governo di Naypiydaw di integrarli concedendo loro la cittadinanza birmana. A incentivare l’esodo è appunto l’organizzazione dei viaggi sempre più in mano a bande internazionali che lucrano da 1300 a 2000 euro per ogni passeggero, con un giro d’affari annuo stimato ormai in 75 milioni di euro.
A questo si associa la precarietà delle condizioni di viaggio. Un itinerario che per molti si ferma lungo il percorso, ceduti a gruppi malavitosi locali che ne fanno manovalanza per attività illegali oppure per industrie, come quella della pesca, scarsamente tutelate, ma con una elevata percentuale di lavoro schiavo. Molti altri finiscono per essere abbandonati in mare oppure su coste da cui vengono respinti.
L’Acnur, che ha condotto il suo studio anche attraverso interviste a Rohingya che hanno tentato il passaggio via mare, stima che siano 540 coloro che quest’anno sono morti durante la traversata: “Decessi attribuiti alle percose da parte dell’equipaggio, a mancanza di cibo e acqua, per malattia o caldo”, in alcuni casi anche per il tentativo di sfuggire ai trafficanti e alle violenze gettandosi in mare.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur/Unhcr), dall’inizio dell’anno 53.000 rohingya hanno tentato il difficile viaggio via nave con destinazione soprattutto le coste malesi oppure quelle thailandesi, da cui proseguire via terra verso la Malesia, paese ritenuto accogliente perché di fede musulmana come i fuggiaschi e verso, in misura minore, la pure musulmana Indonesia o la lontana e non più accogliente Australia.
Dei 50.000 partiti dalle aree di frontiera tra Myanmar e Bangladesh, un numero maggiore di almeno il 15% rispetto a quello dello stesso periodo dell’anno precedente, ma almeno 21.000 negli ultimi due mesi, una crescita del 37% se il dato è confrontato con l’ottobre-novembre 2013. I restanti 3000 sono invece partiti dalla costa di Sittwe, capoluogo dello stato Rakhine, più a Sud.
Si calcola che complessivamente dal gennaio 2012 si siano imbarcati in 120.000, spinti anche dalle tensioni e dalle violenze che hanno evidenziato pure la non volontà del governo di Naypiydaw di integrarli concedendo loro la cittadinanza birmana. A incentivare l’esodo è appunto l’organizzazione dei viaggi sempre più in mano a bande internazionali che lucrano da 1300 a 2000 euro per ogni passeggero, con un giro d’affari annuo stimato ormai in 75 milioni di euro.
A questo si associa la precarietà delle condizioni di viaggio. Un itinerario che per molti si ferma lungo il percorso, ceduti a gruppi malavitosi locali che ne fanno manovalanza per attività illegali oppure per industrie, come quella della pesca, scarsamente tutelate, ma con una elevata percentuale di lavoro schiavo. Molti altri finiscono per essere abbandonati in mare oppure su coste da cui vengono respinti.
L’Acnur, che ha condotto il suo studio anche attraverso interviste a Rohingya che hanno tentato il passaggio via mare, stima che siano 540 coloro che quest’anno sono morti durante la traversata: “Decessi attribuiti alle percose da parte dell’equipaggio, a mancanza di cibo e acqua, per malattia o caldo”, in alcuni casi anche per il tentativo di sfuggire ai trafficanti e alle violenze gettandosi in mare.
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