La Stampa
L’Egitto si muove, ma chi è abituato a leggere i terremoti geopolitici fatica ancora una volta a prevedere direzione e intensità di questo nuovo sisma. Mentre le tv moltiplicano la storia dell’imminente liberazione del giornalista di al Jazeera Mohamed Fahmy che ha rinunciato alla cittadinanza egiziana per ottenere il rilascio dopo oltre 400 giorni di cella (il suo collega Peter Greste è stato rimandato in Canada domenica mentre resta ancora incerta la sorte del producer Baher Mohamed arrestato con loro con l’accusa di “spionaggio a favore dei Fratelli Musulmani”), al Cairo rimbomba l’eco dell’ennesima bomba.
Non ci sarebbero feriti nell’esplosione di stamattina a Downtown e neppure in quella simultanea nei pressi dell’aeroporto internazionale, ma l’instabilità e la minaccia di attentati stanno diventando una costante in Egitto al punto che sugli smartphone gira l’applicazione “beyolak” per avvertire il rischio e la prossimità di un ordigno.
Il bilancio delle vittime dell’ultima settimana racconta come stia traballando l’Egitto. Almeno 50 soldati morti in Sinai, 3 poliziotti uccisi, decine di arresti nel quarto anniversario della rivoluzione contro Mubarak (da metà 2013 a oggi sono state arrestate 41 mila persone), la morte dell’attivista socialista Shaimaa al Sabbagh uccisa dai proiettili degli agenti antisommossa mentre manifestava pacificamente in ricordo dei martiri del 2011. Nel frattempo, sullo sfondo, lo scagionamento dell’ex Faraone e dei suoi figli, la morte del re saudita che più di chiunque aveva sostenuto il presidente el Sisi, una lieve ripresa del turismo dagli effetti praticamente irrilevanti sullo stato comatoso dell’economia.
Cosa sta accadendo in Egitto e soprattutto cosa accadrà? Il presidente Sisi è andato a Davos a spiegare ai potenti della terra che sì, il suo paese non è oggi esattamente il paradiso dei diritti umani ma che ci vuole tempo, perché la deposizione del suo predecessore Morsi e la messa al bando dei Fratelli Musulmani (sommate a una repressione senza eguali) hanno scatenato la follia islamista attizzando quel terrorismo che ormai anche l’Europa conosce bene grazie agli orrori firmati Stato Islamico. Per rafforzare le sue argomentazioni Sisi aveva già parlato al cospetto dei sapienti di al Ahzar, il Vaticano sunnita, invocando una riforma dell’islam e ora uno dei grandi sacerdoti della stessa al Ahzar ammette a Mehwer TV che insegnare “correttamente” l’islam è fondamentale per il futuro. La barbarie messa in piedi sotto il nome di Califfato serve a Sisi da sponda per spiegare la battaglia che combatte internamente (ieri tra le proteste di Amnesty International sono state pronunciate altre 183 sentenze di condanna a morte).
Se l’epicentro della minaccia terrorista è in Siria e in Iraq il Sinai è una polveriera che gioca in squadra con gli uomini neri di al Baghdadi. Un rapporto del quotidiano al Masry al Youm rivela che lo jihadista egiziano “Abu Obeda” starebbe raccogliendo soldi a palate per la Siria. Il contesto è una frontiera di guerra che il nuovo regime egiziano combatte a tutto campo: se la maggior parte dei 41 mila detenuti di cui traboccano le carceri è composta da simpatizzanti dei Fratelli Musulmani (29 mila) tutti gli altri sono attivisti liberal con la sola colpa di aver criticato la repressione (tra loro c’è il fondatore del movimento “6 aprile” Ahmed Maher condannato a 3 anni di prigione). E c’è Shaimaa, la cui foto morente tra le braccia dell’amico, ha fatto e sta facendo il giro del mondo mettendo il regime di fronte allo specchio della sua brutalità.
Quel che si augurano gli attivisti ancora “vivi” nella speranza di alimentare la rivoluzione con la respirazione bocca a bocca è che Sisi abbia bisogno del mondo occidentale e che l’occidente, diversamente dal passato, gli chieda conto del rispetto dei diritti umani in cambio dell’aiuto economico di cui ha urgente bisogno. Alle spalle dell’Egitto di Sisi c’è sempre stato il Golfo capitanato dall’Arabia Saudita ma la nuova reggenza potrebbe portare dei piccoli cambiamenti negli equilibri regionali. C’è chi nota infatti che il vecchio re si era speso molto nel ridimensionare le ambizioni del Qatar (vicino ai Fratelli Musulmani così come la tv al Jazeera) ma che il nuovo, Salman, potrebbe avere maggiore feeling con Doha e con la Turchia (entrambi nemiche di Sisi).
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