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mercoledì 1 aprile 2015

Israele vuole modificare la legge anti-immigrazione per consentire partenze di rifugiati senza consenso

Nena News
Secondo il quotidiano israeliano Ha’Aretz, l’autorità dell’emigrazione sta pensando ad una nuova modifica sulla legge anti-immigrazione che consentirà le “partenze” di eritrei e sudanesi verso paesi africani senza il loro consenso.
Roma - L’autorità israeliana della popolazione e dell’emigrazione sta pensando di espellere gli eritrei e i sudanesi senza il loro consenso. A rivelarlo stamane è il giornale israeliano Ha’Aretz. Finora, precisa il quotidiano, Tel Aviv aveva esercitato sugli immigrati forti pressioni affinché lasciassero lo stato ebraico per fare ritorno ai loro paesi di origine o a nazioni terze africane, ma non li aveva mai ufficialmente espulsi. Gli eritrei e i sudanesi, infatti, avevano firmato documenti in cui dichiaravano che la loro scelta era stata “spontanea”.
Negli ultimi mesi, però, la situazione sembra essere cambiata. Alti esponenti dell’autorità israeliana addetta all’immigrazione e alcuni rappresentati del dipartimento di giustizia stanno discutendo una modifica alla politica migratoria israeliana secondo la quale non vi è alcun impedimento dal punto di vista legale nell’obbligare i cittadini eritrei e sudanesi a lasciare Israele per recarsi in paesi terzi. In questa prima fase, riferisce Ha’Aretz, gli stati in cui andranno gli espulsi dovrebbero essere Uganda e Ruanda. La modifica pensata dall’autorità dell’emigrazione starebbe aspettando solo l’approvazione del ministro degli Interni che, se dovessero essere confermate le indiscrezioni di questi giorni, sarà Arye Der’i, il capo di Shas (partito ultraortodosso sefardita).

Il trasferimento forzato che Tel Aviv vorrebbe mettere in atto non sorprende più di tanto.Già due mesi fa infatti, durante la seduta d’appello delle organizzazioni umanitarie contro l’ultima versione della legge “anti-infiltrati”, il rappresentate dello stato, l’avvocato Yochi Gansin, aveva proposto ai richiedenti asilo il trasferimento in Canada aggiungendo che, se ciò avvenisse, gli immigrati non avrebbero alcun diritto ad opporsi. “Un uomo – spiegò allora Gansin – che riceve un allontanamento per uno stato terzo in cui non è in pericolo di vita né viene privato della libertà, non ha diritto di veto”.

In Israele risiedono al momento 42.000 eritrei e sudanesi. Di questi, 2.000 sono rinchiusi nella “struttura aperta” (secondo la definizione di Tel Aviv) di Holot nel deserto del Neghev. Secondo i dati forniti dal governo al Tribunale superiore israeliano, nel 2014 5.803 immigrati hanno “preferito” lasciare lo stato ebraico. 1093 di loro hanno scelto stati terzi, cioè non di origine. Finora lo stato ebraico non ha rivelato quali sarebbero le nazioni in cui andrebbero gli espulsi. Fonti giornalistiche locali indicano il Ruanda e Uganda. “Si parla – ha detto due mesi fa il governo rispondendo ad un reclamo delle organizzazioni per i diritti umani locali – di accordi che consentono una uscita sicura verso due paesi terzi”.

L’Onu obbliga gli stati a rendere pubblici gli accordi di trasferimento dei richiedenti asilo in modo da garantirne il rispetto dei loro diritti. Lo stato che espelle gli immigrati, inoltre, deve accertarsi che essi siano tutelati nel nuovo paese di accoglienza. Israele, invece, ha mantenuto (e continua a mantenere) una certa segretezza riguardo agli accordi stipulati con gli stati che assorbiranno gli eritrei e i sudanesi. Secondo le testimonianze di alcuni immigrati che sono partiti per il Ruanda e l’Angola lo stato ebraico non si interesserebbe di loro una volta che hanno lasciato Israele.

“Tel Aviv non rivela i termini degli accordi firmati con i governi dei paesi in cui arriveranno gli immigrati, e, in realtà, dubito che tali patti vengano messi per iscritto. Gli stessi stati negano che ci siano delle intese” ha denunciato Oded Peler, capo del reparto emigrazione dell’associazione dei diritti del cittadino. “Loro [gli immigrati] – continua Peler – sono accolti nei paesi terzi senza avere uno status giuridico né una rassicurazione che non verranno rispediti nei loro paesi d’origine [in cui è a rischio la loro vita]. Israele deve dire pubblicamente quale sono gli obblighi che devono rispettare i paesi d’accoglienza per difendere coloro che sono stati espulsi [dallo stato ebraico] e quale è il prezzo che Israele paga per potersi disfare dei [suoi] richiedenti asilo – in soldi, in armi o in altri modi”.

Da quando è stata aperta la struttura di Holot nel dicembre 2013, il governo Netanyahu ha esercitato forti pressioni affinché i sudanesi e gli eritrei (chiamati “infiltrati” dal governo e dalla maggior parte della stampa locale) lasciassero lo stato ebraico. Nel tentativo di allontanarli, il governo Netanyahu ha reso la loro vita infernale: li ha mandati nei centri di detenzione, ha procrastinato le loro richieste d’asilo (o le ha ignorate del tutto), ha aumentato gli ostacoli per il rilascio del rinnovo dei permessi di soggiorno temporanei. Documenti indispensabili per trovare lavoro e per non essere sotto costante minaccia di arresto. Contemporaneamente, inoltre, Israele ha aumentato a 3.500 dollari il compenso per chi decideva di andarsene dallo stato ebraico “di propria volontà”. Espulsi o partiti “spontaneamente”, mala tempora currunt per gli “infiltrati” in Israele.

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