Mi chiamo Fasîh.
Il significato del mio nome, che in arabo si scrive così: فصيح, è: "eloquente, dal linguaggio comprensibile".
Per questo motivo vorrei parlarvi in modo semplice e chiaro.
Ho 20 anni, sono mussulmano.
Parlo bene due lingue: il Tigrino e l’Arabo. Un po’ di inglese l’ho imparato a scuola.
Nel mio paese, l’Eritrea, stavo male. Non riuscivo a vedere alcun futuro lì.
Andavo sempre nell’internet point vicino casa mia, dove stavo ore davanti al computer. Mi passavano davanti tutte le fotografie che, quelli andati via, mettevano su facebook. Queste immagini piene di luce, li mostravano belli, felici e sorridenti, mentre mi guardavano dalle splendide città della Germania, della Svezia o della Norvegia.
Sembrava che mi dicessero: “Vedi? Noi ci siamo riusciti! Con coraggio e sacrificio abbiamo fatto il “grande salto” e abbiamo realizzato tutti i nostri sogni! Tu che fai ancora lì? Nessuno è mai vissuto due volte… Non sprecare i tuoi anni migliori, quelli non torneranno più indietro…”.
Non ci dormivo la notte, passavo le ore a pensare incessantemente ad un’unica cosa: “Io sono sprecato quaggiù…”. La mia città, la zona dove abitavo, la mia stessa casa, le sentivo come una prigione. Le odiavo con tutto me stesso.
Così presi anch’io “la decisione”. Parlai con i miei genitori. Mia madre si mise a piangere. Mio padre disse: “Prima o poi doveva succedere”.
Nel giro di un paio di mesi raccolsi tra i miei parenti i soldi necessari. Al momento giusto preparai un bagaglio con le cose essenziali e, quando fui pronto, feci il giro di tutte le persone che conoscevo per salutarle.
Tutti mi augurarono: “Buona fortuna!”.
Nessuno di loro mi disse frasi del tipo: “Ti prego resta!”, “Sentirò la tua mancanza!”, “Come faremo senza di te?”.
Eravamo abituati a queste situazioni. Era normale. Prima o poi tutti l'avrebbero fatto.
Riflettendoci, solo ora sto iniziando a capire he tra noi c’era una strana forma di affetto; qualcosa di simile a quello strano legame che si crea tra compagni di prigionia. Ci si aiuta e si solidarizza fino a che la sorte ci tiene insieme. Poi arriva il giorno o l’occasione per lasciare tutto, ci si saluta, ci si abbraccia e via! Ognuno verso il suo destino!
I legami duraturi, quelli che t’incastrano tutta la vita, sono cose da europei. Sono cose da gente che sta bene e se lo può permettere. Quelli come noi destinati fin dalla nascita a compiere “il grande salto”, sanno che devono mantenersi “leggeri”, per non lasciarsi nulla alle spalle, né persone, né cose. Nessuna zavorra. Niente che possa generare nostalgia, rimpianto o voglia di tornare indietro.
Non vi annoierò, raccontandovi i dettagli del mio lunghissimo e massacrante viaggio fino alle coste del Mediterraneo.
Non vi dirò nulla dei lunghi giorni trascorsi lungo le rotte dei trafficanti dal Sud Sudan, fino a Karthoum. Né vi parlerò dei lavori da schiavo che ho dovuto fare nella capitale sudanese per racimolare, centesimo a centesimo, la somma necessaria per pagarmi il viaggio fino in Libia.
Non basterebbe un libro per descrivere quel groviglio si sentimenti angosciosi provato stando sopra a quel pick-up stracolmo di ragazzi come me, provenienti da tutta l’Africa nera, che dal Sudan ci ha condotti fino in Libia. Vi risparmio questa parte della storia perché dovrei raccontarvi anche di quei cinque morti durante quel viaggio. Si ammalarono a causa delle escursioni termiche dal giorno alla notte, tipiche del deserto libico. Erano già deboli alla partenza e morirono così, semplicemente, uno alla volta. Furono buttati e abbandonati come stracci vecchi, lì in mezzo deserto. I loro cadaveri andarono a sommarsi a quelli, oramai decomposti, dei tanti che erano stati lasciati nei viaggi che ci avevano preceduto. Nessun gesto di pietà per loro. Nessuna carezza. Nessuna sepoltura Nessuna preghiera.
Chi fa il “grande salto” deve andare sempre avanti, guai a fermarsi, guai a voltarsi indietro, neanche per un solo istante. Neanche per i morti c'è tempo.
Poi la Libia. Speravamo di avercela fatta, ma quelli che ci organizzarono il viaggio ci vendettero ai poliziotti locali che subito ci sbatterono in carcere. Altri mesi assurdi chiusi in un luogo che a definirlo un inferno gli si farebbe un complimento. Ci lasciarono i cellulari però. Così chiamammo i nostri familiari che attraverso il Money Transfer ci mandarono altri soldi. Servirono a pagare quelle belve col distintivo feroci e affamate che, come vili sciacalli, sono capaci di accanirsi solo sui cadaveri già spolpati quali eravamo noi.
Quando furono sazi dei soldi che gli avevamo fatto arrivare, ci lasciarono andare al nostro destino.
Altri soldi servirono per pagare i proprietari quel barcone scricchiolante che salpò dalle coste della Libia, verso l’Europa, verso l’Italia, verso la Sicilia.
Il viaggio era lungo, il barcone, pur pieno zeppo di gente ben oltre il limite consentito, andava avanti mantenendo la rotta; il mare era abbastanza buono, anche se dopo un po' in parecchi dallo stomaco debole iniziarono a vomitare quel poco di cui si erano nutriti.
La traversata durò quasi quattro giorni.
Non ci fecero mangiare nulla e, dopo due giorni e mezzo, non avevamo più acqua. Chi soffriva il mal di mare, non avendo più nulla sullo stomaco da vomitare, iniziò a sputare i succhi gastrici, lasciando tutt'intorno uno sgradevole odore di acido.
Era già notte fonda quando, oramai stremati, vedemmo da lontano le luci provenienti dalla costa della Sicilia.
Stavamo per esultare quando udimmo le urla dei trafficanti. Spararono in aria alcuni colpi di kalashnikov e ci ordinarono di saltare in mare. Probabilmente avevano intercettato alla radio la presenza di una vedetta della Guardia Costiera Italiana e si impaurirono.
Provammo a resistere a quest’ordine incredibile; provammo a dire che li avevamo pagati bene e avevamo diritto ad essere portati fino alla riva secondo i patti. Ma loro erano armati. Ci spararono addosso, alcuni furono colpiti e caddero come sacchi di patate.
Fummo costretti a saltare in acqua. In vari non sapevano nuotare e affogarono quasi subito. Io sapevo tenermi un pò a galla e iniziai a dibattermi tra le onde.
Ma la costa era lontanissima e dopo un po’, mi vennero i crampi e sentivo di non farcela più. Sopraffatto dalla stanchezza, iniziai ad invocare il nome di Allah con tutto il fiato che mi restava. Dopo un po’ sentii braccia e gambe diventare pesantissime. Senza smettere di pregare chiusi gli occhi e mi lasciai andare. Sentii il mare che lentamente mi inghiottiva. Si stava compiendo il mio destino. Avevo fatto anche io il “grande salto”. Non era andata come desideravo, ma almeno ci avevo provato.
Scendevo sempre più giù sempre più senza forze, quando all’improvviso sentii un colpo e una forte spinta sulla schiena che mi riportò con la testa fuori dall’acqua.
Ripresi fiato sputando fuori il liquido salato che avevo ingoiato. Mi resi conto che questa spinta oltre a tenermi a galla mi spingeva velocemente verso la costa. Vidi le luci della Sicilia farsi sempre più vicine mentre questa misteriosa spinta, alla quale non osavo opporre alcuna resistenza, continuava.
Quest’aiuto inaspettato mi portò fino al punto dove l’acqua si abbassava permettendomi di toccare il fondo in punta di piedi. Quando la spinta finì, avanzai un po’ fino a quando potevo con sicurezza tenere la testa fuori dall’acqua.
Stava spuntando il giorno.
Udii un suono strano, una specie di grido acuto.
Mi voltai. Riuscii a vedere la testa di un delfino che sembrava osservarmi incuriosito. Realizzai che era stato lui a spingermi fino a riva. Il delfino fece alcuni salti vicino a me e velocemente si allontanò scomparendo alla mia vista. Forse i salti furono il suo modo di salutarmi.
Ero stupefatto.
Una volta su internet avevo letto qualcosa circa la superiore intelligenza dei delfini e di vari casi di salvataggi di gente che stava affogando in alto mare operati da questi straordinari animali.
Ero stato salvato da un delfino! L’unico essere vivente che in quel lunghissimo e allucinante viaggio ebbe un istinto di compassione per me! Mi misi a piangere. Piansi e urlai fino a quando giunsi a riva. Mi sdraiai sul bagnasciuga esausto. Il mio cervello non smetteva di pensare. Pensai tanto. Fino a giungere alla conclusione più logica.
No, quello non era un delfino, era qualcos’altro; quello era un angelo inviato dall'alto a salvarmi.
Allah, il Clemente e Misericordioso, che sia Benedetto in eterno il suo Nome, aveva ascoltato la mia preghiera mentre stavo affogando. Il mio grido di aiuto era giunto a Lui e si era impietosito.
Per questo aveva inviato quell’aiuto non sperato. Dovevo compiere un gesto di gratitudine.
Mi inginocchiai e recitai con la fronte in terra, tutte le sure del Sacro Corano che conoscevo a memoria, quelle che avevo imparato fin da bambino quando accompagnavo mio padre alla moschea e provavo a seguire i gesti che facevano i grandi.
Mi rialzai. Ero tutto bagnato. Guardai davanti a me. La meta era ancora lontana. Era ancora lunga la strada da fare. Una rinnovata energia si impossessò del mio corpo. Mi sentivo forte e senza paura. Ero stato beneficato. Ora ero sicuro di potercela fare. Nulla poteva più fermarmi.
Il “grande salto” si stava compiendo.
Europa! Europa! Europa….
Per questo motivo vorrei parlarvi in modo semplice e chiaro.
Ho 20 anni, sono mussulmano.
Parlo bene due lingue: il Tigrino e l’Arabo. Un po’ di inglese l’ho imparato a scuola.
Nel mio paese, l’Eritrea, stavo male. Non riuscivo a vedere alcun futuro lì.
Andavo sempre nell’internet point vicino casa mia, dove stavo ore davanti al computer. Mi passavano davanti tutte le fotografie che, quelli andati via, mettevano su facebook. Queste immagini piene di luce, li mostravano belli, felici e sorridenti, mentre mi guardavano dalle splendide città della Germania, della Svezia o della Norvegia.
Sembrava che mi dicessero: “Vedi? Noi ci siamo riusciti! Con coraggio e sacrificio abbiamo fatto il “grande salto” e abbiamo realizzato tutti i nostri sogni! Tu che fai ancora lì? Nessuno è mai vissuto due volte… Non sprecare i tuoi anni migliori, quelli non torneranno più indietro…”.
Non ci dormivo la notte, passavo le ore a pensare incessantemente ad un’unica cosa: “Io sono sprecato quaggiù…”. La mia città, la zona dove abitavo, la mia stessa casa, le sentivo come una prigione. Le odiavo con tutto me stesso.
Così presi anch’io “la decisione”. Parlai con i miei genitori. Mia madre si mise a piangere. Mio padre disse: “Prima o poi doveva succedere”.
Nel giro di un paio di mesi raccolsi tra i miei parenti i soldi necessari. Al momento giusto preparai un bagaglio con le cose essenziali e, quando fui pronto, feci il giro di tutte le persone che conoscevo per salutarle.
Tutti mi augurarono: “Buona fortuna!”.
Nessuno di loro mi disse frasi del tipo: “Ti prego resta!”, “Sentirò la tua mancanza!”, “Come faremo senza di te?”.
Eravamo abituati a queste situazioni. Era normale. Prima o poi tutti l'avrebbero fatto.
Riflettendoci, solo ora sto iniziando a capire he tra noi c’era una strana forma di affetto; qualcosa di simile a quello strano legame che si crea tra compagni di prigionia. Ci si aiuta e si solidarizza fino a che la sorte ci tiene insieme. Poi arriva il giorno o l’occasione per lasciare tutto, ci si saluta, ci si abbraccia e via! Ognuno verso il suo destino!
I legami duraturi, quelli che t’incastrano tutta la vita, sono cose da europei. Sono cose da gente che sta bene e se lo può permettere. Quelli come noi destinati fin dalla nascita a compiere “il grande salto”, sanno che devono mantenersi “leggeri”, per non lasciarsi nulla alle spalle, né persone, né cose. Nessuna zavorra. Niente che possa generare nostalgia, rimpianto o voglia di tornare indietro.
Non vi annoierò, raccontandovi i dettagli del mio lunghissimo e massacrante viaggio fino alle coste del Mediterraneo.
Non vi dirò nulla dei lunghi giorni trascorsi lungo le rotte dei trafficanti dal Sud Sudan, fino a Karthoum. Né vi parlerò dei lavori da schiavo che ho dovuto fare nella capitale sudanese per racimolare, centesimo a centesimo, la somma necessaria per pagarmi il viaggio fino in Libia.
Non basterebbe un libro per descrivere quel groviglio si sentimenti angosciosi provato stando sopra a quel pick-up stracolmo di ragazzi come me, provenienti da tutta l’Africa nera, che dal Sudan ci ha condotti fino in Libia. Vi risparmio questa parte della storia perché dovrei raccontarvi anche di quei cinque morti durante quel viaggio. Si ammalarono a causa delle escursioni termiche dal giorno alla notte, tipiche del deserto libico. Erano già deboli alla partenza e morirono così, semplicemente, uno alla volta. Furono buttati e abbandonati come stracci vecchi, lì in mezzo deserto. I loro cadaveri andarono a sommarsi a quelli, oramai decomposti, dei tanti che erano stati lasciati nei viaggi che ci avevano preceduto. Nessun gesto di pietà per loro. Nessuna carezza. Nessuna sepoltura Nessuna preghiera.
Chi fa il “grande salto” deve andare sempre avanti, guai a fermarsi, guai a voltarsi indietro, neanche per un solo istante. Neanche per i morti c'è tempo.
Poi la Libia. Speravamo di avercela fatta, ma quelli che ci organizzarono il viaggio ci vendettero ai poliziotti locali che subito ci sbatterono in carcere. Altri mesi assurdi chiusi in un luogo che a definirlo un inferno gli si farebbe un complimento. Ci lasciarono i cellulari però. Così chiamammo i nostri familiari che attraverso il Money Transfer ci mandarono altri soldi. Servirono a pagare quelle belve col distintivo feroci e affamate che, come vili sciacalli, sono capaci di accanirsi solo sui cadaveri già spolpati quali eravamo noi.
Quando furono sazi dei soldi che gli avevamo fatto arrivare, ci lasciarono andare al nostro destino.
Altri soldi servirono per pagare i proprietari quel barcone scricchiolante che salpò dalle coste della Libia, verso l’Europa, verso l’Italia, verso la Sicilia.
Il viaggio era lungo, il barcone, pur pieno zeppo di gente ben oltre il limite consentito, andava avanti mantenendo la rotta; il mare era abbastanza buono, anche se dopo un po' in parecchi dallo stomaco debole iniziarono a vomitare quel poco di cui si erano nutriti.
La traversata durò quasi quattro giorni.
Non ci fecero mangiare nulla e, dopo due giorni e mezzo, non avevamo più acqua. Chi soffriva il mal di mare, non avendo più nulla sullo stomaco da vomitare, iniziò a sputare i succhi gastrici, lasciando tutt'intorno uno sgradevole odore di acido.
Era già notte fonda quando, oramai stremati, vedemmo da lontano le luci provenienti dalla costa della Sicilia.
Stavamo per esultare quando udimmo le urla dei trafficanti. Spararono in aria alcuni colpi di kalashnikov e ci ordinarono di saltare in mare. Probabilmente avevano intercettato alla radio la presenza di una vedetta della Guardia Costiera Italiana e si impaurirono.
Provammo a resistere a quest’ordine incredibile; provammo a dire che li avevamo pagati bene e avevamo diritto ad essere portati fino alla riva secondo i patti. Ma loro erano armati. Ci spararono addosso, alcuni furono colpiti e caddero come sacchi di patate.
Fummo costretti a saltare in acqua. In vari non sapevano nuotare e affogarono quasi subito. Io sapevo tenermi un pò a galla e iniziai a dibattermi tra le onde.
Ma la costa era lontanissima e dopo un po’, mi vennero i crampi e sentivo di non farcela più. Sopraffatto dalla stanchezza, iniziai ad invocare il nome di Allah con tutto il fiato che mi restava. Dopo un po’ sentii braccia e gambe diventare pesantissime. Senza smettere di pregare chiusi gli occhi e mi lasciai andare. Sentii il mare che lentamente mi inghiottiva. Si stava compiendo il mio destino. Avevo fatto anche io il “grande salto”. Non era andata come desideravo, ma almeno ci avevo provato.
Scendevo sempre più giù sempre più senza forze, quando all’improvviso sentii un colpo e una forte spinta sulla schiena che mi riportò con la testa fuori dall’acqua.
Ripresi fiato sputando fuori il liquido salato che avevo ingoiato. Mi resi conto che questa spinta oltre a tenermi a galla mi spingeva velocemente verso la costa. Vidi le luci della Sicilia farsi sempre più vicine mentre questa misteriosa spinta, alla quale non osavo opporre alcuna resistenza, continuava.
Quest’aiuto inaspettato mi portò fino al punto dove l’acqua si abbassava permettendomi di toccare il fondo in punta di piedi. Quando la spinta finì, avanzai un po’ fino a quando potevo con sicurezza tenere la testa fuori dall’acqua.
Stava spuntando il giorno.
Udii un suono strano, una specie di grido acuto.
Mi voltai. Riuscii a vedere la testa di un delfino che sembrava osservarmi incuriosito. Realizzai che era stato lui a spingermi fino a riva. Il delfino fece alcuni salti vicino a me e velocemente si allontanò scomparendo alla mia vista. Forse i salti furono il suo modo di salutarmi.
Ero stupefatto.
Una volta su internet avevo letto qualcosa circa la superiore intelligenza dei delfini e di vari casi di salvataggi di gente che stava affogando in alto mare operati da questi straordinari animali.
Ero stato salvato da un delfino! L’unico essere vivente che in quel lunghissimo e allucinante viaggio ebbe un istinto di compassione per me! Mi misi a piangere. Piansi e urlai fino a quando giunsi a riva. Mi sdraiai sul bagnasciuga esausto. Il mio cervello non smetteva di pensare. Pensai tanto. Fino a giungere alla conclusione più logica.
No, quello non era un delfino, era qualcos’altro; quello era un angelo inviato dall'alto a salvarmi.
Allah, il Clemente e Misericordioso, che sia Benedetto in eterno il suo Nome, aveva ascoltato la mia preghiera mentre stavo affogando. Il mio grido di aiuto era giunto a Lui e si era impietosito.
Per questo aveva inviato quell’aiuto non sperato. Dovevo compiere un gesto di gratitudine.
Mi inginocchiai e recitai con la fronte in terra, tutte le sure del Sacro Corano che conoscevo a memoria, quelle che avevo imparato fin da bambino quando accompagnavo mio padre alla moschea e provavo a seguire i gesti che facevano i grandi.
Mi rialzai. Ero tutto bagnato. Guardai davanti a me. La meta era ancora lontana. Era ancora lunga la strada da fare. Una rinnovata energia si impossessò del mio corpo. Mi sentivo forte e senza paura. Ero stato beneficato. Ora ero sicuro di potercela fare. Nulla poteva più fermarmi.
Il “grande salto” si stava compiendo.
Europa! Europa! Europa….
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.