Terminerà entro agosto la costruzione della barriera di separazione tra Ungheria meridionale e Serbia, una struttura che, nelle intenzioni del governo di Budapest, fermerà l’immigrazione illegale. L’annuncio di qualche giorno fa è arrivato dal premier Orban, che ha definito gli immigrati irregolari una minaccia per tutta l’Europa, accusando l’Ue di non far nulla per difendersi.
Servizio di Francesca Sabatinelli
Viktor Orban sfida l’Europa e difende le sue politiche anti-immigrati, addirittura anticipando la fine della costruzione della barriera, annunciata per novembre e ora prevista per il mese prossimo. 176 chilometri, per un’altezza di 4 metri, tutta realizzata in metallo, la struttura, secondo Budapest, dovrà fermare tutti coloro che tenteranno l’ingresso illegale dalla Serbia.
Viktor Orban sfida l’Europa e difende le sue politiche anti-immigrati, addirittura anticipando la fine della costruzione della barriera, annunciata per novembre e ora prevista per il mese prossimo. 176 chilometri, per un’altezza di 4 metri, tutta realizzata in metallo, la struttura, secondo Budapest, dovrà fermare tutti coloro che tenteranno l’ingresso illegale dalla Serbia.
Per molti ungheresi, spaventati dagli oltre 80mila arrivi negli ultimi sei mesi, le scelte del premier non sono da condannare. Ce lo spiega mons. Laszlo Kiss-Rigo,vescovo di Szeged, importante città ungherese al confine con la Serbia
“La situazione è molto complicata. Sono a Szeged, a 5 chilometri dalla frontiera con la Serbia e qui sperimentiamo e sentiamo tutto in modo diverso. Ogni giorno quasi 1.500 persone attraversano la cosiddetta “frontiera verde”, quindi non i punti ufficiali, ma il fiume, i campi, le foreste. Più di mille persone ogni giorno! Circa la metà sono realmente profughi, perseguitati, persone in pericolo e davvero bisognose, ma l’altra metà sono persone che quando arrivano e vengono fermate si scopre che hanno con loro cellulari e almeno 4-5 mila euro. Per questo dobbiamo essere molto attenti. Siamo obbligati, specialmente la Chiesa ovviamente, a dare ogni aiuto umanitario possibile ai profughi e ai bisognosi, ma dobbiamo anche pensare: la prudenza cammina sempre insieme alla carità, non sono contrapposte. Noi, come diocesi, abbiamo una Casa di accoglienza per profughi minorenni, ci sono psicologi esperti in pedagogia e in assistenza medica, ci sono assistenti sociali e facciamo di tutto per praticare davvero la carità cristiana. Questo è evidente! Ma dobbiamo anche pensare e cercare di proteggerci in qualche modo. Non è un problema ungherese: è un problema europeo! Se nessuno farà nulla, la situazione diventerà sempre più pericolosa di giorno in giorno”.
In Europa intanto è ancora polemica per le foto-choc dei migranti, tra loro donne e bambini, trasportati nei campi di accoglienza stipati su treni chiusi. Per lo più afghani e siriani, hanno viaggiato con un intercity da Pecs, nel sud del Paese, fino a Budapest con le porte chiuse per decisione delle ferrovie: per evitare che le persone scendessero e fuggissero. E se i media locali hanno criticato il provvedimento, così non sembra abbiano fatto i cittadini.
“La situazione è molto complicata. Sono a Szeged, a 5 chilometri dalla frontiera con la Serbia e qui sperimentiamo e sentiamo tutto in modo diverso. Ogni giorno quasi 1.500 persone attraversano la cosiddetta “frontiera verde”, quindi non i punti ufficiali, ma il fiume, i campi, le foreste. Più di mille persone ogni giorno! Circa la metà sono realmente profughi, perseguitati, persone in pericolo e davvero bisognose, ma l’altra metà sono persone che quando arrivano e vengono fermate si scopre che hanno con loro cellulari e almeno 4-5 mila euro. Per questo dobbiamo essere molto attenti. Siamo obbligati, specialmente la Chiesa ovviamente, a dare ogni aiuto umanitario possibile ai profughi e ai bisognosi, ma dobbiamo anche pensare: la prudenza cammina sempre insieme alla carità, non sono contrapposte. Noi, come diocesi, abbiamo una Casa di accoglienza per profughi minorenni, ci sono psicologi esperti in pedagogia e in assistenza medica, ci sono assistenti sociali e facciamo di tutto per praticare davvero la carità cristiana. Questo è evidente! Ma dobbiamo anche pensare e cercare di proteggerci in qualche modo. Non è un problema ungherese: è un problema europeo! Se nessuno farà nulla, la situazione diventerà sempre più pericolosa di giorno in giorno”.
In Europa intanto è ancora polemica per le foto-choc dei migranti, tra loro donne e bambini, trasportati nei campi di accoglienza stipati su treni chiusi. Per lo più afghani e siriani, hanno viaggiato con un intercity da Pecs, nel sud del Paese, fino a Budapest con le porte chiuse per decisione delle ferrovie: per evitare che le persone scendessero e fuggissero. E se i media locali hanno criticato il provvedimento, così non sembra abbiano fatto i cittadini.
Agnes Bencze, docente di storia dell’arte antica alla Cattolica di Budapest:
“Forse la preoccupazione della maggior parte degli ungheresi è un po’ diversa rispetto allo shock provato dai lettori dei giornali europei. Una cosa è sicura: noi riteniamo di attraversare un momento di crisi e quotidianamente ci arrivano i numeri e le notizie relative a questo fenomeno di immigrazione, in maggioranza clandestina, al confine con la Serbia. Ormai sappiamo che, oltre alle circa 80 mila persone che da febbraio sono già arrivate, ogni giorno continuano ad arrivare tra le 1.500 e le 2.000 persone per vie clandestine. C’è una situazione di assoluta emergenza e questo è chiaro. In questa situazione il governo reagisce in un modo e i cittadini ungheresi sono ovviamente divisi nel valutare la reazione governativa. Io posso esprimere solo un parere personale, magari condiviso da tante persone che conosco: non trovo istigazione xenofoba nelle parole e nelle dichiarazioni del governo. Diciamo che non vedo in giro molto dissenso, in generale. C’è comunque un grande dibattito politico riguardo proprio a come gestire la situazione. Quelli che criticano aspramente il governo sono generalmente dei circoli intellettuali legati all’opposizione politica, anche questo bisogna dirlo, e criticano il governo, lo accusano di voler mettere un freno al fenomeno dell’immigrazione, ma gran parte dell’opinione pubblica ungherese, almeno da quanto vedo io, è molto preoccupata per il numero degli arrivi, perché andando avanti così si arriverà a centinaia di migliaia, per forza di cose. L’Ungheria è un Paese piuttosto povero, diciamocelo chiaramente, per essere precisi, qui abbiamo uno stipendio medio che corrisponde a 500 euro al mese, senza parlare poi dei pensionati, dei disoccupati e di altre categorie sociali che si trovano veramente in difficoltà”.
C’è però anche una gran parte della società civile che ogni giorno, nelle due città al confine sud, Pecs e Szeged, si impegna nell’aiuto ai migranti che transitano. In molti sono attivi anche a Budapest, come i volontari della Comunità di Sant’Egidio. Peter Szoke è responsabile della comunità di Sant’Egidio a Budapest:
R. – Si tratta di una situazione inedita. L’Ungheria non è stata mai un Paese di immigrazione, al contrario siamo stati sempre un Paese da cui le persone, purtroppo, andavano via. C’è chi in questi giorni ricorda agli ungheresi questi fatti, dicendo: “Guardate, anche noi siamo stati accolti”. Ci siamo trovati davanti ad una situazione mai vista in questo Paese, ed è chiaro che le reazioni provocate da questo flusso di rifugiati ed immigrati sono varie, anche estremiste, razziste. C’è stata anche una reazione della società civile: le persone vanno nelle stazioni ferroviarie a portare il proprio aiuto ai profughi. Anche il popolo della rete, in modo veramente efficace e generoso, e sacrificando il proprio tempo libero, porta cibo e vestiti. Due anni fa, anche soltanto un anno fa, il fenomeno quasi non esisteva, sentivamo parlare della tragedia del Mediterraneo, ma ai nostri confini questi profughi hanno cominciato ad arrivare circa sei mesi fa. La loro presenza si è ora moltiplicata in modo veramente drammatico e devo dire che c’è una reazione di panico. Il popolo ungherese non conosce queste persone, non sa chi siano, i discorsi che vengono fatti sui media parlano del fenomeno, ma non parlano delle persone, delle loro storie, dei loro volti.
D. – Le misure che sono state annunciate dal governo, come la costruzione di una barriera di separazione al confine tra l’Ungheria e la Serbia, i cittadini le condividono?
R. – Secondo i sondaggi purtroppo sì. C’è un appoggio da parte della società che, secondo me, va però letto come una reazione di sorpresa e di panico. E questo perché il discorso di fondo la società non lo ha ancora affrontato: siamo nell’epoca della globalizzazione e, anche se noi siamo rimasti sorpresi da questa moltiplicazione di arrivi, globalizzazione vuol dire anche questo. Allora, c’è chi critica la globalizzazione e dice: noi ungheresi non abbiamo niente a che fare con questa gente e non siamo responsabili delle crisi, delle molte crisi, nel mondo che hanno provocato l’emigrazione di queste popolazioni. Purtroppo c’è un appoggio da parte della maggioranza della società, questo almeno secondo i sondaggi. Secondo me quello che dobbiamo fare, quello che la società civile può fare, è sottolineare che la solidarietà è la prima cosa che va considerata. Io spero che con pazienza e con reazioni e gesti di solidarietà da parte della società civile, anche la linea dura della politica si possa ammorbidire.
“Forse la preoccupazione della maggior parte degli ungheresi è un po’ diversa rispetto allo shock provato dai lettori dei giornali europei. Una cosa è sicura: noi riteniamo di attraversare un momento di crisi e quotidianamente ci arrivano i numeri e le notizie relative a questo fenomeno di immigrazione, in maggioranza clandestina, al confine con la Serbia. Ormai sappiamo che, oltre alle circa 80 mila persone che da febbraio sono già arrivate, ogni giorno continuano ad arrivare tra le 1.500 e le 2.000 persone per vie clandestine. C’è una situazione di assoluta emergenza e questo è chiaro. In questa situazione il governo reagisce in un modo e i cittadini ungheresi sono ovviamente divisi nel valutare la reazione governativa. Io posso esprimere solo un parere personale, magari condiviso da tante persone che conosco: non trovo istigazione xenofoba nelle parole e nelle dichiarazioni del governo. Diciamo che non vedo in giro molto dissenso, in generale. C’è comunque un grande dibattito politico riguardo proprio a come gestire la situazione. Quelli che criticano aspramente il governo sono generalmente dei circoli intellettuali legati all’opposizione politica, anche questo bisogna dirlo, e criticano il governo, lo accusano di voler mettere un freno al fenomeno dell’immigrazione, ma gran parte dell’opinione pubblica ungherese, almeno da quanto vedo io, è molto preoccupata per il numero degli arrivi, perché andando avanti così si arriverà a centinaia di migliaia, per forza di cose. L’Ungheria è un Paese piuttosto povero, diciamocelo chiaramente, per essere precisi, qui abbiamo uno stipendio medio che corrisponde a 500 euro al mese, senza parlare poi dei pensionati, dei disoccupati e di altre categorie sociali che si trovano veramente in difficoltà”.
C’è però anche una gran parte della società civile che ogni giorno, nelle due città al confine sud, Pecs e Szeged, si impegna nell’aiuto ai migranti che transitano. In molti sono attivi anche a Budapest, come i volontari della Comunità di Sant’Egidio. Peter Szoke è responsabile della comunità di Sant’Egidio a Budapest:
R. – Si tratta di una situazione inedita. L’Ungheria non è stata mai un Paese di immigrazione, al contrario siamo stati sempre un Paese da cui le persone, purtroppo, andavano via. C’è chi in questi giorni ricorda agli ungheresi questi fatti, dicendo: “Guardate, anche noi siamo stati accolti”. Ci siamo trovati davanti ad una situazione mai vista in questo Paese, ed è chiaro che le reazioni provocate da questo flusso di rifugiati ed immigrati sono varie, anche estremiste, razziste. C’è stata anche una reazione della società civile: le persone vanno nelle stazioni ferroviarie a portare il proprio aiuto ai profughi. Anche il popolo della rete, in modo veramente efficace e generoso, e sacrificando il proprio tempo libero, porta cibo e vestiti. Due anni fa, anche soltanto un anno fa, il fenomeno quasi non esisteva, sentivamo parlare della tragedia del Mediterraneo, ma ai nostri confini questi profughi hanno cominciato ad arrivare circa sei mesi fa. La loro presenza si è ora moltiplicata in modo veramente drammatico e devo dire che c’è una reazione di panico. Il popolo ungherese non conosce queste persone, non sa chi siano, i discorsi che vengono fatti sui media parlano del fenomeno, ma non parlano delle persone, delle loro storie, dei loro volti.
D. – Le misure che sono state annunciate dal governo, come la costruzione di una barriera di separazione al confine tra l’Ungheria e la Serbia, i cittadini le condividono?
R. – Secondo i sondaggi purtroppo sì. C’è un appoggio da parte della società che, secondo me, va però letto come una reazione di sorpresa e di panico. E questo perché il discorso di fondo la società non lo ha ancora affrontato: siamo nell’epoca della globalizzazione e, anche se noi siamo rimasti sorpresi da questa moltiplicazione di arrivi, globalizzazione vuol dire anche questo. Allora, c’è chi critica la globalizzazione e dice: noi ungheresi non abbiamo niente a che fare con questa gente e non siamo responsabili delle crisi, delle molte crisi, nel mondo che hanno provocato l’emigrazione di queste popolazioni. Purtroppo c’è un appoggio da parte della maggioranza della società, questo almeno secondo i sondaggi. Secondo me quello che dobbiamo fare, quello che la società civile può fare, è sottolineare che la solidarietà è la prima cosa che va considerata. Io spero che con pazienza e con reazioni e gesti di solidarietà da parte della società civile, anche la linea dura della politica si possa ammorbidire.
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