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giovedì 9 luglio 2015

Mauritania: "mio fratello, condannato a morte per offese al Profeta (e alle caste)"

Corriere della Sera
L'ingegner Mohamed Ould M'kheitir, 29 anni, vive in due metri di cella, senza finestra. Capita - una volta alla settimana, oppure ogni tre - che lo facciano uscire nel cortiletto, per 10 minuti. Appestato anche da condannato: in isolamento perché gli altri detenuti lo ucciderebbero. Un giorno hanno cercato di avvelenarlo con il cibo.
"La cosa che gli manca di più - dice la sorella Aisha - è leggere e scrivere. Non gli è permesso". Visita parenti, 10 minuti ogni 7 giorni. Prima ci andava la madre, poi le è mancata la forza. Ora è la sorella l'unico ponte. La moglie, Khairatte, dopo la sentenza è stata costretta dalla legge islamica a divorziare. "Ma non ho avuto il coraggio di dirlo a Mohamed", spiega Aisha. Quando si vedono, fratello e sorella si siedono su un rialzo del pavimento, sotto l'occhio di guardie e telecamere. "Finge di star bene, per non darci pena. L'ultima volta, gli ho detto che venivo in Italia. Mi ha pregato di chiedere scusa agli italiani, perché non poteva scrivervi una lettera come si deve". Mohamed è stato condannato a morte per apostasia a Nouadhibou, la città del pesce e del ferro in Mauritania, il 24 dicembre 2014.

Condannato per offesa al Profeta, per aver scritto su Facebook che l'Islam ha tollerato le diseguaglianze sociali anche ai tempi di Maometto. Il processo d'appello sarà forse in autunno. Ribaltare un verdetto applaudito anche dal presidente della Repubblica sarà dura: non c'è avvocato disposto a difendere il giovane. Chi ci ha provato ha avuto minacce di morte e il fuoco in casa. I difensori d'ufficio si sono scusati con la corte.

Mohamed, contabile in un'azienda metallurgica, scriveva di democrazia su Facebook, dal basso della sua casta dei maalemine (i fabbri): "Uno che non poteva permettersi di dire certe cose", osserva Nicola Quatrano, presidente dell'Osservatorio internazionale per i diritti (Ossin) che ha invitato la sorella del condannato in Italia per dare uno spicchio di luce al suo caso. E raccogliere fondi per la sua difesa.

"Un amico di Mohamed ha scritto cose ben peggiori su Internet - racconta Aisha - ma siccome appartiene a una casta superiore non è stato sfiorato dalle accuse". Al processo Mohamed ha detto che non voleva mancare di rispetto al Profeta ma criticare il sistema sociale. "La sua tesi è che spetta alla politica e non alla religione il compito di ridurre le disuguaglianze" spiega Aminetou Mint Moctar, presidente di un'associazione che, dovendo bandire dal proprio nome ogni riferimento ai diritti umani pena la censura, si è chiamata genialmente "Associazione delle donne capo famiglia".

Unica a essersi schierata per l'assoluzione del giovane, Amineotu ha accompagnato Aisha in questo viaggio. Prima a Roma, da Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti Umani del Senato; poi a Napoli, per una manifestazione alla Camera Penale. Anche l'imam del capoluogo campano, Abdallah Cozzolino, si è espresso contro la condanna. Strumentalizzare la religione: lo fanno con gran cassa mediatica i tagliagole dell'Isis, lo fanno in silenzio giudici e potenti di Paesi "moderati" modello Mauritania.

È il primo Paese al mondo per numero di schiavi. Gli attivisti anti-schiavitù in Mauritania trovano facilmente chi li difenda. Sono accorti, uniti, si tengono alla larga da territori "pericolosi" come la religione. Invece nei suoi due metri di cella, senza libri né penna, con una condanna a morte sulla testa, Mohamed Ould M'kheitir resta un lupo solitario, forse maldestro, uno sbarbatello della democrazia. Come i truci lupi solitari delle stragi, merita un titolo, una luce. E anche, lui sì, almeno un avvocato che lotti per la sua vita.

di Michele Farina

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