Oltre 60 mila persone spostate come un gregge da Mogadiscio. Molti provengono da tendopoli nelle quali oggi si assiepano oltre 370.000 abitanti della capitale somala. Le stime di UNHCR ed Human Rights Watch
Mogadiscio - Prima di lasciare l'aeroporto bisogna superare una lunga coda di barriere, checkpoint e protezioni. Uomini in tenuta militare, fucile a tracolla, rimuovono i sacchi di cemento e il filo spinato che isolano l'Aden Adde International Airport di Mogadiscio da eventuali attacchi. L'area intorno all'aeroporto è una delle più militarizzate della capitale somala, per i ripetuti tentativi da parte delle milizie islamiste di Al Shabaab di aggredire con autobombe il nuovo compound dell'area arrivi. Ovunque ci si giri, si vede gente armata. Nonostante Mogadiscio viva un periodo di crescita economica senza precedenti, la città continua a rimanere ostaggio di un clima di tensioni e violenza radicato nel tessuto urbano: è il risultato di una guerra civile che, dal 1991 ad oggi, ha messo in ginocchio l'economia del paese, con alle spalle oltre 500.000 morti.
Una città che cambia volto. Dentro il traffico caotico della città in ricostruzione, si superano decine di posti di blocco. Il viaggio dentro i quartieri centrali svela una parte interna di Mogadiscio che cambia lentamente volto. I viali asfaltati e gli edifici nuovi di zecca si scontrano con le macerie della zona costiera, un cumulo di palazzi divelti ed abbandonati sul lungomare. Da lontano, si scorgono le sagome dei mercantili in attesa, donne in hijab, il velo scosso dal vento, uomini seduti a parlare sugli scogli lungo le rive dell'Oceano Indiano. Molti provengono da una delle tendopoli (Idp camps) nelle quali oggi si assiepano oltre 370.000 abitanti di Mogadiscio.
I dati sugli esodi interni. Dopo la decisione presa lo scorso marzo dal governo somalo di sgomberare e radere al suolo numerosi insediamenti spontanei, sorti nel distretto di Kahda e nelle aree centrali di Hodan e Daynile (rispettivamente alla periferia ovest e nord di Mogadiscio, a una manciata di chilometri dal cuore della città), in tanti sono stati costretti a spostarsi verso i campi profughi sorti nella striscia di Afgooye, il tratto di strada, di circa 35 chilometri, che separa l'omonima cittadina, a nord ovest dalla capitale somala. Secondo le stime di UNHCR ed Human Rights Watch sarebbero oltre 60.000 le persone costrette ad abbandonare i loro insediamenti dal 2014 ad oggi, un risultato frutto di una politica che, da un lato vuole rimuovere la presenza visiva dei rifugiati assiepatisi nel corso degli anni intorno a Mogadiscio, dall'altra si rifiuta però di fornire agli sgomberati un'alternativa per vivere dignitosamente.
Ad Afgooye la situazione umanitaria è catastrofica. L'accesso all'acqua potabile è praticamente nullo, le condizioni igieniche di tutta l'area sono ai minimi termini, mentre le pochissime Ong che hanno accettato di continuare nel difficile lavoro di cooperazione a Mogadiscio (fra loro anche gli italiani del Cesvi), provano a gestire una situazione sanitaria in completo abbandono. La coda per le visite mediche, i vaccini e la somministrazione di farmaci è di almeno tre ore: nonostante l'impegno dei cooperanti sul campo, le risorse sono infatti molto ridotte e ci si scontra quotidianamente con un contesto di grande tensione. Nell'isolamento assoluto del campo, fra tende messe insieme con pezzi di plastica, vecchi vestiti, legna e rifiuti, la sicurezza e le violenza sessuali costituiscono un nodo cruciale.
Stupri e violenze impuniti. Sono migliaia ogni anno i casi di abusi subiti dalle donne somale, violenze mai denunciate, in un paese che umilia ed emargina le vittime di stupri. "Erano in quattro. Sono entrati nella mia tenda di notte, prima hanno preso le poche cose di valore che conservavo - racconta Hanan, 34 anni - poi mi hanno legato le mani dietro la schiena con una corda, mi hanno schiaffeggiato ed hanno cominciato a violentarmi. Non so quanto tempo sia passato, penso almeno due ore. Ho avuto paura di denunciarli, paura che tornassero qui e lo facessero di nuovo. Sono rimasta incinta. La mia famiglia, i miei amici, mi hanno consigliato di abortire e far finta non fosse mai successo nulla, ma non ce l'ho fatta. Ho cambiato zona, ed oggi sono qui, da sola, aspettando bene non so cosa".
Una città che cambia volto. Dentro il traffico caotico della città in ricostruzione, si superano decine di posti di blocco. Il viaggio dentro i quartieri centrali svela una parte interna di Mogadiscio che cambia lentamente volto. I viali asfaltati e gli edifici nuovi di zecca si scontrano con le macerie della zona costiera, un cumulo di palazzi divelti ed abbandonati sul lungomare. Da lontano, si scorgono le sagome dei mercantili in attesa, donne in hijab, il velo scosso dal vento, uomini seduti a parlare sugli scogli lungo le rive dell'Oceano Indiano. Molti provengono da una delle tendopoli (Idp camps) nelle quali oggi si assiepano oltre 370.000 abitanti di Mogadiscio.
I dati sugli esodi interni. Dopo la decisione presa lo scorso marzo dal governo somalo di sgomberare e radere al suolo numerosi insediamenti spontanei, sorti nel distretto di Kahda e nelle aree centrali di Hodan e Daynile (rispettivamente alla periferia ovest e nord di Mogadiscio, a una manciata di chilometri dal cuore della città), in tanti sono stati costretti a spostarsi verso i campi profughi sorti nella striscia di Afgooye, il tratto di strada, di circa 35 chilometri, che separa l'omonima cittadina, a nord ovest dalla capitale somala. Secondo le stime di UNHCR ed Human Rights Watch sarebbero oltre 60.000 le persone costrette ad abbandonare i loro insediamenti dal 2014 ad oggi, un risultato frutto di una politica che, da un lato vuole rimuovere la presenza visiva dei rifugiati assiepatisi nel corso degli anni intorno a Mogadiscio, dall'altra si rifiuta però di fornire agli sgomberati un'alternativa per vivere dignitosamente.
Ad Afgooye la situazione umanitaria è catastrofica. L'accesso all'acqua potabile è praticamente nullo, le condizioni igieniche di tutta l'area sono ai minimi termini, mentre le pochissime Ong che hanno accettato di continuare nel difficile lavoro di cooperazione a Mogadiscio (fra loro anche gli italiani del Cesvi), provano a gestire una situazione sanitaria in completo abbandono. La coda per le visite mediche, i vaccini e la somministrazione di farmaci è di almeno tre ore: nonostante l'impegno dei cooperanti sul campo, le risorse sono infatti molto ridotte e ci si scontra quotidianamente con un contesto di grande tensione. Nell'isolamento assoluto del campo, fra tende messe insieme con pezzi di plastica, vecchi vestiti, legna e rifiuti, la sicurezza e le violenza sessuali costituiscono un nodo cruciale.
Stupri e violenze impuniti. Sono migliaia ogni anno i casi di abusi subiti dalle donne somale, violenze mai denunciate, in un paese che umilia ed emargina le vittime di stupri. "Erano in quattro. Sono entrati nella mia tenda di notte, prima hanno preso le poche cose di valore che conservavo - racconta Hanan, 34 anni - poi mi hanno legato le mani dietro la schiena con una corda, mi hanno schiaffeggiato ed hanno cominciato a violentarmi. Non so quanto tempo sia passato, penso almeno due ore. Ho avuto paura di denunciarli, paura che tornassero qui e lo facessero di nuovo. Sono rimasta incinta. La mia famiglia, i miei amici, mi hanno consigliato di abortire e far finta non fosse mai successo nulla, ma non ce l'ho fatta. Ho cambiato zona, ed oggi sono qui, da sola, aspettando bene non so cosa".
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.