Un mazzetto di sedano, otto carote e sette cipolle. Accanto, quattro bicchieri di plastica con delle piccole prugne e un secchio di mele verdi. La signora con il cappello di paglia, invece, ha quattro cetrioli. Un uomo con la barba sfatta e la camicia strappata ha, su uno strofinaccio, per terra, diciotto peperoncini rossi e cinque zucchine.
Un appartamento distrutto a Donetsk, nell’est dell’Ucraina, il 1 giugno 2015. (Mstyslav Chernov, Ap/Ansa) |
Nell’est dell’Ucraina, dopo un anno di guerra, si vive così: rivendendo il poco trovato in giardino. Lungo la linea precaria della tregua di Minsk, che a febbraio ha più o meno congelato il fronte in attesa di una nuova costituzione basata sulle autonomie locali, come al solito sono rimasti solo quelli troppo poveri per andare via. Troppo fragili. Gli anziani. Chiedo a Volodja, l’uomo della camicia strappata, cosa pensa di tutto questo, e mi guarda fiero: nessuno, qui, dice, si arrenderà. “I tedeschi non vinceranno”. Crede che sia ricominciata la seconda guerra mondiale.
Siamo ad Avdiivka, e Alexandrovna ha 81 anni, un abito celeste, gli occhi chiari, quasi d’acqua, i modi che tradiscono origini aristocratiche, e vende le sue scarpe. Delle decolleté avorio, dei sandali, un tacco sei con brillantini. Delle pantofole di lana con ricami rossi. Dieci grivnie (cinquanta centesimi di euro) il paio. Il reddito medio di una famiglia, qui, è di 80 euro al mese.
L’Ucraina ha un tasso di disuguaglianza tra i più alti al mondo. Ha il tenore di vita dell’Uganda, ma nel 2011 l’uomo più ricco del paese, Rinat Akhmetov, ha comprato un appartamento a Londra per 150 milioni di euro, il più costoso di sempre. Per il conflitto nel Donbass il governo spende 10 milioni di euro al giorno. Poco lontano da Alexandrovna, intanto, una sua coetanea siede da sola su una panchina. Non ha più la gamba sinistra, e neppure una protesi, solo un moncone di legno malamente fissato al polpaccio. Una pezza a smussare l’attrito con l’osso.
I morti sono già seimila, gli sfollati 1,4 milioni. Eppure tecnicamente questa non è una guerra. Non c’è mai stato uno scontro tra ucraini dell’est e dell’ovest né una rivolta per l’indipendenza. C’è stato un intervento esterno. Un’operazione di destabilizzazione. Armi, ma non solo: le tracce della Russia sono molte e inequivocabili. Come i funerali dei suoi soldati uccisi qui. L’accordo di associazione con l’Unione europea che il presidente Viktor Janukovyč rifiutò di firmare, innescando le proteste di Maidan, avrebbe inserito Kiev nell’orbita di Bruxelles, e un giorno, della Nato. Ora, invece, è tutto bloccato. A Kiev non si parla più di riforme, di Unione europea o di aiuti del Fondo monetario internazionale. Si parla di aiuti umanitari.
No, non è una guerra, questa. Questa è la pace secondo Putin. “Ma l’esercito è così disastrato che all’inizio, per pagarsi la benzina, ha organizzato una colletta. E quindi il governo si è affidato a gruppi paramilitari, come l’ultradestra di Pravy sektor”, spiega la giornalista televisiva Natalia Gumenyuk, una delle più note attiviste di Maidan. “Una scelta che certo non allenta le tensioni. Non sono soldati: sono teppisti. L’unica guerra che dovremmo combattere, tutti insieme, è la guerra agli oligarchi”.
Invece qui continuerà così ancora a lungo. Quattro, cinque morti al giorno. E anche gli sfollati: molte famiglie hanno ancora risorse a sufficienza per trasferirsi altrove per un po’. Non è né una catastrofe né un’emergenza. “Proprio quello che vuole Putin”, dice il sindaco di Avdiivka. “Tenere l’Ucraina in ostaggio. Paralizzarla, ma senza mai allarmare troppo la comunità internazionale”. I momenti più duri, dice, sono i negoziati. I momenti in cui la battaglia si fa più feroce. “Tutti cercano di conquistare un metro in più. Poi si fermano per due o tre mesi, si riorganizzano e ricominciano di nuovo”.
Perché la violenza, qui, va a fiammate. Ha un andamento a sismografo, è evidente. E intenzionale. L’artiglieria è di piccolo calibro e a gittata corta: colpisce solo la prima, la seconda fila di case lungo la linea del fronte. E una volta sola, mai due. L’obiettivo è terrorizzare, non uccidere. Se stai ai piani bassi, sei al riparo.
I veri scontri a fuoco sono in aree ormai disabitate. E nei limiti del possibile i soldati, sia quelli di Kiev sia i separatisti, assistono i pochi civili rimasti – capita di vederli condividere persino il rancio. L’Ucraina, caso raro, è una guerra combattuta nel rispetto delle convenzioni di Ginevra. Anche se non è detto sia una cosa positiva. Come riassume il sindaco, “non potremo mai competere con le decapitazioni compiute dal gruppo Stato islamico”.
A volte l’Ucraina sembra non interessare neppure all’Ucraina. La vita, a Kiev, è quella di sempre, arrivi dal fronte con un treno ad alta velocità con tanto di wi-fi: tu ti trascini dietro il giubbotto antiproiettile, gli anfibi, l’elmetto, e gli altri passeggeri, in bermuda e infradito, neppure ti notano. E anche qui ad Avdiivka. Un anno fa si discuteva di Maidan, di Europa e di Russia. Oggi nessuno parla più di politica: nessuno parla di niente, solo di sopravvivenza. Le ragioni di questa guerra sono a tutti incomprensibili. L’unico dibattito, davanti all’unica drogheria ancora aperta, è su quale sia la strada migliore per Kharkiv. Sono trecento chilometri: un vecchio ci sta andando a piedi.
Perché qui non sono rimasti che quelli senza alternativa. Quelli come Tatjana. Che non ha ancora 65 anni, l’età minima per avere il sostegno della fondazione di Rinat Akhmetov, che distribuisce più aiuti umanitari dell’Onu, e quindi sta su una panchina, sola, tutto il giorno. Tutti i giorni. Perché la guerra, qui, è di notte. Al mattino è di nuovo tutto normale, si gira in bici tra queste case di mattoni rossi, le siepi, i giardini curatissimi, le rose, i cancelli in ferro battuto, sul vialetto il triciclo rosa della nipotina. Di giorno è estate, in Ucraina: di notte è guerra. Di notte, forse, una cannonata ti sfonda il tetto. Perché l’artiglieria ricomincia, puntuale, dopo il tramonto. “Quando fa buio?”, domando. “No. Quando i soldati sono ubriachi”.
Si passa la notte così da mesi, due, tre metri sottoterra, tra barattoli di sottaceti, conserve, vecchie lampade e vecchi televisori
E il primo colpo, in effetti, si schianta nell’erba all’improvviso. E sono subito urla, strilli, panico: tutti che si precipitano giù per le scale, negli scantinati. Qui si passa la notte così da mesi, due, tre metri sottoterra, tra barattoli di sottaceti, conserve, vecchie lampade e vecchi televisori.
Tatjana ha un figlio, ma abita a Kharkiv e ha una moglie, una famiglia: non ha lavoro, dice imbarazzata. “Non voglio essere di peso”. Non cita mai il marito. Nel Donbass sono tutti operai e minatori, e il resto lo fa l’alcol: gli uomini muoiono prima. E così sta qui. Sola. In questa palazzina di cemento, cinque piani, uno già bruciato.
Ha i capelli rossi raccolti, la ricrescita bianca di un anno esatto, quando tutto, qui, è stato travolto, lo smalto in tinta, la pelle sottile sulle ossa, e parla a voce bassa, sommessa. Con infinita dignità e compostezza. Come se il mondo non avesse spazio per lei, dice solo, timida: “Ho fame”. Qualsiasi cosa domandi, dice: “Ho fame”. Dice: “Conosci qualcuno che distribuisce del pane?”. Poi dice: “Solo del pane. Mi basta del pane”. E fissa il muro umido davanti a sé, ogni tanto smozzica una frase sul figlio, sul governo, mentre intorno, ormai, piovono mortai, e sempre più vicini, una frase sul prete che aiuta solo i fedeli.
E trema, e piange, a tratti, ma sempre sommessa, al freddo, le luci spente: sempre a mezza voce: a ogni esplosione ha un sussulto, a ogni esplosione è lì che si ripiega un po’ più su se stessa, le mani sulle orecchie. E parla tra sé e sé ormai, a ogni colpo più piccola, in quest’angolo, in questa guerra che non è abbastanza guerra.
Solo quando viene centrata la casa a fianco, e la nostra, anche, oscilla, e si sente un frantumarsi di vetri, di calcinacci, lei, anche, urla, e si accascia, mentre da una grata filtra un resto di tramonto, rischiara polvere, ragnatele, gusci d’insetti, la legna per l’inverno, perché mentre l’Europa e la Russia si contendono il gas, l’Ucraina neppure può permetterselo: e lei si accascia, allora, senza fare rumore, scivola giù per terra, in ginocchio, e poi su un fianco, e rimane così, singhiozzando: ma senza fare rumore, perché sa che tutto questo in fondo non è abbastanza, e poi non vuole essere di peso, e allora singhiozza, piano, sempre più piano, fino a quando non crolla, e si addormenta, mentre fuori è buio, ormai, e la sua sagoma si confonde con una vecchia coperta consunta, solo un grumo scuro contro il muro.
Siamo ad Avdiivka, e Alexandrovna ha 81 anni, un abito celeste, gli occhi chiari, quasi d’acqua, i modi che tradiscono origini aristocratiche, e vende le sue scarpe. Delle decolleté avorio, dei sandali, un tacco sei con brillantini. Delle pantofole di lana con ricami rossi. Dieci grivnie (cinquanta centesimi di euro) il paio. Il reddito medio di una famiglia, qui, è di 80 euro al mese.
L’Ucraina ha un tasso di disuguaglianza tra i più alti al mondo. Ha il tenore di vita dell’Uganda, ma nel 2011 l’uomo più ricco del paese, Rinat Akhmetov, ha comprato un appartamento a Londra per 150 milioni di euro, il più costoso di sempre. Per il conflitto nel Donbass il governo spende 10 milioni di euro al giorno. Poco lontano da Alexandrovna, intanto, una sua coetanea siede da sola su una panchina. Non ha più la gamba sinistra, e neppure una protesi, solo un moncone di legno malamente fissato al polpaccio. Una pezza a smussare l’attrito con l’osso.
I morti sono già seimila, gli sfollati 1,4 milioni. Eppure tecnicamente questa non è una guerra. Non c’è mai stato uno scontro tra ucraini dell’est e dell’ovest né una rivolta per l’indipendenza. C’è stato un intervento esterno. Un’operazione di destabilizzazione. Armi, ma non solo: le tracce della Russia sono molte e inequivocabili. Come i funerali dei suoi soldati uccisi qui. L’accordo di associazione con l’Unione europea che il presidente Viktor Janukovyč rifiutò di firmare, innescando le proteste di Maidan, avrebbe inserito Kiev nell’orbita di Bruxelles, e un giorno, della Nato. Ora, invece, è tutto bloccato. A Kiev non si parla più di riforme, di Unione europea o di aiuti del Fondo monetario internazionale. Si parla di aiuti umanitari.
No, non è una guerra, questa. Questa è la pace secondo Putin. “Ma l’esercito è così disastrato che all’inizio, per pagarsi la benzina, ha organizzato una colletta. E quindi il governo si è affidato a gruppi paramilitari, come l’ultradestra di Pravy sektor”, spiega la giornalista televisiva Natalia Gumenyuk, una delle più note attiviste di Maidan. “Una scelta che certo non allenta le tensioni. Non sono soldati: sono teppisti. L’unica guerra che dovremmo combattere, tutti insieme, è la guerra agli oligarchi”.
Invece qui continuerà così ancora a lungo. Quattro, cinque morti al giorno. E anche gli sfollati: molte famiglie hanno ancora risorse a sufficienza per trasferirsi altrove per un po’. Non è né una catastrofe né un’emergenza. “Proprio quello che vuole Putin”, dice il sindaco di Avdiivka. “Tenere l’Ucraina in ostaggio. Paralizzarla, ma senza mai allarmare troppo la comunità internazionale”. I momenti più duri, dice, sono i negoziati. I momenti in cui la battaglia si fa più feroce. “Tutti cercano di conquistare un metro in più. Poi si fermano per due o tre mesi, si riorganizzano e ricominciano di nuovo”.
Perché la violenza, qui, va a fiammate. Ha un andamento a sismografo, è evidente. E intenzionale. L’artiglieria è di piccolo calibro e a gittata corta: colpisce solo la prima, la seconda fila di case lungo la linea del fronte. E una volta sola, mai due. L’obiettivo è terrorizzare, non uccidere. Se stai ai piani bassi, sei al riparo.
I veri scontri a fuoco sono in aree ormai disabitate. E nei limiti del possibile i soldati, sia quelli di Kiev sia i separatisti, assistono i pochi civili rimasti – capita di vederli condividere persino il rancio. L’Ucraina, caso raro, è una guerra combattuta nel rispetto delle convenzioni di Ginevra. Anche se non è detto sia una cosa positiva. Come riassume il sindaco, “non potremo mai competere con le decapitazioni compiute dal gruppo Stato islamico”.
A volte l’Ucraina sembra non interessare neppure all’Ucraina. La vita, a Kiev, è quella di sempre, arrivi dal fronte con un treno ad alta velocità con tanto di wi-fi: tu ti trascini dietro il giubbotto antiproiettile, gli anfibi, l’elmetto, e gli altri passeggeri, in bermuda e infradito, neppure ti notano. E anche qui ad Avdiivka. Un anno fa si discuteva di Maidan, di Europa e di Russia. Oggi nessuno parla più di politica: nessuno parla di niente, solo di sopravvivenza. Le ragioni di questa guerra sono a tutti incomprensibili. L’unico dibattito, davanti all’unica drogheria ancora aperta, è su quale sia la strada migliore per Kharkiv. Sono trecento chilometri: un vecchio ci sta andando a piedi.
Perché qui non sono rimasti che quelli senza alternativa. Quelli come Tatjana. Che non ha ancora 65 anni, l’età minima per avere il sostegno della fondazione di Rinat Akhmetov, che distribuisce più aiuti umanitari dell’Onu, e quindi sta su una panchina, sola, tutto il giorno. Tutti i giorni. Perché la guerra, qui, è di notte. Al mattino è di nuovo tutto normale, si gira in bici tra queste case di mattoni rossi, le siepi, i giardini curatissimi, le rose, i cancelli in ferro battuto, sul vialetto il triciclo rosa della nipotina. Di giorno è estate, in Ucraina: di notte è guerra. Di notte, forse, una cannonata ti sfonda il tetto. Perché l’artiglieria ricomincia, puntuale, dopo il tramonto. “Quando fa buio?”, domando. “No. Quando i soldati sono ubriachi”.
Si passa la notte così da mesi, due, tre metri sottoterra, tra barattoli di sottaceti, conserve, vecchie lampade e vecchi televisori
E il primo colpo, in effetti, si schianta nell’erba all’improvviso. E sono subito urla, strilli, panico: tutti che si precipitano giù per le scale, negli scantinati. Qui si passa la notte così da mesi, due, tre metri sottoterra, tra barattoli di sottaceti, conserve, vecchie lampade e vecchi televisori.
Tatjana ha un figlio, ma abita a Kharkiv e ha una moglie, una famiglia: non ha lavoro, dice imbarazzata. “Non voglio essere di peso”. Non cita mai il marito. Nel Donbass sono tutti operai e minatori, e il resto lo fa l’alcol: gli uomini muoiono prima. E così sta qui. Sola. In questa palazzina di cemento, cinque piani, uno già bruciato.
Ha i capelli rossi raccolti, la ricrescita bianca di un anno esatto, quando tutto, qui, è stato travolto, lo smalto in tinta, la pelle sottile sulle ossa, e parla a voce bassa, sommessa. Con infinita dignità e compostezza. Come se il mondo non avesse spazio per lei, dice solo, timida: “Ho fame”. Qualsiasi cosa domandi, dice: “Ho fame”. Dice: “Conosci qualcuno che distribuisce del pane?”. Poi dice: “Solo del pane. Mi basta del pane”. E fissa il muro umido davanti a sé, ogni tanto smozzica una frase sul figlio, sul governo, mentre intorno, ormai, piovono mortai, e sempre più vicini, una frase sul prete che aiuta solo i fedeli.
E trema, e piange, a tratti, ma sempre sommessa, al freddo, le luci spente: sempre a mezza voce: a ogni esplosione ha un sussulto, a ogni esplosione è lì che si ripiega un po’ più su se stessa, le mani sulle orecchie. E parla tra sé e sé ormai, a ogni colpo più piccola, in quest’angolo, in questa guerra che non è abbastanza guerra.
Solo quando viene centrata la casa a fianco, e la nostra, anche, oscilla, e si sente un frantumarsi di vetri, di calcinacci, lei, anche, urla, e si accascia, mentre da una grata filtra un resto di tramonto, rischiara polvere, ragnatele, gusci d’insetti, la legna per l’inverno, perché mentre l’Europa e la Russia si contendono il gas, l’Ucraina neppure può permetterselo: e lei si accascia, allora, senza fare rumore, scivola giù per terra, in ginocchio, e poi su un fianco, e rimane così, singhiozzando: ma senza fare rumore, perché sa che tutto questo in fondo non è abbastanza, e poi non vuole essere di peso, e allora singhiozza, piano, sempre più piano, fino a quando non crolla, e si addormenta, mentre fuori è buio, ormai, e la sua sagoma si confonde con una vecchia coperta consunta, solo un grumo scuro contro il muro.
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