Firenze. La redistribuzione dei rifugiati in Europa, sta ormai diventando uno spettacolo indegno e imbarazzante. Ma se si pensa che soltanto nel Vecchio continente possano accadere ancora oggi storie di tale bassa viltà, allora ci sbagliamo di grosso, perché, anche in questo caso, noi europei siamo in ottima compagnia.
Ioane Teitiota, abitante delle sperdute isole Kiribati, è arrivato con la sua famiglia in Nuova Zelanda, dove ha chiesto “asilo climatico”. Il primo caso al mondo, è, ovvio, la Nuova Zelanda ha mostrato a lui e al resto del pianeta la propria solidarietà, rigettando al mittente quella che deve essere considerata a tutti gli effetti come una richiesta di aiuto. Kiribati, che praticamente è sconosciuto al mondo, è un minuscolo arcipelago del Pacifico costituito da 32 atolli, minuscoli, che hanno la particolarità di trovarsi soltanto ad un paio di metri di altezza sul livello del mare.
Anche se questo, sino ad ora, non ha mai creato un grosso problema per i suoi abitanti, da qualche tempo, a causa soprattutto del riscaldamento globale e dell’innalzarsi del livello delle acque, queste isole sono esposte frequentemente ad incursioni delle onde marine che così arrivano ad invadere case, distruggere le colture e, cosa ben più grave, contaminare le riserve di acqua potabile. A questo problema, la famiglia Teitiota a risposto così: la soluzione per una vita dignitosa? La migrazione.
Come nel caso dei rifugiati siriani, siamo anche qui di fronte ad una realtà innegabile: non la guerra, come nel primo caso, ma il cambiamento climatico. Che, spulciando anche soltanto su internet, ma prendendo a spunto fonti internazionali autorevoli, è ad oggi la prima causa di migrazione nel mondo. Soltanto nel 2011 ha infatti rappresentato la causa che ha fatto spostare oltre 40 milioni di persone dai propri territori natii. E secondo l’Unhacr, nel corso dei prossimi 50 anni questi fenomeni aumenteranno ancora, arrivando allo spostamento di oltre 1 miliardo di persone. Che, ovvio, dai paesi più poveri si riverseranno in quelli più ricchi. Cambiamenti climatici, mancanza di acqua e cibo; tutto dovuto allo scarso (ma soprattutto cattivo) sviluppo economico dominante nel mondo.
Ma anche vuoto giuridico, politico e sociale: la Convenzione relativa allo status di rifugiato, risalente al 1951 (Onu), permette infatti ad una persona di chiedere asilo per “timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche”. Convenzione che, come si legge, non tiene affatto conto della crisi climatica in atto e dei suoi effetti sui flussi migratori.
Solidarietà: una parola uscita ormai dal nostro vocabolario. Essere solidali, in fondo, è anche nel nostro stesso interesse. O, meglio, dovrebbe esserlo. Come affermato dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni, è il momento di riconoscere in modo inequivocabile che vi sono “migranti ambientali”, cioè “persone o gruppi di persone che, per motivi imperativi di cambiamenti improvvisi o progressivi dell’ambiente, che incidono negativamente sulle condizioni di vita, sono costretti a lasciare le proprie case”. Se questo accadesse seriamente, segnerebbe un passo significativo verso un ritorno all’umanità che si sta sempre più smarrendo. Ma per farlo, bisognerebbe prima attuare ciò che già esiste ed è previsto, ovvero l’asilo per motivi di guerra. Perché se è vero che, nell’esempio specifico di queste settimane, i siriani vengono accolti da Austria e Germania (ma vi è poi il caso dell’Italia con i naufraghi del Mediterraneo che va avanti da molto più tempo), non vi è la stessa accoglienza da parte dei residenti, degli europei in generale.
Tornando invece al clima, un primo passo sul riconoscimento dei cosiddetti rifugiati ambientali potrà avvenire già nelle prossime settimane nel vertice sul clima che si terrà a Parigi, forse l’ultima opportunità per le potenze internazionali di affrontare in maniera seria e responsabile il cambiamento climatico in atto. E di conseguenza anche ciò che esso comporta, quindi le migrazioni.
Un primo passo, un passo importante, ma un passo complicatissimo da compiere. Perché le nostre economie, ed il nostro attuale modo di vivere, si basano e si svolgono a complete spese del pianeta sul quale viviamo. E del popolo che lo abita. Fornire una vita dignitosa a tutte le famiglie Teitiota del mondo, significa mettere in moto tutta una serie di meccanismi, legali, politici, economici, ma anche e soprattutto umani, che in tanti sembrano proprio non tenere neanche in considerazione. E appunto per questo la mobilitazione da parte dei cittadini, e la pressione politica, sono uno strumento fondamentale. Perché, come spesso viene detto, oggi a loro; ma domani a noi. Col rischio che ciò che è fatto, venga reso; magari con gli interessi. E in quel caso ce lo saremo meritati.
di Alessandro Marinai
Come nel caso dei rifugiati siriani, siamo anche qui di fronte ad una realtà innegabile: non la guerra, come nel primo caso, ma il cambiamento climatico. Che, spulciando anche soltanto su internet, ma prendendo a spunto fonti internazionali autorevoli, è ad oggi la prima causa di migrazione nel mondo. Soltanto nel 2011 ha infatti rappresentato la causa che ha fatto spostare oltre 40 milioni di persone dai propri territori natii. E secondo l’Unhacr, nel corso dei prossimi 50 anni questi fenomeni aumenteranno ancora, arrivando allo spostamento di oltre 1 miliardo di persone. Che, ovvio, dai paesi più poveri si riverseranno in quelli più ricchi. Cambiamenti climatici, mancanza di acqua e cibo; tutto dovuto allo scarso (ma soprattutto cattivo) sviluppo economico dominante nel mondo.
Ma anche vuoto giuridico, politico e sociale: la Convenzione relativa allo status di rifugiato, risalente al 1951 (Onu), permette infatti ad una persona di chiedere asilo per “timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche”. Convenzione che, come si legge, non tiene affatto conto della crisi climatica in atto e dei suoi effetti sui flussi migratori.
Solidarietà: una parola uscita ormai dal nostro vocabolario. Essere solidali, in fondo, è anche nel nostro stesso interesse. O, meglio, dovrebbe esserlo. Come affermato dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni, è il momento di riconoscere in modo inequivocabile che vi sono “migranti ambientali”, cioè “persone o gruppi di persone che, per motivi imperativi di cambiamenti improvvisi o progressivi dell’ambiente, che incidono negativamente sulle condizioni di vita, sono costretti a lasciare le proprie case”. Se questo accadesse seriamente, segnerebbe un passo significativo verso un ritorno all’umanità che si sta sempre più smarrendo. Ma per farlo, bisognerebbe prima attuare ciò che già esiste ed è previsto, ovvero l’asilo per motivi di guerra. Perché se è vero che, nell’esempio specifico di queste settimane, i siriani vengono accolti da Austria e Germania (ma vi è poi il caso dell’Italia con i naufraghi del Mediterraneo che va avanti da molto più tempo), non vi è la stessa accoglienza da parte dei residenti, degli europei in generale.
Tornando invece al clima, un primo passo sul riconoscimento dei cosiddetti rifugiati ambientali potrà avvenire già nelle prossime settimane nel vertice sul clima che si terrà a Parigi, forse l’ultima opportunità per le potenze internazionali di affrontare in maniera seria e responsabile il cambiamento climatico in atto. E di conseguenza anche ciò che esso comporta, quindi le migrazioni.
Un primo passo, un passo importante, ma un passo complicatissimo da compiere. Perché le nostre economie, ed il nostro attuale modo di vivere, si basano e si svolgono a complete spese del pianeta sul quale viviamo. E del popolo che lo abita. Fornire una vita dignitosa a tutte le famiglie Teitiota del mondo, significa mettere in moto tutta una serie di meccanismi, legali, politici, economici, ma anche e soprattutto umani, che in tanti sembrano proprio non tenere neanche in considerazione. E appunto per questo la mobilitazione da parte dei cittadini, e la pressione politica, sono uno strumento fondamentale. Perché, come spesso viene detto, oggi a loro; ma domani a noi. Col rischio che ciò che è fatto, venga reso; magari con gli interessi. E in quel caso ce lo saremo meritati.
di Alessandro Marinai
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