Il braccio di ferro, ora, è tutto africano. E forse la crisi burundese si appresta a una svolta. Dopo mesi di pressioni internazionali, che poco o nulla hanno sortito, ora è l'Unione Africana ad alzare la voce in maniera decisa. Ma il Burundi non ci sta
L'Unione Africana ha votato venerdì 18 dicembre l'invio di 5 mila soldati nel piccolo Paese che da mesi è scosso da una profonda crisi politica, istituzionale e umanitaria. Da quando lo scorso aprile il presidente Pierre Nkurunziza ha ufficializzato la sua candidatura per un terzo mandato incostituzionale, la situazione non ha fatto che deteriorarsi.
Nonostante le proteste di piazza della popolazione della capitale Bujumbura, nonostante le pressioni internazionali, le elezioni si sono svolte a luglio e hanno ovviamente confermato la rielezione di Nkurunziza, dopo che gli altri candidati si erano ritirati in segno di protesta.
Da allora, una parte del Paese non riconosce più il presidente come tale. E da allora, le proteste vengono sistematicamente soffocate nel sangue.
E lunedì 21 dicembre il parlamento burundese, con le due camere riunite in seduta straordinaria, ha respinto la missione e chiesto al proprio governo di difendere la sovranità nazionale. Lo stesso ha fatto il Consiglio nazionale di sicurezza.
Nonostante le proteste di piazza della popolazione della capitale Bujumbura, nonostante le pressioni internazionali, le elezioni si sono svolte a luglio e hanno ovviamente confermato la rielezione di Nkurunziza, dopo che gli altri candidati si erano ritirati in segno di protesta.
Da allora, una parte del Paese non riconosce più il presidente come tale. E da allora, le proteste vengono sistematicamente soffocate nel sangue.
Braccio di ferro con l'Unione Africana
Dopo i tanti tentativi della Comunità internazionale, ora ci prova l'Unione Africana. Erano stati dati tre giorni di tempo per accettare o respingere la missione, che prenderebbe il nome di Maprobu e avrebbe il compito di proteggere i civili e prevenire ogni ulteriore deterioramento della situazione.
E lunedì 21 dicembre il parlamento burundese, con le due camere riunite in seduta straordinaria, ha respinto la missione e chiesto al proprio governo di difendere la sovranità nazionale. Lo stesso ha fatto il Consiglio nazionale di sicurezza.
Le pressioni internazionali
L'Unione Africana aveva già dichiarato che, in caso di rifiuto, potrebbe far ricorso all'articolo 4 del suo Atto Costitutivo, secondo il quale la comunità dei Paesi membri può decidere anche contro la volontà del singolo Stato, in caso di circostanze gravi, come genocidio o crimini di guerra e contro l'umanità.
La situazione è dunque su un pericolosissimo crinale. Il Burundi ha dichiarato che riterrà qualunque invio di truppe un atto di aggressione e agirà di conseguenza.
La comunità internazionale nel frattempo non sta a guardare, anche se da mesi preferisce adottare misure che lascino un seppur esiguo margine a possibili trattative. L'ultimo atto in ordine di tempo viene direttamente da Barack Obama, che sempre lunedì 21 ha emesso un decreto presidenziale secondo il quale a partire dal 1 gennaio prossimo esclude il Burundi dall'African Growth and Opportunity Act.
Da più parti si fanno pressioni perché il Burundi venga anche sospeso dal Consiglio per i Diritti Umani dell'Onu. È davvero un ossimoro che sia membro del Consiglio un Paese che i diritti umani li sta calpestando con una sfrontatezza raramente documentata altrove.
Rischio genocidio
Il 12 novembre era stato il Consiglio di Sicurezza dell'Onu a pronunciarsi, con una perentoria richiesta di proteggere i diritti umani e di cooperare con i mediatori africani per riaprire immediatamente “un dialogo inclusivo e genuino inter-burundese”, con l'allusione a possibili future “misure addizionali contro tutti gli attori burundesi le cui azioni contribuiscano a perpetuare la violenza”, ma nessuna sanzione mirata.
Il pressing per una presa di posizione era cominciato dopo che, all'inizio di novembre, era trapelata sugli organi di stampa nazionali la registrazione di un incontro a porte chiuse, in cui il presidente del senato Révérien Ndikuriyo usava parole di fuoco contro gli avversari, con un linguaggio simile ai messaggi di odio che precedettero il genocidio rwandese del 1994. Da lì si è cominciato a parlare a più riprese di “rischio genocidio” per il Paese.
Di nuovo, il 19 dicembre, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha invocato una urgente accelerazione degli sforzi di mediazione da parte della East African Comunity e ha domandato ai governanti burundesi di cooperare pienamente con la missione di peacekeeping proposta dall'UA. Senza esito, come abbiamo visto.
Scontri a fuoco e repressione
L'ultimo atto eclatante è stato lo scorso 18 dicembre, quando un assalto a quattro campi militari della capitale alle prime ore del mattino (da parte di un gruppo armato, pare di oppositori) ha causato una violenta controffensiva che ha lasciato sul terreno, a seconda delle fonti, dai 70 ai 200 morti, per la maggior parte civili.
Il tutto all'indomani dell'ennesima risoluzione del Parlamento Europeo, che chiedeva il congelamento di tutti gli aiuti non umanitari al governo burundese. “Circa la metà del budget del Burundi”, si leggeva nel comunicato del Parlamento europeo, “proviene dall'aiuto internazionale,con un contributo dell'UE di 432 milioni di euro per il periodo 2014-2020”.
Quotidiane sparizioni, uccisioni, rastrellamenti
La repressione iniziata la scorsa primavera, infatti, si è incattivita dopo le elezioni-farsa che hanno riconfermato Nkurunziza alla testa del Paese. Le opposizioni, le associazioni e la stampa libera (ormai quasi tutti rifugiati all'estero) documentano e denunciano quotidianamente rastrellamenti, uccisioni, esecuzioni extragiudiziali, spesso commessi da uomini in uniforme.
A essere colpiti sono per lo più uomini e giovani, a partire da chi si è segnalato per aver partecipato alle manifestazioni contro il terzo mandato, ma ormai gli arresti sono davvero arbitrari, chi capita capita.
Retate, punizioni collettive, prelievi forzosi che equivalgono a rapimenti veri e propri,anche se ad attuarli sono uomini in divisa. Tutto ciò è concentrato nella capitale Bujumbura e colpisce in particolare i quartieri contestatari in cui vive la minoranza tutsi, ma non solo loro. Il terrore è generalizzato. E a Bujumbura nel terrore ci si sveglia ogni mattina. Terrore per quello che può essere capitato nella notte, terrore per quello che può capitarti di giorno, dato che nessuno può più dirsi al sicuro. E terrore per gli orrori volutamente esibiti: chi viene prelevato dalle forze “dell'ordine” spesso sparisce. Ma altrettanto spesso viene ritrovato barbaramente ucciso il giorno dopo, il corpo gettato nelle strade, o nei fossati, spesso con segni di tortura, a volte col cranio sfondato o decapitato.
Un vero orrore esibito come monito, nelle strade in città, dove chiunque può passare e vedere. Un orrore esibito con una sfrontatezza che raramente si ricorda. All'estero, da Bruxelles a Ginevra a New York, si moltiplicano le riunioni e le misure restrittive. Ma il regime di Bujumbura pare infischiarsene, irridendo la comunità internazionale.
Vedremo se l'Unione Africana avrà buon gioco. Ma le riserve non mancano, dato che non sono pochi i presidenti (soprattutto nella regione dei Grandi Laghi e nell'Africa Centrale) che ignorano democrazia e alternanza e puntano a un terzo mandato incostituzionale, sulle orme di quel Nkurunziza che a parole tutti condannano.
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