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sabato 26 dicembre 2015

Kurdistan turco: in 100mila lasciano le proprie case per cercare luoghi sicuri

Articolo 21
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Senza contare che un pezzo del paese – quello che una volta era il Kurdistan turco – è totalmente oscurato, come ho potuto verificare nella mia recente visita con Ivan Grozny. Qui, da quando Erdoğan ha interrotto i negoziati di pace col Pkk in vista delle elezioni di novembre, le città a maggioranza curda nel sud-est del paese sono sistematicamente sottoposte a coprifuoco. Lo Stato turco, con il dichiarato intento di colpire quelli che definisce “terroristi del Pkk”, impone a tutti gli abitanti di evacuare le città, di lasciare le proprie abitazioni. Annunci che assolvono le autorità turche da qualsiasi responsabilità nei confronti dei civili. Una volta dichiarato il coprifuoco, l’esercito turco e le forze speciali di polizia iniziano a bombardare i quartieri dall’alto e ad assaltate le abitazioni con blindati e mitragliatrici.

Da qualche tempo sono accompagnati dalle squadre di Esedullah, chiamati “Leoni di Allah”, gruppi paramilitari di estrema destra che si manifestano con le caratteristiche di una cellula Isis e “operano nei ranghi della polizia” secondo alcune testimonianze raccolte da Maurizio Molinari su La Stampa. La popolazione resiste, non vuole lasciare la propria terra, ma è terrorizzata. Le scuole sono chiuse, così come gli ospedali: ieri, a causa dei lacrimogeni, a 70 anni è morto Salih Baygin. E sono drammatiche le immagini di una donna disarmata trascinata da due militari per centinaia di metri e caricata su un furgone della polizia a Cizre; così come terribili sono i video, postati su twitter, in cui si vedono alcuni militari torturare un vecchio cane. Una violazione sistematica dei diritti umani, nel silenzio più totale. Secondo i dati dell’Associazione dei diritti umani IHD, nel corso del 2015 sono morte 523 persone negli scontri tra l’esercito e il Pkk: 171 militari, 195 militari curdi, 157 civili e 44 bambini. 

Da metà agosto le autorità hanno dichiarato 32 volte il coprifuoco in 8 distretti a Diyarbakir, 9 volte in 3 distretti a Mardin, 7 volte in 2 distretti a Sirnac, 4 volte in un distretto di Hakkari e Batman: questo significa stravolgere la vita di un milione e trecentomila persone. Sono drammatiche – e giornalisticamente assai poco raccontate – le immagini che arrivano in questi giorni dal Kurdistan turco: le file di anziani e famiglie che lasciano le loro città con enormi sacchi sulle spalle, contenenti la loro vita, per cercare luoghi sicuri. Sembra un esodo inevitabile e silenziato. Secondo Rete Kurdistan da agosto sono più di 100mila gli abitanti che hanno lasciato le proprie case. Senza contare che chi rimane si ritrova a vivere in città polverizzate da bombe e mitragliatrici, molto più simili ad Hassaké e a Kobane distrutte dall’Isis che a una civile città turca.

Chi ha provato a raccontare la situazione nel Kurdistan turco ha vissuto vari destini. Tahir Elci, avvocato curdo difensore dei diritti umani, è stato ammazzato in una sparatoria in mezzo alla strada a Diyarbakir, mentre durante una conferenza stampa chiedeva al Erdoğan di fermare le operazioni militari nelle città curde. Sono finiti in carcere con l’accusa di terrorismo due giornalisti britannici di Vice News – Jake Hanrahan e Philip Pendlebury – insieme alla loro guida – Mohamed Ismail Rasool – solo per aver ripreso gli scontri tra l’esercito turco e la resistenza curda all’interno del quartiere di Sur, Diyarbakir. Al giornalista di Ozgur Gun Tv che voleva documentare la violenza dei militari nei confronti dei civili nella città di Silvan un poliziotto ha puntato la pistola alla testa. Senza dimenticare la storia di Serena Shim, giornalista americana di origini libanesi, morta in uno strano incidente stradale, dopo essere tornata da Surc, città turca di fronte a Kobane. Aveva appena dichiarato in diretta a Press tv, testata iraniana per cui lavorava, di essere in possesso di immagini che documentavano un traffico illegale di estremisti islamici dalla Turchia alla Siria, accusando Erdoğan di chiudere gli occhi; aveva riportato, nella stessa diretta, alcune minacce ricevute da parte dei servizi segreti turchi. Poco dopo ha perso la vita in un frontale con un camion.

Nel resto del paese, si cerca di silenziare tutta la stampa che non fa da grancassa all’Akp, il partito che governa con la maggioranza assoluta e vede il presidente della Repubblica come massima espressione. Si cerca di mettere a tacere non solo l’opposizione, ma chiunque tenti di effettuare un minimo controllo critico, come ha fotografato la stessa Commissione Europea nel suo dossier reso pubblico soltanto dopo il voto. Nei confronti della stampa, le accuse non sono solo quelle di diffamazione, o di sostegno al terrorismo come accade in Kurdistan, ma anche di spionaggio. Per aver pubblicato un’inchiesta su un passaggio di armi dalla Turchia alla Siria, con la scorta dei servizi segreti turchi, rischiano l’ergastolo, il direttore di “Cumhuriyet”, Can Dündar e il suo caporedattore Gül. È notizia di ieri che il pubblico ministero ha chiesto 5 anni e 4 mesi di carcere per Ergin, giornalista di Hürriyet che aveva osato criticare Erdoğan.
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