Il reportage di Emergency sulla fuga di migliaia di persone dal Corno d'Africa e dall'Africa Sub-Sahariana. L'esplosione, quest'estate, delle rotte migratorie del Mediterraneo orientale - battute soprattutto da profughi siriani, afgani e iracheni - e della rotta balcanica, ha di recente messo in ombra la rotta libica. La Libia resta tuttavia il principale punto di partenza per migliaia di persone in fuga dal Corno d'Africa (soprattutto eritrei, sudanesi e somali) e dall'Africa sub-sahariana.
Sui 131.000 migranti giunti quest'anno in Italia, circa il 85-90% è partito da un porto libico e circa il 10% da un porto egiziano. In un Paese in pieno caos e dove infuriano i combattimenti, tra le persone più a rischio ci sono gli sfollati, i richiedenti asilo e i migranti.
L'immigrazione è considerata illegale in Libia: se vengono scoperti dalle autorità, i migranti rischiano la deportazione o la detenzione in prigione o in campi di concentramento dove rimangono richiusi per mesi, a volte per anni. Ma i migranti sono anche vittime di tratta e di sequestro per mano di bande armate, milizie e bande criminali. Pestaggi, torture, e lavoro forzato sono all'ordine del giorno in un Paese fuori controllo, e poco contano gli appelli e le continue denunce delle organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch e Amnesty International.
Il traffico di esseri umani continua a Kufra, un inferno dove ogni mese arrivano circa 12 mila migranti dal Sudan e dai Paesi più poveri del Corno d'Africa. E continua anche nella città di Zuara, vicina alla Tunisia, da dove ogni giorno partono pescherecci e barche alla volta dell'Europa. La grande maggioranza delle persone che passano dall'ambulatorio di Emergency sulla banchina del porto di Augusta, è passata dalla Libia e ancora li vediamo tremare mentre raccontano quello che hanno passato negli ultimi mesi.
A., 30 anni, somalo: "Nel campo di detenzione di Gharyan eravamo 400 persone, incastrati gli uni sugli altri, gambe e ginocchia rannicchiate, non riesci mai a dormire veramente. L'acqua sa di benzina: ne danno solo un bicchiere al giorno. Alcuni bevono l'acqua salata dei bagni, che sono sempre sporchi. Quando qualcuno si ammala, non viene curato e non viene portato in ospedale. Ogni tanto qualcuno sparisce. C'è chi riesce a pagare la "cifra" richiesta dai poliziotti e dalle guardie per scappare, ma sono pochi; gli altri spariscono e nessuno ne sa più niente".
Tre ragazzi somali mi mostrano le gambe e i piedi pieni di ferite, alcune da armi da fuoco: le ferite sugli arti inferiori che notiamo durante la visita non mentono. "Eravamo picchiati ogni giorno", racconta L. K., 22 anni dal Gambia. "Se non hai soldi, vieni detenuto finché non li trovi. È un andirivieni continuo, un business organizzato contro noi neri. Nel frattempo vieni picchiato nelle celle, con bastoni o barre di metallo, finché i tuoi parenti non mandano i soldi che servono per uscire. Mi picchiavano perché con la gamba ferita zoppicavo e rallentavo le file. Anche le donne incinte vengono picchiate. Ho visto bastonare un ragazzo finché non è morto".
Sempre più numerosi sono i ragazzi che sbarcano con fratture: sono il frutto dei lavori forzati nei cantieri di Tripoli e di altre città libiche gestiti da bande criminali o dei colpi ricevuti nei campi. T.A., 23 anni dalla Nigeria, è stato gettato dal terzo piano dell'edificio dove stava lavorando perché si era rifiutato di continuare a lavorare senza paga. Nella caduta si è procurato fratture multiple alla gamba sinistra, ma non ha mai visto un dottore o un antidolorifico: "Un dolore insopportabile. Per 3 settimane e 4 giorni ho vissuto l'inferno. Non scorderò mai quei giorni. Nel cofano della macchina che mi ha portato sulla spiaggia della partenza sono svenuto. Sono vivo solo grazie a Dio e agli amici che mi hanno tenuto vivo sulla barca. Non ricordo nulla, solo che sono sbarcato in Italia il 23 giugno".
Anche P. S., 21 anni dalla Nigeria, è stato sequestrato da gruppi armati e costretto a lavorare notte e giorno, senza cibo, nei cantieri di Tripoli. Anche lui si è ribellato ai suoi sequestratori che l'hanno buttato giù dall'edificio. Ha visto morire suo cugino. Lui è miracolosamente sopravvissuto, ma ha subito una gravissima lesione, una frattura dell'articolazione tibio-tarsica con esposizione ossea. La caviglia è stata curata solo con acqua calda e P. S. ha sviluppato un'infezione alle ossa. Quando è arrivato in Italia, l'abbiamo portato subito all'ospedale di Siracusa, dove è stato sottoposto a due interventi. Non si sa se tornerà a camminare autonomamente.
Anche le patologie mentali sono ormai diffuse: i maltrattamenti e le torture subite nei campi libici lasciano tracce e traumi profondi. "Anche sulle strade sei sempre a rischio. Se sei nero e guardi una donna libica rischi guai, perciò camminiamo sempre con gli occhi rivolti a terra. Da nero ti senti sempre in pericolo: puoi venire aggredito, ogni istante, derubato, da gruppi armati, trafficanti e bande criminali organizzate. Sono tutti armati in Libia, persino i ragazzi più giovani, persino bambini".
"Quando siamo fuggiti dal campo, nella sparatoria ho visto morire due dei miei compagni di viaggio, ammazzati di fronte a me", racconta Demba. Tanti hanno visto o assistito alla morte di fratelli, amici e compagni sequestrati. I volti emaciati e denutriti di chi arriva dalla Libia assomigliano a quelli dei sopravvissuti. Le 250.000 persone, migranti e potenziali richiedenti asilo, intrappolate in quel Paese hanno bisogno di corridoi umanitari e di protezione internazionale, non di un intervento armato. Ma l'Europa deve ancora decidere che da che parte stare.
di Flore Murard-Yovanovitch
Il traffico di esseri umani continua a Kufra, un inferno dove ogni mese arrivano circa 12 mila migranti dal Sudan e dai Paesi più poveri del Corno d'Africa. E continua anche nella città di Zuara, vicina alla Tunisia, da dove ogni giorno partono pescherecci e barche alla volta dell'Europa. La grande maggioranza delle persone che passano dall'ambulatorio di Emergency sulla banchina del porto di Augusta, è passata dalla Libia e ancora li vediamo tremare mentre raccontano quello che hanno passato negli ultimi mesi.
A., 30 anni, somalo: "Nel campo di detenzione di Gharyan eravamo 400 persone, incastrati gli uni sugli altri, gambe e ginocchia rannicchiate, non riesci mai a dormire veramente. L'acqua sa di benzina: ne danno solo un bicchiere al giorno. Alcuni bevono l'acqua salata dei bagni, che sono sempre sporchi. Quando qualcuno si ammala, non viene curato e non viene portato in ospedale. Ogni tanto qualcuno sparisce. C'è chi riesce a pagare la "cifra" richiesta dai poliziotti e dalle guardie per scappare, ma sono pochi; gli altri spariscono e nessuno ne sa più niente".
Tre ragazzi somali mi mostrano le gambe e i piedi pieni di ferite, alcune da armi da fuoco: le ferite sugli arti inferiori che notiamo durante la visita non mentono. "Eravamo picchiati ogni giorno", racconta L. K., 22 anni dal Gambia. "Se non hai soldi, vieni detenuto finché non li trovi. È un andirivieni continuo, un business organizzato contro noi neri. Nel frattempo vieni picchiato nelle celle, con bastoni o barre di metallo, finché i tuoi parenti non mandano i soldi che servono per uscire. Mi picchiavano perché con la gamba ferita zoppicavo e rallentavo le file. Anche le donne incinte vengono picchiate. Ho visto bastonare un ragazzo finché non è morto".
Sempre più numerosi sono i ragazzi che sbarcano con fratture: sono il frutto dei lavori forzati nei cantieri di Tripoli e di altre città libiche gestiti da bande criminali o dei colpi ricevuti nei campi. T.A., 23 anni dalla Nigeria, è stato gettato dal terzo piano dell'edificio dove stava lavorando perché si era rifiutato di continuare a lavorare senza paga. Nella caduta si è procurato fratture multiple alla gamba sinistra, ma non ha mai visto un dottore o un antidolorifico: "Un dolore insopportabile. Per 3 settimane e 4 giorni ho vissuto l'inferno. Non scorderò mai quei giorni. Nel cofano della macchina che mi ha portato sulla spiaggia della partenza sono svenuto. Sono vivo solo grazie a Dio e agli amici che mi hanno tenuto vivo sulla barca. Non ricordo nulla, solo che sono sbarcato in Italia il 23 giugno".
Anche P. S., 21 anni dalla Nigeria, è stato sequestrato da gruppi armati e costretto a lavorare notte e giorno, senza cibo, nei cantieri di Tripoli. Anche lui si è ribellato ai suoi sequestratori che l'hanno buttato giù dall'edificio. Ha visto morire suo cugino. Lui è miracolosamente sopravvissuto, ma ha subito una gravissima lesione, una frattura dell'articolazione tibio-tarsica con esposizione ossea. La caviglia è stata curata solo con acqua calda e P. S. ha sviluppato un'infezione alle ossa. Quando è arrivato in Italia, l'abbiamo portato subito all'ospedale di Siracusa, dove è stato sottoposto a due interventi. Non si sa se tornerà a camminare autonomamente.
Anche le patologie mentali sono ormai diffuse: i maltrattamenti e le torture subite nei campi libici lasciano tracce e traumi profondi. "Anche sulle strade sei sempre a rischio. Se sei nero e guardi una donna libica rischi guai, perciò camminiamo sempre con gli occhi rivolti a terra. Da nero ti senti sempre in pericolo: puoi venire aggredito, ogni istante, derubato, da gruppi armati, trafficanti e bande criminali organizzate. Sono tutti armati in Libia, persino i ragazzi più giovani, persino bambini".
"Quando siamo fuggiti dal campo, nella sparatoria ho visto morire due dei miei compagni di viaggio, ammazzati di fronte a me", racconta Demba. Tanti hanno visto o assistito alla morte di fratelli, amici e compagni sequestrati. I volti emaciati e denutriti di chi arriva dalla Libia assomigliano a quelli dei sopravvissuti. Le 250.000 persone, migranti e potenziali richiedenti asilo, intrappolate in quel Paese hanno bisogno di corridoi umanitari e di protezione internazionale, non di un intervento armato. Ma l'Europa deve ancora decidere che da che parte stare.
di Flore Murard-Yovanovitch
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