Di guerra non si muore solo al fronte. Oltre il 10% dei condannati alla pena capitale negli Stati Uniti, attualmente si calcola siano almeno 300 persone, sono degli ex combattenti, dei reduci dei tanti conflitti nei quali il paese ha impegnato i propri soldati nel corso dell’ultimo mezzo secolo.
I dati del rapporto del Centro d’informazione sulla pena capitale, il Dpic, diffuso recentemente a Washington in occasione del Veteran’s day, la giornata in cui l’America celebra i suoi uomini in divisa, parlano chiaro: i problemi psicologici e le conseguenze dello stress post-traumatico che i militari hanno riporato a casa dagli scenari di guerra, sono all’origine di una lunga serie di gravi patologie e di molti crimini efferati.
Secondo l’autorevole think-tank che si batte da anni contro la pena capitale, almeno 800mila veterani del Vietnam, oltre due terzi dei militari impegnati all’epoca dagli Stati Uniti, soffrono ancora oggi di disturbi molto seri, e questo a più di trent’anni dalla fine del conflitto nel Sud-est asiatico. A costoro si devono aggiungere i reduci dell’operazione Desert Storm del 1991, di cui oltre 175mila risultano affetti dalla cosiddetta “sindrome della Guerra del Golfo” che oltre a disturbi mentali sembra sia all’origine anche di un numero elevato di tumori cerebrali. Infine, altri 300mila veterani dell’Afghanistan e dell’ultima stagione delle guerre irachene, mostrano chiari segni di instabilità e di un grave stress. Di fronte a questo, i programmi di riabilitazione e di assistenza psicologica varati dalle forze armate o dall’amministrazione federale, risultano rari, carenti, quando non del tutto assenti.
«Il vero problema — denunciano i responsabili del Dpic — è che per quanto gli Usa non cessino di celebrare con rispetto e gratitudine chi ha messo la propria a vita protezione del paese, coloro che al fronte hanno subito ferite non facilmente cicatrizzabili, come quelle che riguardano la loro psiche, ricevono spesso un’accoglienza del tutto diversa». Dai veterani ci si aspetta un comportamento esemplare, al punto che le loro défaillance sono spesso punite in modo ancor più duro rispetto al resto della popolazione. «Se a causa del loro stato mentale si macchiano di qualche crimine, prosegue il rapporto, sono giudicati come i peggiori criminali per la cui sorte è inutile evocare la grazia o sentimenti di pietà umana».
Eppure, diversi fatti di cronaca che hanno colpito l’opinione pubblica americana indicano chiaramente come in conseguenza di quanto avevano vissuto al fronte, molti di questi veterani si siano trasformati in autentiche “bombe umane” pronte ad esplodere una volta tornati a casa. Come accaduto a Andrew Brannan, che aveva combattuto in Vietnam quando aveva solo 21 anni e aveva ottenuto per questo encomi e riconoscimenti, giustiziato in Georgia all’inizio di quest’anno dopo essere stato condannato per aver ucciso un poliziotto nel 1998. Nel video delle forze dell’ordine che documenta l’omicidio, si vede l’uomo, fermato per un banale controllo stradale, scendere dal suo pick-up e urlare «sono qui, ammazzatemi, sono un fottuto veterano di guerra», prima di impugnare un revolver e sparare nove colpi all’indirizzo dell’agente.
Del resto, era un reduce dei Marines anche il responsabile del più grave attentato, compiuto dai “terroristi domestici” dell’estrema destra, che sia avvenuto nel paese prima dell’attacco alle Twin Towers: la strage che il 19 aprile del 1995 fece 168 vittime e 700 feriti a Oklahoma City. Condannato e giustiziato nel 2001 nel carcere di Terre Haute nell’Indiana, Timothy McVeigh aveva 26 anni quando compì l’eccidio e aveva lasciato l’Us Army solo 4 anni prima, dopo aver combattuto in Irak.
Che nel paese questo sia un tema di grande e drammatica attualità, è stato del resto evidenziato anche dalla scelta di Clint Eastwood di girare lo scorso anno American Sniper, un film che racconta la storia di un tiratore scelto dei Marines, impiegato in Iraq, Chris Kyle, che dopo aver sofferto egli stesso di problemi psicologici una volta tornato negli Stati Uniti, sarà ucciso nel 2013 da un altro veterano, disadattato come lui.
Secondo l’autorevole think-tank che si batte da anni contro la pena capitale, almeno 800mila veterani del Vietnam, oltre due terzi dei militari impegnati all’epoca dagli Stati Uniti, soffrono ancora oggi di disturbi molto seri, e questo a più di trent’anni dalla fine del conflitto nel Sud-est asiatico. A costoro si devono aggiungere i reduci dell’operazione Desert Storm del 1991, di cui oltre 175mila risultano affetti dalla cosiddetta “sindrome della Guerra del Golfo” che oltre a disturbi mentali sembra sia all’origine anche di un numero elevato di tumori cerebrali. Infine, altri 300mila veterani dell’Afghanistan e dell’ultima stagione delle guerre irachene, mostrano chiari segni di instabilità e di un grave stress. Di fronte a questo, i programmi di riabilitazione e di assistenza psicologica varati dalle forze armate o dall’amministrazione federale, risultano rari, carenti, quando non del tutto assenti.
«Il vero problema — denunciano i responsabili del Dpic — è che per quanto gli Usa non cessino di celebrare con rispetto e gratitudine chi ha messo la propria a vita protezione del paese, coloro che al fronte hanno subito ferite non facilmente cicatrizzabili, come quelle che riguardano la loro psiche, ricevono spesso un’accoglienza del tutto diversa». Dai veterani ci si aspetta un comportamento esemplare, al punto che le loro défaillance sono spesso punite in modo ancor più duro rispetto al resto della popolazione. «Se a causa del loro stato mentale si macchiano di qualche crimine, prosegue il rapporto, sono giudicati come i peggiori criminali per la cui sorte è inutile evocare la grazia o sentimenti di pietà umana».
Eppure, diversi fatti di cronaca che hanno colpito l’opinione pubblica americana indicano chiaramente come in conseguenza di quanto avevano vissuto al fronte, molti di questi veterani si siano trasformati in autentiche “bombe umane” pronte ad esplodere una volta tornati a casa. Come accaduto a Andrew Brannan, che aveva combattuto in Vietnam quando aveva solo 21 anni e aveva ottenuto per questo encomi e riconoscimenti, giustiziato in Georgia all’inizio di quest’anno dopo essere stato condannato per aver ucciso un poliziotto nel 1998. Nel video delle forze dell’ordine che documenta l’omicidio, si vede l’uomo, fermato per un banale controllo stradale, scendere dal suo pick-up e urlare «sono qui, ammazzatemi, sono un fottuto veterano di guerra», prima di impugnare un revolver e sparare nove colpi all’indirizzo dell’agente.
Del resto, era un reduce dei Marines anche il responsabile del più grave attentato, compiuto dai “terroristi domestici” dell’estrema destra, che sia avvenuto nel paese prima dell’attacco alle Twin Towers: la strage che il 19 aprile del 1995 fece 168 vittime e 700 feriti a Oklahoma City. Condannato e giustiziato nel 2001 nel carcere di Terre Haute nell’Indiana, Timothy McVeigh aveva 26 anni quando compì l’eccidio e aveva lasciato l’Us Army solo 4 anni prima, dopo aver combattuto in Irak.
Che nel paese questo sia un tema di grande e drammatica attualità, è stato del resto evidenziato anche dalla scelta di Clint Eastwood di girare lo scorso anno American Sniper, un film che racconta la storia di un tiratore scelto dei Marines, impiegato in Iraq, Chris Kyle, che dopo aver sofferto egli stesso di problemi psicologici una volta tornato negli Stati Uniti, sarà ucciso nel 2013 da un altro veterano, disadattato come lui.
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