Nigeriana, 22 anni, era costretta a prostituirsi. Ora ha denunciato i trafficanti
C’è chi l’ha insultata, chi l’ha picchiata quando si è rifiutata di dire di sì ad alcune richieste. C’è chi l’ha violentata, chi ha preso quello che voleva e non l’ha pagata, e chi l’ha tenuta prigioniera. In tanti le stanno dando la caccia anche se Jasmine ha solo 22 anni. La trattano come un oggetto di loro proprietà, compreso un ragazzo che a dicembre l’ha messa incinta e che sta insistendo perché abortisca.
In cinque mesi in Italia soltanto una persona ha aiutato Jasmine a liberarsi dalla schiavitù in cui era finita: un prete incontrato per caso in treno. Gli altri - italiani e stranieri - l’hanno ingannata e sfruttata senza alcuna pietà. Come accade a tutte le donne finite nelle mani dei trafficanti: dopo droga e armi sono loro il terzo business più redditizio nel mondo.
Negli ultimi due anni il numero di nigeriane arrivate in Italia attraverso il Mediterraneo è esploso all’improvviso: nel 2014 sono sbarcate in 1454, tre volte di più delle 433 del 2013. E sono state 4397 alla fine di ottobre del 2015. Dal mese di luglio di quest’anno interi barconi carichi di donne tra i 16 e i 25 anni sono stati intercettati in mare. I Cie si sono riempiti di ragazze destinate alla strada. Non è più solo un fenomeno da combattere ma un’emergenza da sconfiggere al più presto.
Non c’è nulla di semplice, però. E Jasmine lo sa bene. «Non volevo fare la prostituta», racconta. «Volevo venire in Europa per trovare un lavoro ma non quello». Ma ha un figlio di tre anni, una madre malata, un padre assente e dei fratelli più piccoli da mantenere. Non è mai andata a scuola, non sa né leggere né scrivere. Deve assolutamente lavorare. Parla con un «brother», uno dei ragazzi che gestiscono le partenze in Europa, ottiene la promessa di poter guadagnare senza prostituirsi e si mette in viaggio.
Attraversa il deserto, arriva in Libia. «Volevo fermarmi lì», racconta. Ma i brothers hanno altri progetti: «Sei destinata all’Europa»; e la mettono su un gommone. Arriva a Cagliari, resta nel Cie finché non vanno a prenderla due ragazzi. È settembre quando Jasmine viene chiusa in un appartamento vicino a Padova. Resta un mese segregata. Una sera la costringono a vestirsi con abiti provocanti e la portano in strada. Protesta ma non serve a nulla: «E’ l’unico lavoro che puoi fare», le dicono gli uomini che la tengono prigioniera. Alle quattro del mattino torna nell’appartamento. È stanca, ha fame ma i ricatti non sono finiti: «Mi sfamavano solo se davo i soldi della serata. Se non guadagnavo nulla restavo a digiuno».
In cinque mesi in Italia soltanto una persona ha aiutato Jasmine a liberarsi dalla schiavitù in cui era finita: un prete incontrato per caso in treno. Gli altri - italiani e stranieri - l’hanno ingannata e sfruttata senza alcuna pietà. Come accade a tutte le donne finite nelle mani dei trafficanti: dopo droga e armi sono loro il terzo business più redditizio nel mondo.
Negli ultimi due anni il numero di nigeriane arrivate in Italia attraverso il Mediterraneo è esploso all’improvviso: nel 2014 sono sbarcate in 1454, tre volte di più delle 433 del 2013. E sono state 4397 alla fine di ottobre del 2015. Dal mese di luglio di quest’anno interi barconi carichi di donne tra i 16 e i 25 anni sono stati intercettati in mare. I Cie si sono riempiti di ragazze destinate alla strada. Non è più solo un fenomeno da combattere ma un’emergenza da sconfiggere al più presto.
La Riflessione
8 febbraio, prima Giornata internazionale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone mentre la Comunità di sant’Egidio e altre associazioni stanno organizzandosi per mettere a disposizione luoghi protetti dove accoglierle. In questo momento ci sono circa 50 ragazze «che sono state collocate in piccoli centri in tutta Italia e stanno pian piano costruendo una via di autonomia alternativa allo sfruttamento», spiegano Daniela Pompei e Monica Attias della Comunità di Sant’Egidio.
Non c’è nulla di semplice, però. E Jasmine lo sa bene. «Non volevo fare la prostituta», racconta. «Volevo venire in Europa per trovare un lavoro ma non quello». Ma ha un figlio di tre anni, una madre malata, un padre assente e dei fratelli più piccoli da mantenere. Non è mai andata a scuola, non sa né leggere né scrivere. Deve assolutamente lavorare. Parla con un «brother», uno dei ragazzi che gestiscono le partenze in Europa, ottiene la promessa di poter guadagnare senza prostituirsi e si mette in viaggio.
Attraversa il deserto, arriva in Libia. «Volevo fermarmi lì», racconta. Ma i brothers hanno altri progetti: «Sei destinata all’Europa»; e la mettono su un gommone. Arriva a Cagliari, resta nel Cie finché non vanno a prenderla due ragazzi. È settembre quando Jasmine viene chiusa in un appartamento vicino a Padova. Resta un mese segregata. Una sera la costringono a vestirsi con abiti provocanti e la portano in strada. Protesta ma non serve a nulla: «E’ l’unico lavoro che puoi fare», le dicono gli uomini che la tengono prigioniera. Alle quattro del mattino torna nell’appartamento. È stanca, ha fame ma i ricatti non sono finiti: «Mi sfamavano solo se davo i soldi della serata. Se non guadagnavo nulla restavo a digiuno».
Jasmine vive per tre settimane così. Una notte si fa coraggio: dopo essere stata con un cliente si fa lasciare lontano dai brothers e fugge. È senza documenti ma ha abbastanza soldi per acquistare il biglietto di un autobus diretto alla stazione e un altro per un treno verso sud. La libertà dura poco, in treno conosce un ragazzo che la porta vicino a Firenze e la fa tornare in un altro giro di prostituzione. Un mese dopo Jasmine fugge di nuovo. Stavolta sul treno incontra un prete africano, è lui a metterla in contatto con la Comunità di Sant’Egidio.
Da gennaio Jasmine ha iniziato a imparare a leggere e scrivere. Ha deciso di denunciare i suoi sfruttatori. Rischia molto a farlo ma è l’unico modo che ha per avere il permesso di soggiorno e trovare un lavoro. Ha saputo di essere incinta ma non vuole abortire. Di giorno in giorno è più sicura: «Posso farcela», dice.
Forza Jasmine...non sei più sola!
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