L’Ocse ha rilasciato un rapporto sulle prospettive migratorie che ha dimostrato che l’immigrazione non ha un impatto negativo sul mercato del lavoro, non rafforza i deficit di bilancio, e gli immigrati contribuiscono più di quanto non ricevano in termini di benefici individuali.
«Lontano dal rappresentare un problema, i rifugiati possono e devono essere quindi parte della soluzione a molte delle sfide che le nostre società si trovano ad affrontare Ma questo dipenderà in gran parte dalla capacità di progettare e realizzare efficaci misure di integrazione», ha dichiarato il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurría durante la Conferenza congiunta di Parigi del 28 gennaio. Ma come favorire l’integrazione dei rifugiati? Ce lo dice l’Ocse nel nuovo rapporto Making Integration Work: Refugees and others in need of protection. Pubblicato a fine gennaio 2016, il documento mette in evidenza esempi di buone pratiche per rimuovere i principali ostacoli e sostenere un’integrazione dei rifugiati, e dei loro figli, che vada oltre la prima fase di emergenza.
«Nonostante i sistemi di integrazione siano sostanzialmente migliorati in molti paesi negli ultimi decenni, rimane ancora molta strada da fare perché i rifugiati siano pienamente integrati della società», scrivono gli autori. «Mentre in alcuni paesi dell'Europa centrale e orientale l'integrazione dei rifugiati è un'esperienza del tutto nuova, anche quelli con una lunga storia di integrazione stanno mostrando evidenti difficoltà di governare l’imponente ondata di flussi migratori», precisa l’Ocse. «I richiedenti asilo possono attendere mesi se non anni prima di ottenere lo status di rifugiato politico. Nel frattempo rimangono bloccati nei centri di accoglienza senza ricevere formazione linguistica e altre forme di sostegno all’integrazione. Se e quando finalmente gli viene concessa la protezione internazionale, la loro capacità di integrarsi può rivelarsi definitivamente compromessa». Secondo l’organizzazione è necessario quindi «un investimento deciso ed immediato per aiutare i rifugiati a stabilirsi, adattarsi e sviluppare le proprie competenze». Ad esempio, in paesi come Estonia, Germania, Grecia, Lussemburgo e Turchia, i richiedenti asilo beneficiano di misure di sostengo all’integrazione che vanno oltre la mera formazione linguistica. «Anche se i corsi non sempre sono disponibili», scrive l’Ocse.
Tutti i richiedenti asilo dovrebbero anche godere di un rapido accesso al mercato del lavoro. Il rapporto evidenzia che le barriere di accesso al lavoro per i rifugiati e i richiedenti asilo, spinge i migranti umanitari a ricorrere al lavoro nero dove vengono impiegati in attività qualitativamente inferiori rispetto al titolo di studio e alle competenze possedute. Se in Giappone l’accesso al mercato del lavoro da parte dei richiedenti asilo è vietato senza permesso di lavoro, in Svezia è immediato. Una best practice che intende dare ai richiedenti asilo l’opportunità di provvedere a sé stessi senza dipendere in toto dal sistema di accoglienza e di assistenza. In tutti gli altri paesi, l’accesso al mercato da parte dei migranti umanitari in ammissione temporanea prevede invece un periodo di attesa che dal momento in cui la richiesta di asilo viene presentata va da un minimo di un mese in Portogallo fino a dodici mesi nel Regno Unito.
In un rapporto del settembre del 2014, l’organizzazione Pro Asylum ha denunciato che in tutti gli stati c’è un fenomeno di emergenza abitativa per i rifugiati. Per l’Ocse occorre almeno evitare situazioni in cui i nuovi arrivi siano collocati in piccoli centri di cintura trascurati dalla popolazione autoctona, aree dove gli alloggi sono disponibili a basso costo. “Una strategia di intervento ideale dovrebbe prendere in considerazione i profili individuali dei migranti e le loro prospettive di integrazione nelle comunità locali”. Nella maggior parte dei paesi, invece, i criteri di assegnazione degli alloggi ai migranti umanitari si concentrano in spazi ristretti tra comunità assolutamente eterogenee, accentuando i rischi di conflitti fra etnie diverse. A questo punto, il rapporto fa riferimento a Estonia, Danimarca, Finlandia, Nuova Zelanda e Portogallo. Qui i migranti umanitari vengono sistemati in luoghi dove è possibile trovare anche opportunità di lavoro. Ma, ancora una volta, la best practice viene individuata in Svezia, dove la dispersione abitativa è disciplinata attraverso accordi tra i comuni e il governo centrale. I nuovi arrivi sono sistematicamente informati delle opportunità di lavoro dall’ufficio di collocamento locale dal momento in cui ricevono il loro permesso di soggiorno.
Ma se i governi fanno le politiche, sono le organizzazioni non governative e comunitarie a favorire l’interazione tra gli immigrati e i paesi di destinazione. Ad esempio i mentorship program nei paesi Scandinavi, se correttamente progettati e monitorati, forniscono ai migranti informazioni sulla società di accoglienza, il mercato del lavoro, le sue istituzioni e le questioni pratiche.
Infine, il fenomeno dei minori non accompagnati richiedenti asilo nell’Unione europea che per le caratteristiche e le dimensioni che ha assunto, si pone come emblematico. Per l’Ocse, prendersi cura di loro comporta costi più elevati rispetto ad altri gruppi di rifugiati. Ad esempio in Austria e Norvegia la spesa per i minori non accompagnati è da tre a cinque volte superiore a quello per adulti richiedenti asilo. “Ma questo non deve impedire ai paesi d’accoglienza di stanziare fondi per consentire ai minori non accompagnati di imparare rapidamente la lingua, acquisire le competenze necessarie per un’integrazione a lungo termine e superare gli effetti delle esperienze traumatiche e violente che hanno spesso subito”, precisano gli autori del rapporto. Esempi di buona pratica sono quelli che cercano famiglie affidatarie per i minori stranieri non accompagnati. Una soluzione attualmente adottata in paesi come Belgio, Canada, Repubblica Ceca, Estonia, Germania, Irlanda Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Spagna, Svezia , Turchia, Regno Unito e Stati Uniti.
La pubblicazione disponibile in lingua inglese è scaricabile qui
Monica Straniero
«Nonostante i sistemi di integrazione siano sostanzialmente migliorati in molti paesi negli ultimi decenni, rimane ancora molta strada da fare perché i rifugiati siano pienamente integrati della società», scrivono gli autori. «Mentre in alcuni paesi dell'Europa centrale e orientale l'integrazione dei rifugiati è un'esperienza del tutto nuova, anche quelli con una lunga storia di integrazione stanno mostrando evidenti difficoltà di governare l’imponente ondata di flussi migratori», precisa l’Ocse. «I richiedenti asilo possono attendere mesi se non anni prima di ottenere lo status di rifugiato politico. Nel frattempo rimangono bloccati nei centri di accoglienza senza ricevere formazione linguistica e altre forme di sostegno all’integrazione. Se e quando finalmente gli viene concessa la protezione internazionale, la loro capacità di integrarsi può rivelarsi definitivamente compromessa». Secondo l’organizzazione è necessario quindi «un investimento deciso ed immediato per aiutare i rifugiati a stabilirsi, adattarsi e sviluppare le proprie competenze». Ad esempio, in paesi come Estonia, Germania, Grecia, Lussemburgo e Turchia, i richiedenti asilo beneficiano di misure di sostengo all’integrazione che vanno oltre la mera formazione linguistica. «Anche se i corsi non sempre sono disponibili», scrive l’Ocse.
Tutti i richiedenti asilo dovrebbero anche godere di un rapido accesso al mercato del lavoro. Il rapporto evidenzia che le barriere di accesso al lavoro per i rifugiati e i richiedenti asilo, spinge i migranti umanitari a ricorrere al lavoro nero dove vengono impiegati in attività qualitativamente inferiori rispetto al titolo di studio e alle competenze possedute. Se in Giappone l’accesso al mercato del lavoro da parte dei richiedenti asilo è vietato senza permesso di lavoro, in Svezia è immediato. Una best practice che intende dare ai richiedenti asilo l’opportunità di provvedere a sé stessi senza dipendere in toto dal sistema di accoglienza e di assistenza. In tutti gli altri paesi, l’accesso al mercato da parte dei migranti umanitari in ammissione temporanea prevede invece un periodo di attesa che dal momento in cui la richiesta di asilo viene presentata va da un minimo di un mese in Portogallo fino a dodici mesi nel Regno Unito.
In un rapporto del settembre del 2014, l’organizzazione Pro Asylum ha denunciato che in tutti gli stati c’è un fenomeno di emergenza abitativa per i rifugiati. Per l’Ocse occorre almeno evitare situazioni in cui i nuovi arrivi siano collocati in piccoli centri di cintura trascurati dalla popolazione autoctona, aree dove gli alloggi sono disponibili a basso costo. “Una strategia di intervento ideale dovrebbe prendere in considerazione i profili individuali dei migranti e le loro prospettive di integrazione nelle comunità locali”. Nella maggior parte dei paesi, invece, i criteri di assegnazione degli alloggi ai migranti umanitari si concentrano in spazi ristretti tra comunità assolutamente eterogenee, accentuando i rischi di conflitti fra etnie diverse. A questo punto, il rapporto fa riferimento a Estonia, Danimarca, Finlandia, Nuova Zelanda e Portogallo. Qui i migranti umanitari vengono sistemati in luoghi dove è possibile trovare anche opportunità di lavoro. Ma, ancora una volta, la best practice viene individuata in Svezia, dove la dispersione abitativa è disciplinata attraverso accordi tra i comuni e il governo centrale. I nuovi arrivi sono sistematicamente informati delle opportunità di lavoro dall’ufficio di collocamento locale dal momento in cui ricevono il loro permesso di soggiorno.
Ma se i governi fanno le politiche, sono le organizzazioni non governative e comunitarie a favorire l’interazione tra gli immigrati e i paesi di destinazione. Ad esempio i mentorship program nei paesi Scandinavi, se correttamente progettati e monitorati, forniscono ai migranti informazioni sulla società di accoglienza, il mercato del lavoro, le sue istituzioni e le questioni pratiche.
Infine, il fenomeno dei minori non accompagnati richiedenti asilo nell’Unione europea che per le caratteristiche e le dimensioni che ha assunto, si pone come emblematico. Per l’Ocse, prendersi cura di loro comporta costi più elevati rispetto ad altri gruppi di rifugiati. Ad esempio in Austria e Norvegia la spesa per i minori non accompagnati è da tre a cinque volte superiore a quello per adulti richiedenti asilo. “Ma questo non deve impedire ai paesi d’accoglienza di stanziare fondi per consentire ai minori non accompagnati di imparare rapidamente la lingua, acquisire le competenze necessarie per un’integrazione a lungo termine e superare gli effetti delle esperienze traumatiche e violente che hanno spesso subito”, precisano gli autori del rapporto. Esempi di buona pratica sono quelli che cercano famiglie affidatarie per i minori stranieri non accompagnati. Una soluzione attualmente adottata in paesi come Belgio, Canada, Repubblica Ceca, Estonia, Germania, Irlanda Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Spagna, Svezia , Turchia, Regno Unito e Stati Uniti.
La pubblicazione disponibile in lingua inglese è scaricabile qui
Monica Straniero
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