Famiglia Cristiana
Stefano Pasta
Tre agenzie Onu – Oim, Unhcr e Unicef – lanciano un appello garantire «la sicurezza di coloro che fuggono da conflitti e disperazione». Lo chiedono all’Europa che invece pensa ad alzare muri. Mentre Medici senza frontiere, al confine fra Grecia e Macedonia, si trova a curare ferite persino da morsi di cani. Cani della polizia.
Dal settembre 2015 oltre 340 Aylan sono annegati nel Cimitero Mediterraneo.
In media, due bambini ogni giorno fanno la stessa fine del piccolo siriano che sei mesi fa aveva attirato l’attenzione di tutto il mondo. In realtà, il bilancio potrebbe essere ancora peggiore, considerato il numero di corpi dispersi in mare, che finiscono mangiati dai pesci e corrosi dal sale.
Da alcuni mesi il “fronte” in cui si muore cercando di entrare in Europa è soprattutto quello orientale, ma anche nel Canale di Sicilia, martedì 23 febbraio, sono stati recuperati quattro cadaveri. Per lanciare l’allarme sull’aumento delle morti in mare, tre agenzie delle Nazioni Unite – l’Oim, l’Unhcr e l’Unicef – hanno lanciato un appello, chiedendo di garantire «la sicurezza di coloro che fuggono da conflitti e disperazione».
«Non possiamo voltarci dall’altra parte davanti alla tragedia della perdita di così tante vite innocenti, o fallire nel fornire risposte adeguate rispetto ai pericoli che molti altri bambini stanno affrontando», dice il direttore dell’Unicef Anthony Lake.Spiega il motivo per cui famiglie siriane rischiano la vita per scappare da una guerra ormai giunta alla fine del quinto anno: «Nessuno metterebbe un bambino su una barca se fosse disponibile un’alternativa più sicura». Non c’è. E così rimane il tratto di Egeo che si estende fra la Turchia e la Grecia, una delle rotte che provoca più morti di rifugiati e migranti al mondo. Mari agitati durante l’inverno, imbarcazioni inadeguate e sovraccariche, mezzi di salvataggio insufficienti e inadatti aumentano il rischio di naufragi, rendendo il viaggio molto più pericoloso.
«Non possiamo voltarci dall’altra parte davanti alla tragedia della perdita di così tante vite innocenti, o fallire nel fornire risposte adeguate rispetto ai pericoli che molti altri bambini stanno affrontando», dice il direttore dell’Unicef Anthony Lake.Spiega il motivo per cui famiglie siriane rischiano la vita per scappare da una guerra ormai giunta alla fine del quinto anno: «Nessuno metterebbe un bambino su una barca se fosse disponibile un’alternativa più sicura». Non c’è. E così rimane il tratto di Egeo che si estende fra la Turchia e la Grecia, una delle rotte che provoca più morti di rifugiati e migranti al mondo. Mari agitati durante l’inverno, imbarcazioni inadeguate e sovraccariche, mezzi di salvataggio insufficienti e inadatti aumentano il rischio di naufragi, rendendo il viaggio molto più pericoloso.
Tra i profughi che transitano dalla Turchia alla Grecia i bambini rappresentano il 36%. Cresce la probabilità che anneghino nel Mar Egeo: durante le prime sei settimane del 2016 sono morte 410 persone delle 80.000 che hanno attraversato il Mediterraneo orientale, cioè un aumento pari a 35 volte le morti dello stesso periodo dell’anno precedente.
Filippo Grandi, l’italiano che da quest’anno guida l’Alto Commissariato per i Rifugiati (Unhcr), sottolinea come l’assenza di alternative ai “barconi della morte” sia la conseguenza di una scelta precisa dell’Europa:«C’è bisogno di maggiori sforzi per combattere il traffico di persone: promuovere soluzioni che consentano alle persone di spostarsi in modo legale e sicuro, ad esempio attraverso programmi di reinsediamento e ricongiungimento familiare, dovrebbe essere un’assoluta priorità se vogliamo ridurre il numero delle morti».
È quello che stanno sperimentando i corridoi umanitari realizzati dalla Comunità di Sant’Egidio insieme alla Federazione delle chiese evangeliche (Fcei), la Tavola valdese e il Governo italiano. Con questa iniziativa pilota arriveranno in Italia – senza rischiare la vita, senza riempire le tasche dei trafficanti – mille profughi che ora si trovano nei campi di Libano, Etiopia e Marocco. La prima famiglia – quella di Falak, una bimba malata di tumore – è arrivata il 4 febbraio, mentre lunedì 29 sbarcheranno a Fiumicino 93 siriani, di cui 41 minori. Tra loro c'è anche Dia, che a otto anni ha perso una gamba sotto i colpi di un mortaio ad Homs: sarà accolto dalla Fondazione Zanardi a Bologna dove gli verrà costruita una protesi.
Filippo Grandi, l’italiano che da quest’anno guida l’Alto Commissariato per i Rifugiati (Unhcr), sottolinea come l’assenza di alternative ai “barconi della morte” sia la conseguenza di una scelta precisa dell’Europa:«C’è bisogno di maggiori sforzi per combattere il traffico di persone: promuovere soluzioni che consentano alle persone di spostarsi in modo legale e sicuro, ad esempio attraverso programmi di reinsediamento e ricongiungimento familiare, dovrebbe essere un’assoluta priorità se vogliamo ridurre il numero delle morti».
È quello che stanno sperimentando i corridoi umanitari realizzati dalla Comunità di Sant’Egidio insieme alla Federazione delle chiese evangeliche (Fcei), la Tavola valdese e il Governo italiano. Con questa iniziativa pilota arriveranno in Italia – senza rischiare la vita, senza riempire le tasche dei trafficanti – mille profughi che ora si trovano nei campi di Libano, Etiopia e Marocco. La prima famiglia – quella di Falak, una bimba malata di tumore – è arrivata il 4 febbraio, mentre lunedì 29 sbarcheranno a Fiumicino 93 siriani, di cui 41 minori. Tra loro c'è anche Dia, che a otto anni ha perso una gamba sotto i colpi di un mortaio ad Homs: sarà accolto dalla Fondazione Zanardi a Bologna dove gli verrà costruita una protesi.
Se c’è la volontà politica, insomma, le vie legali sono possibili e diventano il vero modo per contrastare i trafficanti. Per questo il Segretario generale dell’Onu ha convocato per il 30 marzo a Ginevra una riunione per affrontare a livello globale il tema della responsabilità condivisa, attraverso vie legali per l’ammissione di rifugiati siriani.
Intanto, l’Unhcr stigmatizza il comportamento di molti Stati europei: «Oltre l’85% di coloro che arrivano in Europa provengono dai dieci Paesi che producono più rifugiati al mondo. Rischiano la propria vita e quella dei figli per fuggire da guerre e persecuzioni e hanno bisogno di protezione internazionale. Eppure, ogni settimana che passa, sembra che alcuni Stati europei si stiano sempre più focalizzando su come allontanare rifugiati e migranti piuttosto che su come gestire responsabilmente questi flussi e lavorare a una soluzione comune. Spostano oltre il problema piuttosto che cercare di condividerne la responsabilità e mostrare solidarietà l’uno verso l’altro e verso coloro che hanno bisogno di protezione».
Tra le immagini di queste settimane vengono in mente le foto dei papà e delle mamme che spingono i figli di pochi anni a passare tra i fili spinati posizionati alle frontiere europee, o all’ultima denuncia di Medici senza Frontiere: «A Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia, le nostre équipe hanno curato più di 100 persone con ferite dovute a violenza, tra cui morsi di cane. Hanno detto di averle subite da parte della polizia».
Intanto, l’Unhcr stigmatizza il comportamento di molti Stati europei: «Oltre l’85% di coloro che arrivano in Europa provengono dai dieci Paesi che producono più rifugiati al mondo. Rischiano la propria vita e quella dei figli per fuggire da guerre e persecuzioni e hanno bisogno di protezione internazionale. Eppure, ogni settimana che passa, sembra che alcuni Stati europei si stiano sempre più focalizzando su come allontanare rifugiati e migranti piuttosto che su come gestire responsabilmente questi flussi e lavorare a una soluzione comune. Spostano oltre il problema piuttosto che cercare di condividerne la responsabilità e mostrare solidarietà l’uno verso l’altro e verso coloro che hanno bisogno di protezione».
Tra le immagini di queste settimane vengono in mente le foto dei papà e delle mamme che spingono i figli di pochi anni a passare tra i fili spinati posizionati alle frontiere europee, o all’ultima denuncia di Medici senza Frontiere: «A Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia, le nostre équipe hanno curato più di 100 persone con ferite dovute a violenza, tra cui morsi di cane. Hanno detto di averle subite da parte della polizia».
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