Corriere della Sera
La piccola ha 7 anni ed è malata di tumore: con il fratellino e i genitori saranno i primi ad arrivare da noi con un corridoio umanitario
Falak e la sua famiglia |
Tripoli (Libano) In un mese di lezioni online, seguite dallo schermo di un cellulare, Yasmine, la giovane mamma, ha imparato una gran quantità di parole italiane, che pronuncia con sorprendente precisione. «Facile», sostiene. Il piccolo Hussein, 6 anni, sa contare, incespica un po’ a partire dal quindici, ma apprende rapido anche lui. E alla domanda: che cosa farai una volta a Roma? Risponde diligente: «Studierò la lingua».
La famiglia Al Hourani si sta impegnando, come può, a un viaggio che è anche l’unica speranza: saranno i primi richiedenti asilo siriani — madre, padre e due figli — ad arrivare in Italia attraverso un corridoio umanitario. Prima degli altri perché non hanno tempo: la bambina, Falak, 7 anni, è molto malata. È stata già operata a un occhio, deve sottoporsi urgentemente alla chemioterapia.
È tutto pronto. La Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche e la Tavola Valdese hanno sottoscritto a dicembre il protocollo con Viminale e Farnesina. Un progetto pilota che, se s’innesca adesso con gli Al Hourani, può funzionare immediatamente per altre famiglie qui a Tripoli, nel Nord del Libano, e per 65 persone già individuate (grazie all’associazione Papa Giovanni XXIII) nel campo profughi «spontaneo» di Tel Abbaas, quasi al confine con la Siria. Maria Quinto, che da trent’anni si occupa di migrazioni per Sant’Egidio, e Simone Scotta, inviato dai valdesi, sono sul territorio da un mese per studiare i casi di «fragilità» (il criterio è questo) da mettere in lista: bambini, anziani, donne sole, malati, disabili. Non soltanto siriani, e non solo dal Libano. Sunniti, come gli Al Hourani, ma anche di altre religioni e nazionalità. La prima tranche calcola un totale di mille visti umanitari in due anni, con una quota di partenze anche dal Marocco. Spostamenti, alloggi e cure completamente finanziati dalle comunità religiose che promuovono il piano, in particolare dall’8 per mille.
Se comincia ad aprirsi, il corridoio può poi spalancarsi al resto d’Europa. Con il commissario Ue all’Immigrazione, Dimitri Avramopulos, è già fissato un incontro a marzo. È l’unica alternativa agli scafisti, spiegano gli organizzatori, ai giubbotti salvagente riempiti di segatura, ai gommoni che si ribaltano in un braccio di Egeo o a poche miglia dalla costa della Sicilia. «È con la strage di Lampedusa (3 ottobre 2013, ndr) che abbiamo avuto chiarissima l’assurdità insopportabile di queste morti in mare — racconta Maria Quinto, responsabile del progetto —. Dei corridoi umanitari si parla molto, ma non avevamo ancora trovato la chiave. Finché non abbiamo ristudiato la normativa e scovato la possibilità per gli Stati di concedere visti umanitari a validità territoriale». Il vantaggio per il Paese d’accoglienza è duplice: «Non spende un euro e può scegliere chi far entrare», perché il timbro finale non si ottiene senza controlli di sicurezza. A questa via, si potrebbe poi affiancare il meccanismo della «sponsorship», continua Quinto, che funziona già col Canada: uno sponsor — privato cittadino, associazione, chiesa, eccetera — si fa garante dell’arrivo e del sostentamento del richiedente asilo.
Il punto adesso è che l’esperimento parta, assieme a Falak: la famiglia ha già lasciato le impronte digitali in ambasciata a Beirut, compilando tutti i moduli, manca solo l’autorizzazione finale da Roma. Appello al governo italiano perché acceleri: la piccola non è in condizioni di aspettare, lo dicono anche i medici del Bambin Gesù che hanno esaminato le sue cartelle cliniche e sono attrezzati per curarla.
Per di più, il locale che papà Suliman ha recuperato in affitto dopo la fuga da Homs non è una casa adatta a una bimba malata. Duecento euro al mese per pochi metri quadrati aperti da una porta a vetri su una strada di rifiuti e carcasse d’auto. «Qui era economico», spiega Yasmine. Due poltrone, tre divani, un letto nascosto da un lenzuolo tirato come una tenda. Un fornellino a gas. Una ragnatela di cavi elettrici pericolosamente in bilico, su cui vigila Suliman che di lavoro aggiustava televisori e continua a farlo quando riesce.
Gli Al Hourani sono andati via da Homs due anni fa coi vestiti che avevano addosso, una busta di documenti e nient’altro, sotto le bombe. Hanno varcato il confine a bordo di un taxi e si sono fatti guidare dal passaparola per approdare ai piedi di quest’edificio dai muri forati come un gruviera, lasciati in ricordo dalla guerra civile.
È una storia comune a un milione di profughi siriani che affollano il Libano, tra accampamenti improvvisati, palazzi fatiscenti occupati e baracche in affitto. Simile a quella della famiglia di Deia, 10 anni, che per i colpi di mortaio a Homs ha perso una gamba, amputata malamente in un ambulatorio di fortuna. Subito dopo Falak, toccherà a lui passare dal corridoio umanitario, e potrà mettere una protesi. In quattro anni di esperienza per le strade sbilenche di Tripoli, con le sue stampelle quasi corre, ma anche lui attende con ansia la partenza. Alla domanda «come immagini l’Italia, che cosa ti aspetti?» sorride timido e risponde: «La gamba».
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