Domani, martedì 29 marzo, Mozn Hassan, la fondatrice del Centro Nazra per gli studi sul femminismo, dovrà comparire di fronte a un giudice del Cairo nell’ambito di un’inchiesta che va avanti da cinque anni sul finanziamento e il riconoscimento ufficiale delle organizzazioni indipendenti egiziane per i diritti umani.
Mozn Hassan |
L’inchiesta, avviata nel luglio 2011, mira a mettere il bavaglio alle organizzazioni non governative (Ong), sempre più viste come nemiche dallo stato egiziano. Finora, ha portato nel giugno 2013 alla condanna di 43 operatori locali o stranieri a pene da uno a cinque anni di carcere (in alcuni casi emesse in contumacia, in altri sospese) e alla chiusura di cinque Ong internazionali: l’Istituto nazionale democratico, Freedom House, il Centro internazionale per i giornalisti e la Fondazione Konrad Adenauer.
Sulla base della legge egiziana, i difensori dei diritti umani che agiscono senza che la loro attività sia stata riconosciuta dallo stato o che ricevono fondi dall’estero possono essere incriminati e, per questo secondo reato, a seguito di un emendamento proposto nel settembre 2014 dal presidente al-Sisi, possono essere condannati all’ergastolo (commutato automaticamente in 25 anni di carcere).
Il caso di Mozn Hassan, la cui organizzazione è stata peraltro riconosciuta nel 2007, non è per niente isolato.
Il 17 febbraio il ministero della Sanità ha disposto la chiusura del Centro Nadeem per la riabilitazione delle vittime della violenza e della tortura, sostenendo che lavorasse senza autorizzazione (concessa invece nel 1993).
A febbraio un tribunale ha imposto il divieto di espatrio a Hossan Bahgat (giornalista, collaboratore del portale Mada Masr e fondatore dell’Iniziativa egiziana per i diritti della persona) e a Gamal Eid (direttore della Rete araba per l’informazione sui diritti umani). I due difensori dei diritti umani rischiano anche il congelamento dei loro conti bancari.
Nelle ultime settimane, il medesimo divieto di espatrio è stato imposto anche nei confronti di altri 10 difensori dei diritti umani, tra i quali Mohamed Lotfy, direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, e quattro impiegati dell’Accademica democratica egiziana (riconosciuta dal 2015).
Il 3 marzo è stato interrogato l’avvocato Negad al-Borei, direttore del Gruppo Unito, uno studio legale che si occupa di casi di tortura. Ad al-Borei è stato tra l’altro rinfacciato di aver fatto “pressioni” sul presidente egiziano perché venisse adottata una legge contro la tortura, ed è noto quanto di un provvedimento del genere ce ne sarebbe bisogno!
Tra il 13 e il 15 marzo è stata la volta di tre impiegate del Centro Nazra per gli studi femministi, due impiegati dell’Istituto di studi sui diritti umani e un impiegato del Gruppo Unito.
Chiudendo le Ong e minacciando i loro attivisti col carcere, l’Egitto sta raggiungendo un obiettivo palese: evitare ogni forma di monitoraggio indipendente, impedendo che si facciano ricerche e studi sulla situazione dei diritti umani. Sarà così ancora più facile depistare, insabbiare, presentare fantasiose e offensive “verità” e garantire l’impunità nei tanto frequenti casi di sparizione, tortura e omicidio.
di Riccardo Noury
Sulla base della legge egiziana, i difensori dei diritti umani che agiscono senza che la loro attività sia stata riconosciuta dallo stato o che ricevono fondi dall’estero possono essere incriminati e, per questo secondo reato, a seguito di un emendamento proposto nel settembre 2014 dal presidente al-Sisi, possono essere condannati all’ergastolo (commutato automaticamente in 25 anni di carcere).
Il caso di Mozn Hassan, la cui organizzazione è stata peraltro riconosciuta nel 2007, non è per niente isolato.
Il 17 febbraio il ministero della Sanità ha disposto la chiusura del Centro Nadeem per la riabilitazione delle vittime della violenza e della tortura, sostenendo che lavorasse senza autorizzazione (concessa invece nel 1993).
A febbraio un tribunale ha imposto il divieto di espatrio a Hossan Bahgat (giornalista, collaboratore del portale Mada Masr e fondatore dell’Iniziativa egiziana per i diritti della persona) e a Gamal Eid (direttore della Rete araba per l’informazione sui diritti umani). I due difensori dei diritti umani rischiano anche il congelamento dei loro conti bancari.
Nelle ultime settimane, il medesimo divieto di espatrio è stato imposto anche nei confronti di altri 10 difensori dei diritti umani, tra i quali Mohamed Lotfy, direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, e quattro impiegati dell’Accademica democratica egiziana (riconosciuta dal 2015).
Il 3 marzo è stato interrogato l’avvocato Negad al-Borei, direttore del Gruppo Unito, uno studio legale che si occupa di casi di tortura. Ad al-Borei è stato tra l’altro rinfacciato di aver fatto “pressioni” sul presidente egiziano perché venisse adottata una legge contro la tortura, ed è noto quanto di un provvedimento del genere ce ne sarebbe bisogno!
Tra il 13 e il 15 marzo è stata la volta di tre impiegate del Centro Nazra per gli studi femministi, due impiegati dell’Istituto di studi sui diritti umani e un impiegato del Gruppo Unito.
Chiudendo le Ong e minacciando i loro attivisti col carcere, l’Egitto sta raggiungendo un obiettivo palese: evitare ogni forma di monitoraggio indipendente, impedendo che si facciano ricerche e studi sulla situazione dei diritti umani. Sarà così ancora più facile depistare, insabbiare, presentare fantasiose e offensive “verità” e garantire l’impunità nei tanto frequenti casi di sparizione, tortura e omicidio.
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