Dobbiamo sperare che il governo egiziano abbia un minimo di rispetto prima ancora che del nostro Paese della nostra intelligenza e non insista nel venderci questa versione del delitto Regeni.
Il governo italiano torni a chiedere la verità. Perché mai un gruppo di banditi specializzato nel "rapire e derubare stranieri" avrebbe torturato per giorni e giorni il povero Giulio Regeni, prima di far ritrovare il suo cadavere? E come mai una gang di criminali comuni ne avrebbe gelosamente conservato la borsa con il passaporto, la carta di credito, i telefonini e perfino "un pezzetto di materiale marrone che sembra hashish"? Per fornire le prove di essere stati proprio loro a ucciderlo?
Dobbiamo sperare che il governo egiziano abbia un minimo di rispetto prima ancora che del nostro Paese della nostra intelligenza, e non insista nel venderci questa versione del delitto Regeni, avallando un depistaggio così scoperto che sembra uscito da un film sulla mafia, con i finti colpevoli fatti ritrovare tutti morti, cosi da non poter smentire.
La notte scorsa però, il ministero dell'Interno egiziano è sembrato proprio avallarla, dopo che media filo governativi l'avevano spacciata, e ha anzi ha concluso il suo comunicato ringraziando l'Italia "per la cooperazione", quasi a considerare chiuso il caso.
L'Italia invece non può affatto ringraziare l'Egitto per la cooperazione, a ormai due mesi dalla scomparsa del giovane ricercatore. Anzi, il governo dovrebbe farsi sentire forse con più forza e determinazione per ottenere ciò che chiediamo fin dal primo giorno: tutta la verità sulla atroce fine di un nostro connazionale, di un ragazzo pieno di curiosità e animato da impegno civile, di uno studioso che voleva conoscere per giudicare. Qualche giorno fa il dittatore Al Sisi ha promesso ai genitori di Giulio e al nostro governo, in un'intervista a Repubblica: "Avrete la verità su Regeni". Se è questa la verità che intendeva, poteva risparmiarcela.
di Antonio Polito
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