Sono oltre 600 i minori detenuti illegamente nelle prigioni egiziane. Molti di loro vengono torturati per confessare reati che non hanno commesso. Alcuni sono figli di oppositori del regime. La maggior parte è imprigionata senza accuse valide o spiegazioni.
Ecco le loro storie, raccolte dall'avvocato che li difende:
Alcuni dei minorenni difesi dall'avvocato Lotfy. Sono dei ragazzini. Dovrebbero passare le giornate tra scuola e divertimento. Come i loro coetanei nel resto del mondo. Invece no. In Egitto sono in prigione, insieme ai criminali. Molti di loro vengono torturati e devono dichiarare di aver commesso dei reati. Alcuni anche gravi. Dall’uccisione di agenti di polizia ad attentati contro lo stato. Quelli che non reggono le sevizie non ricevono le cure di cui hanno bisogno. E in quei pochi casi in cui vengono portati in ospedale restano ammanettati ai letti e alle carrozzine, come i peggiori ergastolani.
Le organizzazioni per i diritti umani stimano che attualmente siano circa 600 i minori detenuti illegalmente in Egitto. Quasi tutti per questioni politiche. Molti di loro semplicemente perché figli di oppositori. Pagano le scelte dei genitori. Altri perché si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. A riportare le drammatiche testimonianze a l’Espresso è l’avvocato Dalia Lotfy. Il suo lavoro è quello di difenderli, o almeno tentare di farlo. Perché spesso non sono ufficialmente accusati, sono solo imprigionati senza spiegazioni. “Il governo continua a negare ogni responsabilità sulla detenzione dei minori” spiega “Così il problema non si riesce nemmeno ad affrontare”.
Il 16 aprile scorso ha compiuto 18 anni, ma per lui non c'è stata nessuna festa. Perché Ahmed Bassiouny è rinchiuso in una prigione ad Alessandria da oltre due anni. E’ di famiglia colta e benestante: madre ginecologa e padre pediatra. “Un ragazzo concentrato sulla scuola, senza nessuna attrazione per la politica”, così lo descrivono. Ed è proprio per la scuola che era uscito da casa il primo gennaio del 2014. Doveva andare da un amico per recuperare alcuni appunti. Prima di arrivare a destinazione si è però trovato in mezzo a una manifestazione violenta. La polizia lanciava lacrimogeni. E non solo. Si è coperto gli occhi e si è messo a correre verso casa dell’amico, come avrebbe fatto chiunque. Quindici minuti dopo il suo arrivo, i militari hanno cominciato a bussare. Quel bambino doveva essere consegnato. Hanno minacciato di buttare giù la porta se “il terrorista” non fosse uscito. Quel terrorista aveva sedici anni ed era lì per fare i compiti. Lo hanno portato via trascinandolo per terra, lo hanno aggredito ancora prima che arrivasse al commissariato. E’ stato gettato in una stanza con un centinaio di criminali veri. Tutti adulti. L’accusa è scioccante: omicidio di un agente di polizia e di due assistenti, possesso di molotov e disturbo della quiete pubblica. Per fargli confessare tutto è stato picchiato, sottoposto a scosse elettriche e spruzzato con l’acqua gelida in pieno inverno.
Durante questi due anni è stato trasferito da un centro all’altro. A volte con gli adulti che gli sottraevano pure quel poco di cibo che riceveva. Altre in centri giovanili dove le guardie erano solite maltrattare i piccoli. Questo è l’inferno che ha passato in attesa del processo. Con la speranza che in tribunale sarebbe venuta fuori la sua innocenza. L’udienza si è tenuta alla sezione penale di Alessandria il 2 settembre 2015. Ahmed è stato giudicato colpevole. Condannato a cinque anni di reclusione e altri cinque in libertà vigilata. Senza prove e senza confessione. Per lui le porte dell’inferno si sono riaperte. Lo hanno riportato in detenzione, a condividere le celle con assassini e stupratori, abituati a minacciare i più deboli con le lamette dei rasoi. Spesso le loro minacce si concretizzavano. Per questo Ahmed ha detto alle guardie che avrebbe raccontato tutto alla famiglia e quindi ai media: nonostante tutto, continuava a credere nella giustizia. La scelta di non piegarsi gli ha procurato un paio di nuove accuse: rissa e danneggiamento della proprietà pubblica. Il 17 marzo scorso è stato condannato ad altri due anni di prigione e due in libertà vigilata. Senza prove e senza confessione.
Più di duecentocinquanta persone negli ultimi due mesi: adolescenti e ragazzi fermati dalle forze dell'ordine in metropolitana o per strada, spariti da casa.
Alcuni dei minorenni difesi dall'avvocato Lotfy. Sono dei ragazzini. Dovrebbero passare le giornate tra scuola e divertimento. Come i loro coetanei nel resto del mondo. Invece no. In Egitto sono in prigione, insieme ai criminali. Molti di loro vengono torturati e devono dichiarare di aver commesso dei reati. Alcuni anche gravi. Dall’uccisione di agenti di polizia ad attentati contro lo stato. Quelli che non reggono le sevizie non ricevono le cure di cui hanno bisogno. E in quei pochi casi in cui vengono portati in ospedale restano ammanettati ai letti e alle carrozzine, come i peggiori ergastolani.
Le organizzazioni per i diritti umani stimano che attualmente siano circa 600 i minori detenuti illegalmente in Egitto. Quasi tutti per questioni politiche. Molti di loro semplicemente perché figli di oppositori. Pagano le scelte dei genitori. Altri perché si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. A riportare le drammatiche testimonianze a l’Espresso è l’avvocato Dalia Lotfy. Il suo lavoro è quello di difenderli, o almeno tentare di farlo. Perché spesso non sono ufficialmente accusati, sono solo imprigionati senza spiegazioni. “Il governo continua a negare ogni responsabilità sulla detenzione dei minori” spiega “Così il problema non si riesce nemmeno ad affrontare”.
Il 16 aprile scorso ha compiuto 18 anni, ma per lui non c'è stata nessuna festa. Perché Ahmed Bassiouny è rinchiuso in una prigione ad Alessandria da oltre due anni. E’ di famiglia colta e benestante: madre ginecologa e padre pediatra. “Un ragazzo concentrato sulla scuola, senza nessuna attrazione per la politica”, così lo descrivono. Ed è proprio per la scuola che era uscito da casa il primo gennaio del 2014. Doveva andare da un amico per recuperare alcuni appunti. Prima di arrivare a destinazione si è però trovato in mezzo a una manifestazione violenta. La polizia lanciava lacrimogeni. E non solo. Si è coperto gli occhi e si è messo a correre verso casa dell’amico, come avrebbe fatto chiunque. Quindici minuti dopo il suo arrivo, i militari hanno cominciato a bussare. Quel bambino doveva essere consegnato. Hanno minacciato di buttare giù la porta se “il terrorista” non fosse uscito. Quel terrorista aveva sedici anni ed era lì per fare i compiti. Lo hanno portato via trascinandolo per terra, lo hanno aggredito ancora prima che arrivasse al commissariato. E’ stato gettato in una stanza con un centinaio di criminali veri. Tutti adulti. L’accusa è scioccante: omicidio di un agente di polizia e di due assistenti, possesso di molotov e disturbo della quiete pubblica. Per fargli confessare tutto è stato picchiato, sottoposto a scosse elettriche e spruzzato con l’acqua gelida in pieno inverno.
Durante questi due anni è stato trasferito da un centro all’altro. A volte con gli adulti che gli sottraevano pure quel poco di cibo che riceveva. Altre in centri giovanili dove le guardie erano solite maltrattare i piccoli. Questo è l’inferno che ha passato in attesa del processo. Con la speranza che in tribunale sarebbe venuta fuori la sua innocenza. L’udienza si è tenuta alla sezione penale di Alessandria il 2 settembre 2015. Ahmed è stato giudicato colpevole. Condannato a cinque anni di reclusione e altri cinque in libertà vigilata. Senza prove e senza confessione. Per lui le porte dell’inferno si sono riaperte. Lo hanno riportato in detenzione, a condividere le celle con assassini e stupratori, abituati a minacciare i più deboli con le lamette dei rasoi. Spesso le loro minacce si concretizzavano. Per questo Ahmed ha detto alle guardie che avrebbe raccontato tutto alla famiglia e quindi ai media: nonostante tutto, continuava a credere nella giustizia. La scelta di non piegarsi gli ha procurato un paio di nuove accuse: rissa e danneggiamento della proprietà pubblica. Il 17 marzo scorso è stato condannato ad altri due anni di prigione e due in libertà vigilata. Senza prove e senza confessione.
Più di duecentocinquanta persone negli ultimi due mesi: adolescenti e ragazzi fermati dalle forze dell'ordine in metropolitana o per strada, spariti da casa.
A tre ore di strada da Alessandria, andando verso est, si arriva a Mansoura. E qui c’è un’altra prigione: è qui che Sohaib Emad il prossimo dicembre compirà i suoi 18 anni. Il 25 gennaio è la ricorrenza dell’anniversario della rivoluzione, per tanti oggi una data maledetta. Come lo è stata per Giulio Regeni, lo è anche per Emad. Il 25 gennaio del 2014 aveva partecipato a una manifestazione di protesta. L’11 febbraio i militari hanno fatto irruzione in casa sua. Senza alcun mandato. Lo hanno portato al commissariato di Mansoura dove è stato trattenuto, senza essere accusato, per quaranta giorni. I primi quattro li ha trascorsi sotto le sevizie della polizia che gli chiedeva di confessare di appartenere a un gruppo di rivoltosi. Gli hanno garantito che sarebbe stato violentato se non avesse ammesso tutto. Dopo 45 giorni è stato trasferito nella prigione dove si trova tuttora.
La colpa di Ahmed Khalef Bayyoumy, 19enne di Alessandria in prigione da tre anni, è quella di essere figlio di una coppia di avvocati che difende le vittime del regime. Il 12 gennaio 2014 Ahmed e lo zio sono andati a trovare un amico di famiglia che di professione fa il chimico. A mezzogiorno polizia e militari hanno fatto irruzione nell'edificio, arrestando tutti e tre senza alcun mandato. Vista l’età di Ahmed qualcuno ha avuto il dubbio e quindi ha chiamato i superiori per chiedere se lo potevano portare in commissariato. Al comando più che dell’età si sono preoccupati del cognome. Una volta scoperto che era il figlio degli avvocati anti-regime il permesso è stato accordato. Come colpa è sufficiente. Poco importa se ancora minorenne. Il laboratorio dell'amico di famiglia di medicina legale e non rappresentava alcun pericolo. Tant’è che il proprietario è stato rilasciato qualche giorno dopo, senza accuse. Ahmed ha trascorso invece cinque mesi in condizioni disumane al centro detentivo di Alessandria. E’ stato trattenuto in una stanza chiusa con più di cento prigionieri. Per i primi due mesi la sua famiglia non l’ha potuto visitare. In seguito sono stati concessi due minuti di visita, una volta alla settimana. E’ stato accusato di fabbricare bombe da utilizzare in attività terroristiche.
Il 15 maggio 2014 è stato trasferito in un altro centro di detenzione, noto per le violenze che tra le sue mura subiscono i minori, sia da parte delle guardie che da parte degli altri detenuti. Ha raccontato ai familiari che in ogni stanzone ci sono dei prigionieri che comandano tutti gli altri. Per avere un posto dove dormire bisogna pagarli. Così come per ogni pasto e ogni doccia. Chi non paga viene maltrattato, torturato e abusato sessualmente con la connivenza di chi indossa la divisa. Molti sono stati costretti a pulire il pavimento con la lingua. Quello del 15 maggio è stato il primo di una serie di trasferimenti in luoghi dove l’unica costante è l’orrore. Il 25 dicembre scorso è stata ritirata l’accusa a suo carico ma è ancora in prigione. In condizioni a cui non si potrà mai abituare.
L’appello dell’avvocato Lotfy è che se ne parli. “Perché in Egitto non ne parla nessuno. Nemmeno i giornalisti. Questi sono ragazzini ormai senza futuro, condannati alla violenza. Molti di loro già pensano a come vendicarsi. Contro i propri aguzzini e contro lo Stato. Tanti altri sono i migliori candidati all’estremismo e al terrorismo. L’Europa deve sapere chi sta sostenendo e a chi vende le proprie armi”.
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