Blog Diritti Umani - Human Rights
Un tribunale nel sud del Vietnam ha condannato a morte una donna australiana di 73 anni.
A Nguyen Thi Huong sono state trovate nel suo bagaglio di 36 barre di sapone con all'interno 2,8 kg di eroina mentre stava per imbarcarsi su un volo per l'Australia nel mese di dicembre 2014.
Il Dipartimento degli affari esteri e del commercio dell'Australia si è detto "preoccupato del fatto che un cittadino australiano è stato condannato a morte in Vietnam", ma ha aggiunto che secondo la legge vietnamita sono possibili vari gradi di appello "quindi c'è ancora molta strada da fare prima che questo processo legale si concluda".
"Continueremo a fornire assistenza consolare e sostegno alla donna e alla sua famiglia. Opposizione universale alla pena capitale è una politica di lunga data dei governi australiani", ha detto un portavoce reparto in una e-mail.
Huong che è si dichiara innocente, in quanto afferma che il sapone gli è stato regalato da una signora, rischia di essere eseguita con l'iniezione letale.
Huong ha 15 giorni di tempo per presentare ricorso contro la condanna a morte.
La pena di morte viene applicata nel Vietnam comunista in casi di traffico di quantità maggiori di 100 grammi di eroina. Alla fine del 2013, il Vietnam ha approvato l'uso dell'iniezione letale per i casi esecuzioni di capitali, invece di utilizzare plotoni d'esecuzione.
ES
Fonte: Reuters
Pagine
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giovedì 30 giugno 2016
Migranti - Ancora un naufragio nel Mediterraneo: 10 donne morte. 107 superstiti.
La Sicilia
Dieci donne sono morte nel naufragio di un gommone carico di migranti avvenuto questa mattina nel Canale di Sicilia, a circa 20 miglia dalle coste libiche.
Dieci donne sono morte nel naufragio di un gommone carico di migranti avvenuto questa mattina nel Canale di Sicilia, a circa 20 miglia dalle coste libiche.
La Guardia Costiera ha tratto in salvo 107 superstiti.
Secondo quanto si è appreso, la centrale operativa di Roma della Guardia Costiera, ricevuta una richiesta di soccorso, ha inviato la propria nave Diciotti. L’ equipaggio, giunto sul posto, ha trovato il gommone semiaffondato e molti naufraghi in acqua. Sono stati tratti in salvo 107 migranti, tra cui donne e bambini.
Sono stati anche recuperati i cadaveri delle 10 donne che erano morte in mare. Il naufragio è avvenuto con condizioni meteorologiche pessime, mare forza 3, vento a 30 nodi e onde alte due metri. Nave Diciotti è ancora in zona alla ricerca di eventuali dispersi.
Messico - Rapporto Amnesty - Sistematiche violenze verso le donne detenute. Lo Stato le tollera
letteradonna.it
Amnesty International ha raccolto le testimonianze di 100 detenute delle carceri messicane, scoprendo che le violenze sono all'ordine del giorno. E sono probabilmente tollerate dallo Stato.
Amnesty International ha raccolto le testimonianze di 100 detenute delle carceri messicane, scoprendo che le violenze sono all'ordine del giorno. E sono probabilmente tollerate dallo Stato.
La molestia sessuale e psicologica come pratica comune e sistematica per estorcere confessioni alle prigioniere. La denuncia su quanto accade nelle carceri femminili del Messico arriva da Amnesty International, che ha condotto un'inchiesta intervistando 100 carcerate. E se 72 di queste hanno rivelato di essere state molestate subito dopo l'arresto, ben 33 sostengono di essere state violentate.
Anche scariche elettriche - Numeri raccapriccianti che svelano una realtà "paurosa", come la definisce Madeleine Penman, autrice del rapporto presentato martedì 28 giugno 2016. E la cosa fa ancora più orrore, se si pensa che, di fatto, si tratta di una vera e propria violenza di Stato.
Secondo Amnesty, tra le varie molestie, ci sarebbero anche "palpeggiamenti, scariche elettriche, percosse", sia durante la prigionia che durante gli interrogatori.
Inchieste che non portano a nulla - A peggiorare le cose, il dato che riguarda gran parte della popolazione carceraria femminile: si tratta quasi sempre di donne dalle origini umilissime, che non sono in grado di assicurarsi una difesa giudiziaria degna di questo nome. Così, si ritrovano costrette a subire, senza avere la possibilità di sporgere denuncia.
Inchieste che non portano a nulla - A peggiorare le cose, il dato che riguarda gran parte della popolazione carceraria femminile: si tratta quasi sempre di donne dalle origini umilissime, che non sono in grado di assicurarsi una difesa giudiziaria degna di questo nome. Così, si ritrovano costrette a subire, senza avere la possibilità di sporgere denuncia.
E anche se in 22 casi sono state aperte delle inchieste, nessuna di queste si è mai conclusa con una condanna nei confronti dei poliziotti o dei funzionari delle carceri.
mercoledì 29 giugno 2016
Allarme Unicef - Entro il 2030, 69 milioni di bambini a rischio morte e sofferenze evitabili
Avvenire
Milioni di bambini e ragazzi in tutto il mondo sono ancora oggetto di morte e sofferenze del tutto evitabili. Nonostante gli indubbi progressi, entro il 2030, 69 milioni di bambini con meno di 5 anni sono a rischio decesso se i governi non metteranno in atto azioni di contrasto alla povertà, alla malnutrizione, alle malattie. Altri 167 milioni di bambini vivranno in povertà e oltre 60 milioni in età da scuola primaria saranno esclusi dall'istruzione.
Milioni di bambini e ragazzi in tutto il mondo sono ancora oggetto di morte e sofferenze del tutto evitabili. Nonostante gli indubbi progressi, entro il 2030, 69 milioni di bambini con meno di 5 anni sono a rischio decesso se i governi non metteranno in atto azioni di contrasto alla povertà, alla malnutrizione, alle malattie. Altri 167 milioni di bambini vivranno in povertà e oltre 60 milioni in età da scuola primaria saranno esclusi dall'istruzione.
È l' allarmante denuncia lanciata oggi dall'Unicef nel rapporto annuale sulla Condizione dell'infanzia nel mondo 2016 intitolato "La giusta opportunità per ogni bambino" (VAI AL RAPPORTO).
Dal rapporto che fa il punto da qui al 2030, data termine degli Obiettivi di sviluppo sostenibile, emerge che "investire sui bambini più svantaggiati può dare benefici nell'immediato e nel lungo periodo. La diseguaglianza non è permanente o insormontabile".
Ecco alcuni dati del rapporto.
MORTALITA' INFANTILE. Sono 5,9 milioni i bambini con meno di 5 anni morti nel 2015 per tutte le cause per lo più prevenibili; per alcune di queste (come diarrea, tetano, Aids) la mortalità è scesa da 5,4 milioni del 2000 a 2,5 milioni del 2015. I programmi per le vaccinazioni hanno diminuito dell'80% i decessi per morbillo dal 2000 al 2014. I paesi in cui si muore di più: Angola, Ciad, Somalia.
MORTALITA' NEONATALE. Nel 2015 circa un milione di bambini è morto il primo giorno di vita. I decessi neonatali (morte entro i primi 28 giorni) sono aumentati del 5% dal 2000. I tassi di mortalità materna si stanno riducendo, -43% dal 1990.
POVERTA'. I bambini e i ragazzi fino a 17 anni sono circa la metà (46%) di chi vive con meno di 1,90 dollari Usa al giorno. Nei 41 paesi più ricchi (2014), quasi 77 milioni di bambini vivevano in condizioni di povertà monetaria. In alcuni paesi dell'Ocse i tassi di povertà infantile sono saliti del 5%. La prospettiva più incerta è in Africa Sub Sahariana dove almeno 247 milioni di bambini (2 su 3) vivono in condizioni di povertà.
SCUOLA. Attualmente 124 milioni di bambini non frequentano la scuola; 2 su 5 che finiscono la scuola primaria non hanno imparato a leggere, scrivere o svolgere semplici operazioni aritmetiche. Servono 8,5 miliardi di dollari Usa l'anno (una media di 113 dollari a bambino) nel finanziamento necessario per istruire i 75 milioni di bambini che sono colpiti da crisi.
ISTRUZIONE E GUERRE. Le emergenze umanitarie e le crisi nel mondo hanno interrotto l'istruzione di oltre 75 milioni di bambini e ragazzi, dai 3 ai 18 anni, in 35 paesi. Di questi, oltre 17 milioni sono rifugiati o sfollati.
SPOSE BAMBINE. Ogni anno circa 15 milioni di ragazze si sposano prima dei 18 anni. Le complicanze da gravidanza e parto sono la seconda causa di morte fra i 15-19 anni. Entro il 2030, 950 milioni di donne si saranno sposate sotto i 18 anni, rispetto ai 700 di oggi.
CONTRACCEZIONE. L'Unicef stima che 216 milioni di donne sposate vorrebbero controllare la loro fecondità e dunque, secondo la visione dell'Unicef, di accedere a metodi contraccettivi. Se lo facessero, sempre stando alle proiezioni e ai dati dell'Unicef, le gravidanze indesiderate diminuirebbero del 70%. Resta da vedere quali sono i "metodi contraccettivi" raccomandati dall'Unicef:
Dal rapporto che fa il punto da qui al 2030, data termine degli Obiettivi di sviluppo sostenibile, emerge che "investire sui bambini più svantaggiati può dare benefici nell'immediato e nel lungo periodo. La diseguaglianza non è permanente o insormontabile".
Ecco alcuni dati del rapporto.
MORTALITA' INFANTILE. Sono 5,9 milioni i bambini con meno di 5 anni morti nel 2015 per tutte le cause per lo più prevenibili; per alcune di queste (come diarrea, tetano, Aids) la mortalità è scesa da 5,4 milioni del 2000 a 2,5 milioni del 2015. I programmi per le vaccinazioni hanno diminuito dell'80% i decessi per morbillo dal 2000 al 2014. I paesi in cui si muore di più: Angola, Ciad, Somalia.
MORTALITA' NEONATALE. Nel 2015 circa un milione di bambini è morto il primo giorno di vita. I decessi neonatali (morte entro i primi 28 giorni) sono aumentati del 5% dal 2000. I tassi di mortalità materna si stanno riducendo, -43% dal 1990.
POVERTA'. I bambini e i ragazzi fino a 17 anni sono circa la metà (46%) di chi vive con meno di 1,90 dollari Usa al giorno. Nei 41 paesi più ricchi (2014), quasi 77 milioni di bambini vivevano in condizioni di povertà monetaria. In alcuni paesi dell'Ocse i tassi di povertà infantile sono saliti del 5%. La prospettiva più incerta è in Africa Sub Sahariana dove almeno 247 milioni di bambini (2 su 3) vivono in condizioni di povertà.
SCUOLA. Attualmente 124 milioni di bambini non frequentano la scuola; 2 su 5 che finiscono la scuola primaria non hanno imparato a leggere, scrivere o svolgere semplici operazioni aritmetiche. Servono 8,5 miliardi di dollari Usa l'anno (una media di 113 dollari a bambino) nel finanziamento necessario per istruire i 75 milioni di bambini che sono colpiti da crisi.
ISTRUZIONE E GUERRE. Le emergenze umanitarie e le crisi nel mondo hanno interrotto l'istruzione di oltre 75 milioni di bambini e ragazzi, dai 3 ai 18 anni, in 35 paesi. Di questi, oltre 17 milioni sono rifugiati o sfollati.
SPOSE BAMBINE. Ogni anno circa 15 milioni di ragazze si sposano prima dei 18 anni. Le complicanze da gravidanza e parto sono la seconda causa di morte fra i 15-19 anni. Entro il 2030, 950 milioni di donne si saranno sposate sotto i 18 anni, rispetto ai 700 di oggi.
CONTRACCEZIONE. L'Unicef stima che 216 milioni di donne sposate vorrebbero controllare la loro fecondità e dunque, secondo la visione dell'Unicef, di accedere a metodi contraccettivi. Se lo facessero, sempre stando alle proiezioni e ai dati dell'Unicef, le gravidanze indesiderate diminuirebbero del 70%. Resta da vedere quali sono i "metodi contraccettivi" raccomandati dall'Unicef:
Germania, un gruppo di ragazzi compra una nave e parte per salvare i migranti nel Mediterraneo
Il Fatto Quotidiano
L'idea è dell'associazione Jugend Rettet, fondata da due giovani di Berlino, Jakob Schoen, e Lena Waldhoff, rispettivamente 20 e 23 anni. Grazie a una campagna di crowdfunding divisa in due fasi sono stati ottenuti oltre 300mila euro, e presto la barca sarà pronta per partire e pattugliare il mare per sei mesi, guidata da un equipaggio di professionisti e volontari.
L'idea è dell'associazione Jugend Rettet, fondata da due giovani di Berlino, Jakob Schoen, e Lena Waldhoff, rispettivamente 20 e 23 anni. Grazie a una campagna di crowdfunding divisa in due fasi sono stati ottenuti oltre 300mila euro, e presto la barca sarà pronta per partire e pattugliare il mare per sei mesi, guidata da un equipaggio di professionisti e volontari.
Quando hai vent’anni ci sono diversi modi di pensare al mare. Puoi avere in testa solo una vacanza, una bella foto da condividere con gli amici. Oppure avere uno sguardo inquieto che riesce a spingersi un po’ più in là, oltre l’indifferenza e oltre una politica umanitaria che di umano ha ancora poco. Seguendo quest’ultima strada, un gruppo di nove ragazzi tedeschi, tutti giovanissimi, ha deciso di raccogliere i fondi per comprare una nave, rimetterla a nuovo e trasformarla in un’imbarcazione da salvataggio, per i migranti che attraversano il Mediterraneo in fuga da miseria e guerra. Un’idea ambiziosa e coraggiosa, un progetto serio, elaborato nei minimi dettagli, che nel giro di un anno è diventato qualcosa di più.
Alla base c’è la volontà di fare qualcosa di concreto per affrontare l’emergenza migranti, e allo stesso tempo di creare una rete europea, una sorta di piattaforma di discussione tra i giovani, per promuovere la partecipazione e sviluppare il tema del soccorso in mare e quello delle politiche di asilo. “Siamo un gruppo di giovani con la possibilità di cambiare qualcosa – spiega Jakob Schoen sul sito del progetto – Una nave non è una soluzione a lungo termine. Tuttavia servirà a salvare vite umane. E farà sorgere una domanda: perché al posto dei governi europei, sono i giovani, con una loro iniziativa privata, a doversi fare carico di questa missione?”.
[...]
La nave scelta è un’imbarcazione olandese, in grado di ospitare un centinaio di persone. Ha delle caratteristiche precise, è dotata di scialuppe, giubbotti di salvataggio e serbatoi di acqua dolce, per soccorrere chi si trova in stato di disidratazione. A bordo ci sarà una squadra di professionisti, medici, skipper, e operatori, aiutati da volontari. Dieci persone suddivisi in turni bisettimanali. “Un equipaggio professionale garantisce che le operazioni siano condotte in modo sicuro e serio. Ma l’organizzazione vuole anche dare ad alcuni giovani la possibilità di partecipare direttamente nelle missioni di soccorso come marinai”. La partenza è prevista per la fine di giugno.
Alla base c’è la volontà di fare qualcosa di concreto per affrontare l’emergenza migranti, e allo stesso tempo di creare una rete europea, una sorta di piattaforma di discussione tra i giovani, per promuovere la partecipazione e sviluppare il tema del soccorso in mare e quello delle politiche di asilo. “Siamo un gruppo di giovani con la possibilità di cambiare qualcosa – spiega Jakob Schoen sul sito del progetto – Una nave non è una soluzione a lungo termine. Tuttavia servirà a salvare vite umane. E farà sorgere una domanda: perché al posto dei governi europei, sono i giovani, con una loro iniziativa privata, a doversi fare carico di questa missione?”.
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I giovani dell'Associazione "Jugend Rettet" |
“Il nostro obiettivo è semplice: meno morti nel Mediterraneo. Da una parte c’è la nave, impiegata per le missioni di soccorso. Dall’altra, Jugend Rettet vuole costruire una rete europea dedicata ad adolescenti e giovani, che vogliano scambiarsi opinioni e pensieri sul ruolo dell’Europa in questa emergenza umanitaria. In questo modo le persone hanno la possibilità di essere coinvolti nella discussione sulle politiche di asilo”.Per questo l’associazione ha promosso, oltre alla raccolta fondi per sostenere le spese, anche la creazione di gruppo di “ambasciatori” del progetto, distribuiti per il momento in tutto il nord Europa.
La nave scelta è un’imbarcazione olandese, in grado di ospitare un centinaio di persone. Ha delle caratteristiche precise, è dotata di scialuppe, giubbotti di salvataggio e serbatoi di acqua dolce, per soccorrere chi si trova in stato di disidratazione. A bordo ci sarà una squadra di professionisti, medici, skipper, e operatori, aiutati da volontari. Dieci persone suddivisi in turni bisettimanali. “Un equipaggio professionale garantisce che le operazioni siano condotte in modo sicuro e serio. Ma l’organizzazione vuole anche dare ad alcuni giovani la possibilità di partecipare direttamente nelle missioni di soccorso come marinai”. La partenza è prevista per la fine di giugno.
martedì 28 giugno 2016
Messico: l'appello del vescovo di Tapachula "basta torture nelle carceri"
radiovaticana.va
"Aumentare la consapevolezza e la preparazione professionale di quanti sono impegnati nelle indagini sui crimini che affliggono la nostra società per non fabbricare più colpevoli, ma arrivare alla verità dei fatti rispettando la dignità della persona umana".
"Aumentare la consapevolezza e la preparazione professionale di quanti sono impegnati nelle indagini sui crimini che affliggono la nostra società per non fabbricare più colpevoli, ma arrivare alla verità dei fatti rispettando la dignità della persona umana".
È questo l'appello lanciato ieri dal vescovo di Tapachula, Chiapas, Messico, mons. Leopoldo Gonzáles Gonzáles, durante l'omelia della Messa che ha celebrato ieri e in cui ha ricordato la Giornata internazionale di sostegno alle vittime della tortura.
La tortura usata come mezzo per infliggere dolore. Come riporta l'agenzia Fides, il presule ha sottolineato che nel suo Paese la tortura non è "solo utilizzata come mezzo per estrarre una confessione o informazioni, ma anche per infliggere dolore, per far soffrire e per punire".
Questo accade specialmente nelle carceri di massima sicurezza, in cui i detenuti vengono spesso tenuti in regime d'isolamento: "L'assenza di contatto umano - ha proseguito il vescovo - provoca grande sofferenza mentale e fisica e così si aggiunge dolore alla pena inflitta dalla sentenza". Secondo i dati, infine, nelle carceri messicane non accennano a diminuire i casi di violenza a opera delle autorità e dei responsabili della sicurezza.
Stati Uniti: pronto lo sciopero contro i lavori forzati, sarà il 9 settembre prossimo
Il Dubbio
Uno sciopero contro i lavori forzati nelle carceri americane. È quello che si appresteranno a fare i detenuti ristretti nei penitenziari americani il 9 settembre prossimo. Ad aprile lo sciopero era già stato attuato dai ristretti del Texas e lo rivendicarono tramite un volantino di cinque pagine redatto dagli stessi detenuti nonostante il rigido controllo del sistema penitenziario statunitense.
Uno sciopero contro i lavori forzati nelle carceri americane. È quello che si appresteranno a fare i detenuti ristretti nei penitenziari americani il 9 settembre prossimo. Ad aprile lo sciopero era già stato attuato dai ristretti del Texas e lo rivendicarono tramite un volantino di cinque pagine redatto dagli stessi detenuti nonostante il rigido controllo del sistema penitenziario statunitense.
"A partire dal 4 aprile 2016 - così iniziava il volantino - tutti i detenuti in tutto il Texas si asterranno dal lavoro al fine di ottenere attenzione da parte dei politici e della comunità del Texas". Le richieste erano ben articolate, partono dalla riforma del sistema della libertà condizionale, a quelle per rendere più umane le condizioni di detenzione, per ridurre e abolire la pratica dell'isolamento, fino a chiedere un credito di "buona condotta" per la riduzione della pena, per migliorare il sistema sanitario e per metter fine al contributo medico di 100 dollari, oltre a chiedere un drastico ridimensionamento della popolazione carceraria dello stato.
La maggior parte dei prigionieri abili, presso le strutture federali, sono obbligati a lavorare gratuitamente e almeno 37 Stati permettono alle imprese private di far lavorare i prigionieri, anche se tali contratti rappresentano solo una piccola percentuale di lavoro carcerario.
Judith Greene, un'analista di politica penale, ha detto al giornale on line Intercept: "Ironia della sorte, questi sono gli unici programmi di lavoro delle carceri dove i prigionieri prendono più di pochi centesimi all'ora". Nelle strutture visitate dalla Greene, i prigionieri lavorano tutto il giorno sotto il sole solo per tornare nelle celle e senza aria condizionata. "Le condizioni sono atroci, ed è giunto il momento che l'amministrazione penitenziaria del Texas ne prenda atto".
Una situazione che è anche legata alla gestione privata delle carceri: più detenuti ci sono e più aumenta il giro d'affari. Un business che nei prossimi anni potrebbe moltiplicarsi ulteriormente.
Dipenderà tutto da chi vincerà a novembre, visto che Hillary Clinton e Donald Trump hanno visioni diametralmente opposte. La Clinton è decisa a invertire la rotta delle incarcerazioni di massa riformando il sistema delle prigioni; mentre Trump vuole la deportazione di tutti i clandestini ed è pronto a finanziare (anche con soldi federali) i privati.
[...]
di Damiano Aliprandi
Egitto - Divieto di espatrio per Mozn Hassan attivista femminista
ANSAmed
Il Cairo- Divieto di espatrio per una nota attivista egiziana. Le autorità del Cairo hanno vietato a Mozn Hassan, direttrice della ong 'Nazra', di lasciare il Paese per partecipare ad un convegno sui diritti umani in Libano, in quanto è indagata in un procedimento sui finanziamenti alle ong.
Mozn Hassan, direttrice della ong 'Nazra' |
Nazra è sospettata di avere ricevuto fondi illegali dall'estero. L'organizzazione - che si occupa di problematiche legate al mondo delle donne e al femminismo - ha condannato la decisione presa contro la propria direttrice precisando che ciò "rientra nel giro di vite contro le organizzazioni della società civile adottato dal governo egiziano già tempo fa e che si è intensificato negli ultimi mesi". Lo scorso marzo un giudice ha deciso di riaprire il dossier sui presunti finanziamenti dall'estero ricevuti da alcune ong tra cui Nazra, convocando la stessa Hassan in aula.
La prima inchiesta contro le ong venne aperta in Egitto nel 2011, scatenando non poche critiche anche da parte delle Nazioni Unite.
lunedì 27 giugno 2016
L'Emergenza rifugiati esiste ma non è in Europa - I numeri del rapporto UNHCR "Global Trends Forced displacement in 2015"
Blog Diritti Umani - Human Rights
L'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha pubblicato il rapporto annuale Global Trends, sulle migrazioni forzate in tutto il mondo.
L'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha pubblicato il rapporto annuale Global Trends, sulle migrazioni forzate in tutto il mondo.
Click per vedere in Rapporto dell'UNHCR |
Il rapporto sfata gli allarmismi che i media diffondo in Europa, per avvalorare le politiche di chiusura dei confini e giustificare la chiusura dei confini.
Il rapporto “Global Trends” conferma che nel 2015 il numero dei rifugiati totali nel mondo è aumentato notevolmente, ma degli oltre 65 milioni segnalati dal report di UNHCR solo 4,4 milioni sono i rifugiati in Europa, di cui oltre la metà, circa due milioni e mezzo, in Turchia.
Il rapporto “Global Trends” conferma che nel 2015 il numero dei rifugiati totali nel mondo è aumentato notevolmente, ma degli oltre 65 milioni segnalati dal report di UNHCR solo 4,4 milioni sono i rifugiati in Europa, di cui oltre la metà, circa due milioni e mezzo, in Turchia.
il ruolo giocato dall’Europa nell’accoglienza dei rifugiati sia residuale rispetto agli altri paesi più prossimi alle zone di conflitto. Il Libano, accoglie oltre un milione di rifugiati su un totale di meno di cinque milioni di abitanti (quasi il 20% della popolazione), o alla Giordania, che accoglie 700mila rifugiati con una popolazione di 6 milioni di persone (più del 10%). I rifugiati in Europa rapportati alla popolazione totale non arrivano nemmeno all’1% e se si va ad analizzare il rapporto tra numero di rifugiati e Pil si hanno dei dati ancor più vergognosi.
Il Segretario Generale dell’Onu Ban ki Moon ha detto commentando i dati dell’UNHCR che «stiamo affrontando la più grande crisi di rifugiati e sfollati dei nostri tempi. Ma questa non è solo una crisi dovuta ai numeri, è soprattutto una crisi di solidarietà»
La verità è che l’emergenza rifugiati esiste ma non è da noi, almeno quella dei numeri.
Il Segretario Generale dell’Onu Ban ki Moon ha detto commentando i dati dell’UNHCR che «stiamo affrontando la più grande crisi di rifugiati e sfollati dei nostri tempi. Ma questa non è solo una crisi dovuta ai numeri, è soprattutto una crisi di solidarietà»
La verità è che l’emergenza rifugiati esiste ma non è da noi, almeno quella dei numeri.
ES
Kenia - Avviato lo sgombero del campo profughi di Dadaab con 450 mila profughi dalla Somalia
La Repubblica
Si è tenuto ieri a Nairobi un vertice tra la Ministra degli esteri keniana Amina Mohamed, il Ministro per la promozione della Somalia Abdusalam Hadliye Omer ed il rappresentante dell’UNHCR Filippo Grandi per una prima verifica sulle procedure di rimpatrio delle centinaia di migliaia di profughi somali da Dadaab, il più grande campo del mondo per rifugiati che sorge in Kenya, a circa 100 chilometri dal confine somalo.
Si è tenuto ieri a Nairobi un vertice tra la Ministra degli esteri keniana Amina Mohamed, il Ministro per la promozione della Somalia Abdusalam Hadliye Omer ed il rappresentante dell’UNHCR Filippo Grandi per una prima verifica sulle procedure di rimpatrio delle centinaia di migliaia di profughi somali da Dadaab, il più grande campo del mondo per rifugiati che sorge in Kenya, a circa 100 chilometri dal confine somalo.
Il campo profughi di Dadaab con 450 mila rifugiati somali |
L’iniziativa dello sgombero era stata annunciata all’inizio del maggio scorso dal Presidente Uhuru Kenyatta per motivi di sicurezza nazionale, affermandosi che proprio le infiltrazioni di membri di Al Shabab all’interno del campo erano state alla base degli attentati più sanguinari avvenuti negli ultimi anni in Kenya (senza, peraltro, offrirne le prove).
D’altra parte la stessa UNHCR, l’organizzazione dell’ONU per i rifugiati, già dal 2013, aveva avviato un programma per il rientro in Somalia degli ospiti di Dadaab su base volontaria ed in effetti, negli ultimi cinque anni, la popolazione dei rifugiati era diminuita di circa 100 mila unità, scendendo da 450 mila ai circa 350 mila di questi ultimi mesi.
In occasione dell’incontro di Nairobi la Ministra degli esteri Amina Mohammed ha riferito che già 16 mila somali sono rientrati in patria su base volontaria in base al programma concordato con le altre parti e che questo trend proseguirà anche grazie al sostegno di altri partner internazionali.
Alla base del progetto, che ha trovato attuazione da dieci giorni e che entro fine anno conta di ridurre la popolazione di Dadaab di altri 150 mila profughi, vi è la volontà di assicurare un ritorno volontario dignitoso e sostenibile per la Somalia.
Il Paese del Corno d’Africa, dal canto suo, si preoccupa della sicurezza dei rimpatri e di assegnare delle terre ai profughi che rientrano dovendo anche badare alla riduzione dei conflitti con le popolazioni residenti là dove i reinsediamenti devono avvenire, ma la Somalia è impegnata in questo sforzo a favore dei suoi cittadini perché, come ha detto il Ministro somalo Omer: “Venticinque anni sono un tempo lungo per vivere come un rifugiato”.
Dal canto suo l’UNHCR spinge affinché i progetti di recupero dei profughi e l’ampiezza dei servizi messi a disposizione vengano controllati dalle organizzazioni umanitarie coinvolgendo il maggior numero possibile di paesi donatori e di enti internazionali.
Tra questi ultimi è stato fatto esplicitamente in nome dell’IGAD, l’autorità intergovernativa per lo sviluppo del Corno d’Africa nata nel 1986, alla quale si chiede di facilitare la fornitura di aiuti internazionali allo sviluppo della Somalia e per sostenere, a livello regionale, il rientro dei rifugiati provenienti da Dadaab.
La riunione si è conclusa fissando un nuovo incontro della Commissione per il prossimo ottobre per fare il punto sui progressi che il rimpatrio volontario dei profughi somali avrà raggiunto in quell’epoca.
In occasione dell’incontro di Nairobi la Ministra degli esteri Amina Mohammed ha riferito che già 16 mila somali sono rientrati in patria su base volontaria in base al programma concordato con le altre parti e che questo trend proseguirà anche grazie al sostegno di altri partner internazionali.
Alla base del progetto, che ha trovato attuazione da dieci giorni e che entro fine anno conta di ridurre la popolazione di Dadaab di altri 150 mila profughi, vi è la volontà di assicurare un ritorno volontario dignitoso e sostenibile per la Somalia.
Il Paese del Corno d’Africa, dal canto suo, si preoccupa della sicurezza dei rimpatri e di assegnare delle terre ai profughi che rientrano dovendo anche badare alla riduzione dei conflitti con le popolazioni residenti là dove i reinsediamenti devono avvenire, ma la Somalia è impegnata in questo sforzo a favore dei suoi cittadini perché, come ha detto il Ministro somalo Omer: “Venticinque anni sono un tempo lungo per vivere come un rifugiato”.
Dal canto suo l’UNHCR spinge affinché i progetti di recupero dei profughi e l’ampiezza dei servizi messi a disposizione vengano controllati dalle organizzazioni umanitarie coinvolgendo il maggior numero possibile di paesi donatori e di enti internazionali.
Tra questi ultimi è stato fatto esplicitamente in nome dell’IGAD, l’autorità intergovernativa per lo sviluppo del Corno d’Africa nata nel 1986, alla quale si chiede di facilitare la fornitura di aiuti internazionali allo sviluppo della Somalia e per sostenere, a livello regionale, il rientro dei rifugiati provenienti da Dadaab.
La riunione si è conclusa fissando un nuovo incontro della Commissione per il prossimo ottobre per fare il punto sui progressi che il rimpatrio volontario dei profughi somali avrà raggiunto in quell’epoca.
Poche ore dopo la Brexit numerosi episodi di razzismo nelle città inglesi
La Repubblica
A poche ore dal voto che ha determinato l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione europea, i cittadini inglesi denunciano un aumento esponenziale di episodi di razzismo nelle città inglesi.
A poche ore dal voto che ha determinato l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione europea, i cittadini inglesi denunciano un aumento esponenziale di episodi di razzismo nelle città inglesi.
domenica 26 giugno 2016
Corridoi Umanitari - Aboudi, dalle bombe della Siria alle cure del Gaslini di Genova
La Repubblica - Genova
La storia - Un bambino siriano affetto da spina bifida, ha potuto raggiungere l'Italia grazie al corridoio umanitario e alla Comunità di Sant'Egidio
Il padre: "Ci stava a cuore la sua salute, ma non avremmo mai potuto rischiare la sua vita a bordo dei barconi..."
La storia - Un bambino siriano affetto da spina bifida, ha potuto raggiungere l'Italia grazie al corridoio umanitario e alla Comunità di Sant'Egidio
Il padre: "Ci stava a cuore la sua salute, ma non avremmo mai potuto rischiare la sua vita a bordo dei barconi..."
Aboudi a Genova preso in cura dall'Ospedale Gaslini |
Aboudi guarda da dietro gli occhiali rotondi che lo fanno assomigliare a Harry Potter, è divertito dalla macchina fotografica, ha imparato a dire "ciao" e "sono stanco" , spiega sorridendo Aziz, l'interprete, «perché questi giorni in effetti, il viaggio, l'accoglienza, le visite mediche sono state un po' impegnative».
«Ci ha colpito molto la disponibilità che abbiamo incontrato, l'accoglienza che abbiamo visto anche per un bambino disabile. Non è così dappertutto purtroppo» sottolinea Rima, che ha occhi solo per il figlio che le siede di fronte e che con qualche sorrisetto e una battuta la fa ridere. Ma cosa si pensa dall'altra sponda del Mediterraneo, tra i profughi che vogliono venire in Europa, degli ostacoli spesso insormontabili posti davanti ai migranti? Khaled sospira. «Non c'è da pensare. Un mio zio, con le barche, è venuto via dalla Siria, ora è in Germania. Noi dovevamo comunque partire, per lui. Poi, quando ci sarà la pace, torneremo in Siria. Cosa mi ha colpito qui? La sensazione di sicurezza. Di poter vivere. Noi e lui».
Aboudi, diminutivo familiare di Abdel, ha dieci anni ed è nato a Homs in Siria, dove i suoi genitori, Khaled e Rima, si sono visti distruggere la casa sotto i bombardamenti.
«La casa è stata colpita e siamo scappati, poco dopo è crollata completamente - racconta Khaled, 34 anni come la moglie - avevamo affittato un altro alloggio in un quartiere diverso ma poi la guerra continuava e siamo scappati in Libano».
«La casa è stata colpita e siamo scappati, poco dopo è crollata completamente - racconta Khaled, 34 anni come la moglie - avevamo affittato un altro alloggio in un quartiere diverso ma poi la guerra continuava e siamo scappati in Libano».
I bombardamenti si allontanano, ma la vita è difficile: «In Siria avevo un'attività da cambiavalute, in Libano ho fatto l'imbianchino ma non importa - sorride Khaled - A noi stava a cuore Aboudi, avevamo deciso di portarlo in Europa, perché aveva bisogno di cure. Ma non avremmo mai potuto rischiare la sua vita a bordo dei barconi...».
Aboudi è nato con la spina bifida, è stato già
operato ad Homs nei primi anni di vita, ma quando è scoppiata la guerra curarsi è diventata un'impresa impossibile. Adesso,
nella saletta del Convento dell'Annunziata dove la famiglia Nasser, in un'ennesima tappa di tre anni di spostamenti attraverso tre paesi, è ospite della Comunità di Sant'Egidio, il futuro ha ripreso colore. Khaled, Rima e Aboudi sono infatti arrivati a Genova attraverso uno dei corridoi umanitari che la Comunità continua a chiedere ai governi internazionali per avviare un vero canale di salvezza per i profughi, in particolare chi ha condizioni più difficili e delicate, verso l'Europa, e dire basta alla strage dei migranti che cercano di fuggire attraverso il mare o le frontiere sempre più chiuse.
Aboudi all'arrivo a Roma con i corridoi umanitari |
«Noi abbiamo fatto arrivare circa 250 famiglie - spiega Andrea Chiappori, presidente della Comunità a Genova - a Genova loro sono i primi, ma siamo disponibili ad accoglierne altri. Non si può attendere ancora, la scelta dei corridoi umanitari, soprattutto per determinati casi, è l'unica possibile». Khaled è entrato in contatto con i volontari di Sant'Egidio in Libano, ha raccontato la storia di Aboudi, l'unica preoccupazione sua e di Rima. Sono stati fatti tutti i passi necessari, contattato a Genova l'ospedale Gaslini, dove Aboudi è già stato visitato nel reparto di neurochirurgia, e dove verrà ricoverato nelle prossime settimane perché i medici genovesi riescano a ridargli, chissà, la possibilità se non di correre come i suoi coetanei almeno di potersi alzare dalla carrozzina blu dov'è seduto ora. Poi, sono volati in Italia, una prima sosta e a Roma e l'arrivo a Genova venerdì scorso, con una festa tutta per loro all'Annunziata.
«Ci ha colpito molto la disponibilità che abbiamo incontrato, l'accoglienza che abbiamo visto anche per un bambino disabile. Non è così dappertutto purtroppo» sottolinea Rima, che ha occhi solo per il figlio che le siede di fronte e che con qualche sorrisetto e una battuta la fa ridere. Ma cosa si pensa dall'altra sponda del Mediterraneo, tra i profughi che vogliono venire in Europa, degli ostacoli spesso insormontabili posti davanti ai migranti? Khaled sospira. «Non c'è da pensare. Un mio zio, con le barche, è venuto via dalla Siria, ora è in Germania. Noi dovevamo comunque partire, per lui. Poi, quando ci sarà la pace, torneremo in Siria. Cosa mi ha colpito qui? La sensazione di sicurezza. Di poter vivere. Noi e lui».
sabato 25 giugno 2016
La Marina Militare italiana continua a salvare migliaia di vite di migranti nel Mediterraneo
Panorama
Ancora sbarchi. È una conta inarrestabile di arrivi quella che avviene in Sicilia. Tra oggi e domani sono attesi altri 3.600 migranti che si vanno ad aggiungere alle 2 mila persone soccorse in mare ieri.
Ancora sbarchi. È una conta inarrestabile di arrivi quella che avviene in Sicilia. Tra oggi e domani sono attesi altri 3.600 migranti che si vanno ad aggiungere alle 2 mila persone soccorse in mare ieri.
Ad Augusta, Siracusa, giungerà la nave Bourbon Argos con a bordo 1.135 extracomunitari. A Catania, è previsto l'approdo di nave Spica della marina militare italiana sulla quale viaggiano 765 migranti e che ha a bordo anche il corpo di una donna recuperato nel Mediterraneo. Nave Vega, della marina italiana, con a bordo 745 persone soccorse in mare, invece, sta facendo rotta verso il porto di Messina. Nave 'Diciotti' della guardia costiera arriverà a Trapani con 571 migranti e l'Enterprise con 456 persone approderà a Pozzallo, in provincia di Ragusa.
Ieri ne erano arrivati 2 mila. Ad agevolare il traffico di gommoni e barconi carichi di migranti sono le condizioni meteorologiche favorevoli, il mare calmo dalle coste libiche a quelle nostrane dove gli sbarchi si intensificano e alla fine della giornata si contano gli ingressi e, spesso purtroppo anche i corpi.
Ieri erano stati ben 20 gli interventi di soccorso coordinati e portati a termine dalla Centrale Operativa di Roma della Guardia Costiera, durante i quali sono state tratte in salvo migliaia di persone al largo delle coste libiche a bordo di varie imbarcazioni grazie alla Guardia Costiera, della Marina Militare e di organizzazioni non governative, e alle unità navali inquadrate nel dispositivo EunavforMed, l'operazione lanciata dall'UE per smantelare la tratta di esseri umani.
Ieri ne erano arrivati 2 mila. Ad agevolare il traffico di gommoni e barconi carichi di migranti sono le condizioni meteorologiche favorevoli, il mare calmo dalle coste libiche a quelle nostrane dove gli sbarchi si intensificano e alla fine della giornata si contano gli ingressi e, spesso purtroppo anche i corpi.
Ieri erano stati ben 20 gli interventi di soccorso coordinati e portati a termine dalla Centrale Operativa di Roma della Guardia Costiera, durante i quali sono state tratte in salvo migliaia di persone al largo delle coste libiche a bordo di varie imbarcazioni grazie alla Guardia Costiera, della Marina Militare e di organizzazioni non governative, e alle unità navali inquadrate nel dispositivo EunavforMed, l'operazione lanciata dall'UE per smantelare la tratta di esseri umani.
Niger: critica governo su Facebook, attivista diritti umani condannato a sei mesi di carcere
Agenzia Nova
Niamey - Il presidente del Quadro di azione per la democrazia e i diritti umani in Niger, Abdoul Ousmane Moumouni, è stato condannato a sei mesi di prigione e a una pena pecuniaria di 50 mila franchi Cfa per avere pubblicato sul suo profilo Facebook un post critico verso il governo.
Niamey - Il presidente del Quadro di azione per la democrazia e i diritti umani in Niger, Abdoul Ousmane Moumouni, è stato condannato a sei mesi di prigione e a una pena pecuniaria di 50 mila franchi Cfa per avere pubblicato sul suo profilo Facebook un post critico verso il governo.
Abdoul Ousmane Moumouni |
Lo riferisce il sito online della rivista “Jeune Afrique”. L’uomo è stato arrestato lo scorso 14 giugno, dopo avere apertamente criticato “l’incapacità del governo di vincere i gruppi jihadisti”. Il post è stato pubblicato dopo il sanguinoso attacco che ha colpito la città di Bosso lo scorso 3 giugno, provocando la morte di 26 militari.
In RD Congo i minori muoiono per estrarre il cobalto, materia prima per gli smartphone
Radio Popolare
“Passo praticamente 24 ore nei tunnel. Arrivo presto la mattina e vado via la mattina dopo. Riposo dentro i tunnel. La mia madre adottiva voleva mandarmi a scuola, mio padre adottivo invece ha deciso di mandarmi nelle miniere di cobalto”. È la testimonianza di Paul, 14 anni, uno degli 87 minatori o ex minatori incontrati da Amnesty International nella Repubblica democratica del Congo. Paul, raccontano gli inviati di Amnesty, ha iniziato a lavorare nella miniera a 12 anni. Ha già i polmoni a pezzi.
“Passo praticamente 24 ore nei tunnel. Arrivo presto la mattina e vado via la mattina dopo. Riposo dentro i tunnel. La mia madre adottiva voleva mandarmi a scuola, mio padre adottivo invece ha deciso di mandarmi nelle miniere di cobalto”. È la testimonianza di Paul, 14 anni, uno degli 87 minatori o ex minatori incontrati da Amnesty International nella Repubblica democratica del Congo. Paul, raccontano gli inviati di Amnesty, ha iniziato a lavorare nella miniera a 12 anni. Ha già i polmoni a pezzi.
L’Unicef stima che siano almeno 40mila i bambini sfruttati nelle miniere. “Solo nell’ultimo anno sono morti nel Sud del Congo ottanta bambini minatori, questo mentre le aziende produttrici di apparecchi elettronici fanno profitti stimati in 125 miliardi di dollari annui e non riescono a dire dove e in che condizioni di lavoro si procurano le materie prime”.
Questa un’altra testimonianza raccolta da Amnesty in Congo. E quella di François che lavora nelle miniere di cobalto, con il figlio tredicenne Charles. Estraggono le pietre, le lavano e poi le trasportano fino alla casa di un commerciante, non lontano dalla miniera. “Come si fa a pagare la retta della scuola?”, si domanda François. “Come si fa a pagare il cibo? Dobbiamo lavorare in questo modo, perché non c’è alcun altro lavoro. Dateci un lavoro e noi ci prenderemo meglio cura dei nostri figli”. Charles la mattina va a scuola e il pomeriggio aiuta il padre.
Il rapporto di Amnesty This is what we die for (Ecco per che cosa moriamo) ricostruisce il percorso del cobalto estratto nel Congo: “Attraverso la Congo Dongfang Mining (Cdm), interamente controllata dal gigante minerario cinese Zheijang Huayou Cobalt Ltd (Huayou Cobalt), il cobalto lavorato viene venduto a tre aziende che producono batterie per smartphone e automobili: Ningbo Shanshan e Tianjin Bamo in Cina e L&F Materials in Corea del Sud. Queste ultime riforniscono le aziende che vendono prodotti elettronici e automobili. Il Congo produce quasi la metà del cobalto a livello mondiale che viene poi utilizzato per le batterie al litio”.
Amnesty International ha contattato 16 multinazionali che risultano clienti delle tre aziende asiatiche che producono batterie utilizzando il cobalto proveniente dalla Huayou Cobalt o da altri fornitori. Le multinazionale sono: Ahong, Apple, BYD, Daimler, Dell, HP, Huawei, Inventec, Lenovo, LG, Microsoft, Samsung, Sony, Vodafone, Volkswagen e ZTE.
Che cosa hanno risposto le multinazionali alle vostre richieste di chiarimento sui fornitori di cobalto e le condizioni di lavoro?
“Delle 16 aziende interpellate da noi di Amnesty International, una ha ammesso la relazione, quattro hanno risposto che non lo sapevano, cinque hanno negato di usare cobalto della Huayou Cobalt, due hanno respinto ogni evidenza di rifornirsi di cobalto della Repubblica Democratica del Congo e le altre hanno promesso indagini”.
E Apple?
“In particolare Apple ha risposto che l’azienda sta in questo periodo valutando da quali fonti arriva il cobalto usato nei suoi prodotti. Però LG Chem, fornitore di Apple, ha confermato che acquista cobalto dalla Tianjin Lishen. e che avrebbe indagato sulle denunce di Amnesty International”.
E Microsoft?
“Microsoft ha dichiarato di non essere in grado di andare a ritroso lungo la filiera e dunque di poter dire con assoluta certezza se il cobalto sia o meno frutto di lavoro minorile. Vodafone ha detto di non sapere se il cobalto che usa provenga o meno dalla Repubblica Democratica del Congo, poi ha smentito di avere Tianjin Lishen come fornitore, sul cui sito invece Vodafone è citata tra i clienti. Samsung sostiene che il cobalto dei prodotti che le fornisce LG Chem non passa attraverso la Huayou Cobalt”.
Da questa vostra indagine e dalle risposte che avete avuto dalle multinazionali che valutazione fate?
“Il quadro che emerge è quello di una mancanza complessiva di trasparenza. Sulla base delle risposte fornite dalle 16 aziende interpellate, Amnesty International sostiene che nessuna sia stata in grado di fornire informazioni dettagliate, sulle quali poter svolgere indagini indipendenti per capire da dove venga il cobalto”.
Quindi rispetto le regole internazionali che conclusione trae Amnesty?
“Riteniamo che sebbene il cobalto non sia tra i minerali oggetto di una normativa specifica che dovrebbe impedire di rifornirsi di materie prive provenienti da zone di conflitto, le aziende dovrebbero comunque seguire gli standard internazionali dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico, ndr) e dell’Onu che richiedono di fare ricerche lungo la filiera e di adottare rimedi nel caso si verifichino violazioni dei diritti umani”.
Il rapporto sul Congo è stato fatto in collaborazione con Afrewatch(African Resources Watch) di cui Emmanuel Umpula è direttore esecutivo. “È paradossale che nell’era digitale – ha commentato Umpula – alcune delle compagnie più innovative e ricche al mondo siano in grado di vendere dispositivi incredibilmente sofisticati senza dover dimostrare da dove arrivano le materie prime per le loro componenti”.
Riccardo Noury
Questa un’altra testimonianza raccolta da Amnesty in Congo. E quella di François che lavora nelle miniere di cobalto, con il figlio tredicenne Charles. Estraggono le pietre, le lavano e poi le trasportano fino alla casa di un commerciante, non lontano dalla miniera. “Come si fa a pagare la retta della scuola?”, si domanda François. “Come si fa a pagare il cibo? Dobbiamo lavorare in questo modo, perché non c’è alcun altro lavoro. Dateci un lavoro e noi ci prenderemo meglio cura dei nostri figli”. Charles la mattina va a scuola e il pomeriggio aiuta il padre.
Il rapporto di Amnesty This is what we die for (Ecco per che cosa moriamo) ricostruisce il percorso del cobalto estratto nel Congo: “Attraverso la Congo Dongfang Mining (Cdm), interamente controllata dal gigante minerario cinese Zheijang Huayou Cobalt Ltd (Huayou Cobalt), il cobalto lavorato viene venduto a tre aziende che producono batterie per smartphone e automobili: Ningbo Shanshan e Tianjin Bamo in Cina e L&F Materials in Corea del Sud. Queste ultime riforniscono le aziende che vendono prodotti elettronici e automobili. Il Congo produce quasi la metà del cobalto a livello mondiale che viene poi utilizzato per le batterie al litio”.
Amnesty International ha contattato 16 multinazionali che risultano clienti delle tre aziende asiatiche che producono batterie utilizzando il cobalto proveniente dalla Huayou Cobalt o da altri fornitori. Le multinazionale sono: Ahong, Apple, BYD, Daimler, Dell, HP, Huawei, Inventec, Lenovo, LG, Microsoft, Samsung, Sony, Vodafone, Volkswagen e ZTE.
Che cosa hanno risposto le multinazionali alle vostre richieste di chiarimento sui fornitori di cobalto e le condizioni di lavoro?
“Delle 16 aziende interpellate da noi di Amnesty International, una ha ammesso la relazione, quattro hanno risposto che non lo sapevano, cinque hanno negato di usare cobalto della Huayou Cobalt, due hanno respinto ogni evidenza di rifornirsi di cobalto della Repubblica Democratica del Congo e le altre hanno promesso indagini”.
E Apple?
“In particolare Apple ha risposto che l’azienda sta in questo periodo valutando da quali fonti arriva il cobalto usato nei suoi prodotti. Però LG Chem, fornitore di Apple, ha confermato che acquista cobalto dalla Tianjin Lishen. e che avrebbe indagato sulle denunce di Amnesty International”.
E Microsoft?
“Microsoft ha dichiarato di non essere in grado di andare a ritroso lungo la filiera e dunque di poter dire con assoluta certezza se il cobalto sia o meno frutto di lavoro minorile. Vodafone ha detto di non sapere se il cobalto che usa provenga o meno dalla Repubblica Democratica del Congo, poi ha smentito di avere Tianjin Lishen come fornitore, sul cui sito invece Vodafone è citata tra i clienti. Samsung sostiene che il cobalto dei prodotti che le fornisce LG Chem non passa attraverso la Huayou Cobalt”.
Da questa vostra indagine e dalle risposte che avete avuto dalle multinazionali che valutazione fate?
“Il quadro che emerge è quello di una mancanza complessiva di trasparenza. Sulla base delle risposte fornite dalle 16 aziende interpellate, Amnesty International sostiene che nessuna sia stata in grado di fornire informazioni dettagliate, sulle quali poter svolgere indagini indipendenti per capire da dove venga il cobalto”.
Quindi rispetto le regole internazionali che conclusione trae Amnesty?
“Riteniamo che sebbene il cobalto non sia tra i minerali oggetto di una normativa specifica che dovrebbe impedire di rifornirsi di materie prive provenienti da zone di conflitto, le aziende dovrebbero comunque seguire gli standard internazionali dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico, ndr) e dell’Onu che richiedono di fare ricerche lungo la filiera e di adottare rimedi nel caso si verifichino violazioni dei diritti umani”.
Il rapporto sul Congo è stato fatto in collaborazione con Afrewatch(African Resources Watch) di cui Emmanuel Umpula è direttore esecutivo. “È paradossale che nell’era digitale – ha commentato Umpula – alcune delle compagnie più innovative e ricche al mondo siano in grado di vendere dispositivi incredibilmente sofisticati senza dover dimostrare da dove arrivano le materie prime per le loro componenti”.
Riccardo Noury
venerdì 24 giugno 2016
Filippine - Pena di morte: la Chiesa si oppone al presidente Duterte
Agenzia Fides
Manila - La Chiesa cattolica nelle Filippine farà tutto il possibile per scoraggiare azioni politiche che possano reintrodurre la pena di morte nel paese. Come appreso da Fides, il Presidente della Conferenza Episcopale delle Filippine, l' di Dagupan-Lingayen ha detto che cercherà un incontro con il neo Presidente Rodrigo Duterte per chiedergli di riconsiderare il suo piano di rilanciare la pena capitale.
Manila - La Chiesa cattolica nelle Filippine farà tutto il possibile per scoraggiare azioni politiche che possano reintrodurre la pena di morte nel paese. Come appreso da Fides, il Presidente della Conferenza Episcopale delle Filippine, l' di Dagupan-Lingayen ha detto che cercherà un incontro con il neo Presidente Rodrigo Duterte per chiedergli di riconsiderare il suo piano di rilanciare la pena capitale.
Arcivescovo Socrates Villegas presidente dela Conferenza episcopale |
Duterte ha dichiarato di voler sottoporre al Congresso filippino un provvedimento per ripristinare la pena di morte, almeno per i crimini più gravi.
Diversi Vescovi hanno espresso forti riserve, ricordando la dottrina cattolica, appena ribadita da Papa Francesco. L'Arcivescovo di Lipa, Ramon Arguelles, ha ricordato che la pena capitale non è lo strumento deterrente verso il crimine, auspicando che un tale passo “non avvenga, proprio mentre la Chiesa celebra l'Anno della Misericordia”.
Anche l’Arcivescovo emerito di Cebu, Oscar Cruz, contestando le intenzioni del Presidente ha annunciato che "ci sarà certamente da opporsi al suo piano: la Chiesa non resterà a guardare", mentre il Vescovo di Balanga, Ruperto Santos, ha ricordato che "solo Dio ha potere sulla vita. Dio dà la vita e Dio la toglie. Nessuno deve giocare a fare Dio". Invece il Vescovo suggerisce una "riforma del sistema giudiziario e carcerario".
Duterte ha basato molta della sua campagna elettorale sul tema della lotta al crimine, della legalità e della fine dell'impunità per i colpevoli dei reati. Il nuovo presidente della “Commissione per i diritti umani” delle Filippine, Jose Luis Guascon, ha ricordato che l'obiettivo del sistema penale filippino è di tipo riabilitativo, mentre la pena di morte chiude di fatto questa opzione.
Pakistan: liberati cinque dei sette cristiani detenuti per blasfemia
Tempi
La vicenda aveva coinvolto 16 persone accusate di aver chiamato un pastore "santo" con un termine, "rasool", che si usa anche per Maometto. Si è in parte risolto il caso di blasfemia che aveva sollevato proteste pubbliche in Pakistan. A manifestare per la liberazione di sette persone arrestate con questa accusa, che prevede la pena di morte, erano state tutte le chiese cattoliche e protestanti di Gujrat, nella provincia di Punjrab.
La vicenda aveva coinvolto 16 persone accusate di aver chiamato un pastore "santo" con un termine, "rasool", che si usa anche per Maometto. Si è in parte risolto il caso di blasfemia che aveva sollevato proteste pubbliche in Pakistan. A manifestare per la liberazione di sette persone arrestate con questa accusa, che prevede la pena di morte, erano state tutte le chiese cattoliche e protestanti di Gujrat, nella provincia di Punjrab.
Nasir Saeed, direttore inglese della Claas |
La vicenda, che aveva coinvolto 16 persone, era cominciata nell'agosto del 2015, quando la Chiesa Biblica di Dio aveva dato notizia del funerale del pastore Fazal Masih, fondatore della chiesa. Vista la fama di santità dell'uomo, sui manifesti stampati per la celebrazione delle esequie i fedeli avevano usato la parola "rasool", che in lingua urdu significa "santo" o "messaggero". Secondo l'accusa, però, l'aggettivo attribuito anche a Maometto non doveva essere usato altrimenti.
A sollevare il caso di fronte all'autorità giudiziaria era stato l'imam locale. Raggiunto dalla notizia, Nasir Saeed, direttore inglese della Claas (un'associazione nata in difesa cristiani pakistani), aveva spiegato: "La parola "rasool" è usata spesso nella Bibbia urdu come traduzione della parola "apostoli" e "discepoli". E i cristiani, laici e religiosi, usano questa parola nei loro sermoni e anche nei loro scritti. Questo non è uno termine islamico ma urdu".
Nonostante ciò al pastore Aftab Gill e a suo fratello minore Unitan, insieme ad altri membri della loro chiesa, non è stato risparmiato il carcere. Arrestato, Unitan dichiarò di essere già da tempo molto inviso ad alcuni imprenditori musulmani locali, gelosi del suo successo in seguito all'apertura di un esercizio commerciale.
Tanto che la polizia era dovuta persino intervenire per spegnere il fuoco appiccato dai residenti locali nelle proprietà dei cristiani.
Intervistato da Asianews l'avvocato musulmano Imtiaz Shakir aveva definito la vicenda una "pazzia" originata dal "sistema folle" della legge sulla blasfemia: "Gli avvocati con cui lavoro mi hanno minacciato - spiegò Shakir - dicendomi che non dovevo accettare di difendere vittime innocenti". Invece, fu proprio l'avvocato a invitare le chiese a protestare.
Intervistato da Asianews l'avvocato musulmano Imtiaz Shakir aveva definito la vicenda una "pazzia" originata dal "sistema folle" della legge sulla blasfemia: "Gli avvocati con cui lavoro mi hanno minacciato - spiegò Shakir - dicendomi che non dovevo accettare di difendere vittime innocenti". Invece, fu proprio l'avvocato a invitare le chiese a protestare.
Questa settimana, dopo dieci mesi, cinque dei cristiani ancora detenuti sono stati liberati, mentre Gill e un altro uomo, Hajaj Bin Yousaf, rimarranno in carcere per altri sei mesi. Poteva andare peggio, ma ricordando i casi precedenti, in primis quello di Asia Bibi, restano comunque vere le parole di Saeed: "Da quando esiste, questa legge è stata abusata, la polizia e le autorità devono fare attenzione ed evitare di registrare ogni denuncia contro chiunque per via della pressione civile". Le autorità, infatti, agiscono spesso rispondendo alle spinte dell'islamismo radicale.
di Benedetta Frigerio
di Benedetta Frigerio
Brexit, immigrazione fattore decisivo. La paura dello straniero sconfigge l'economia
Blog Diritti Umani - Human Rights
Il referendum inglese sulla Brexit sancisce l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea, la popolazione inglese è divisa e i fantasmi evocati sull'immigrazione sono stati un fattore decisivo per l'affermazione del Brexit.
Il referendum inglese sulla Brexit sancisce l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea, la popolazione inglese è divisa e i fantasmi evocati sull'immigrazione sono stati un fattore decisivo per l'affermazione del Brexit.
Le numerose realtà di immigrati presenti nel paese, in alcune regioni pienamente integrati ed in altre con delle difficoltà nel rapporto con la popolazione britannica, sono state oggetto di strumentalizzazioni e cavallo di battaglia della campagna per il Brexit.
La pressione percepita da Calais dei migranti che cercano di entrare in Gran Bretagna ha alimentato le opinioni di chi vuole difendere il paese dall'invasione (di poche migliaia di immigrati) che viene dal Sud.
In termini economici tutti gli osservatori hanno sempre messo in luce quanto l'uscita della Gran Bretagna dalla UE avesse provocato gravi e irreversibili conseguenze.
Non a caso la City di Londra, cuore del mondo finanziario britannico, ha visto affermarsi il Remain al 75% delle preferenze contro il 25% del Leave.
Questo dimostra che è mancato, un contrasto ad una politica populista, che doveva coinvolgere tutte le regioni della Gran Bretagna, che sta costruendo la sua affermazione puntando sulle paure, di fatto inconsistenti di una invasione degli immigrati.
Questo dimostra che è mancato, un contrasto ad una politica populista, che doveva coinvolgere tutte le regioni della Gran Bretagna, che sta costruendo la sua affermazione puntando sulle paure, di fatto inconsistenti di una invasione degli immigrati.
L'immigrazione ben governata con processi di integrazione efficaci è sempre stata una risorsa per le economie europee invecchiate che invece aumentando il loro isolamento si avviano in questo modo ad un inevitabile declino.
Se c'è un fallimento e quello della promozione di una cultura dell'integrazione e dell'accoglienza che, mai come in questa occasione, dimostra quanto incida positivamente sull'economia della UE e dei suoi singoli stati membri.
ES
giovedì 23 giugno 2016
Turchia: 139 deputati curdi alla sbarra per "terrorismo"
Il Dubbio
Il ministero della giustizia turco ha inviato 682 fascicoli relativi a 139 dei 152 membri dell'unica Camera del Parlamento turco con procedimenti a carico, divenuti perseguibili in seguito alla controversa abolizione dell'immunità parlamentare in Turchia, approvato lo scorso 22 maggio, una forzatura della costituzione operata dal presidente Erdogan per mettere all'angolo i curdi, mutilando alla radice la loro rappresentanza politica.
Tra i 682 fascicoli inviati ieri mattina ai parlamentari compaiono anche quelli riferiti al segretario dei repubblicani del Chp, principale partito di opposizione il laico Kemal Kilicdaroglu, i due segretari filo curdi Hdp, Selattin Demirtas e Figen Yuksekdag, e il segretario uscente dei nazionalisti dell'Mhp, Devlet Bahceli. In pratica i leader di tutti e 3 i partiti di opposizione all'Akp del presidente Recep Tayyip Erdogan, una circostanza che alimenta legittimi dubbi sulla torsione delle regole democratiche compiuta dal dominus di Ankara.
Il ministero della giustizia turco ha inviato 682 fascicoli relativi a 139 dei 152 membri dell'unica Camera del Parlamento turco con procedimenti a carico, divenuti perseguibili in seguito alla controversa abolizione dell'immunità parlamentare in Turchia, approvato lo scorso 22 maggio, una forzatura della costituzione operata dal presidente Erdogan per mettere all'angolo i curdi, mutilando alla radice la loro rappresentanza politica.
Il procuratore ha inoltre già chiamato a deporre i deputati curdi dell'Hdp Burcu Celik Ozkan e Ahmet Yldirim, indagati per "sostegno a organizzazione terroristica", un reato associativo dai contorni molto vaghi.
Tra i 682 fascicoli inviati ieri mattina ai parlamentari compaiono anche quelli riferiti al segretario dei repubblicani del Chp, principale partito di opposizione il laico Kemal Kilicdaroglu, i due segretari filo curdi Hdp, Selattin Demirtas e Figen Yuksekdag, e il segretario uscente dei nazionalisti dell'Mhp, Devlet Bahceli. In pratica i leader di tutti e 3 i partiti di opposizione all'Akp del presidente Recep Tayyip Erdogan, una circostanza che alimenta legittimi dubbi sulla torsione delle regole democratiche compiuta dal dominus di Ankara.
Sono invece 799 i fascicoli preparati a carico di 152 deputati ora soggetti a procedimenti giudiziari: 29 appartenenti all'Akp, partito di governo, 55 ai filo curdi dell'Hdp, 57 ai repubblicani del Chp, 10 ai nazionalisti dell'Mhp e un indipendente. Il Parlamento turco è composto da 550 parlamentari eletti in 81 collegi amministrativi per un mandato di quattro anni con un sistema completamente proporzionale ma regolato da una soglia di sbarramento altissima: il 10%.
Corridoi umanitari: una soluzione italiana presentata a New York agliambasciatori ONU
Onu Italia
New York - Per affrontare efficacemente la crisi delle migrazioni e’ innanzitutto necessario un cambio culturale. “Dobbiamo opporci alla narrativa della paura che il fenomeno delle migrazioni sembra generare in molti paesi e pubbliche opinioni”, ha detto il viceministro degli Esteri Mario Giro incontrando ambasciatori di Paesi ONU per illustrare una “soluzione italiana”: l’iniziativa dei “corridoi umanitari”.
“Coinvolgere la societa’ civile e’ cruciale. Ecco perche’ l’Italia attacca tanta importanza a questo programma”, ha detto Giro che nell’incontro nella sede della Rappresentanza Permanente italiana e’ stato affiancato da Cesare Zucconi, segretario generale della Comunita’ di Sant’Egidio.
I “corridoi” sono stati lanciati per aiutare migranti e profughi a trasferirsi da paesi come il Libano dove si trovano temporaneamente ospiti. L’Italia si e’ impegnata a accogliere mille persone prima del 2017, mentre gia’ 300 profughi sono arrivati a Roma da gennaio per essere ricollocati in varie regioni della Penisola. La scorsa settimana, per la prima volta, una famiglia siriana e’ stata accolta a San Marino. Altri paesi europei, si e’ detto fiducioso Giro, potrebbero seguirne l’esempio.
Il progetto e’ stato sviluppato, senza costi per il governo italiano almeno nella prima fase, da tre organizzazioni cristiane – la Comunita’ di Sant’Egidio, la Tavola Valdese e la Federazione delle Chiese Evangeliche – in collaborazione con Farnesina, Viminale, OIM e UNHCR. I “corridoi” attingono a riserve private e di comunita’ per consentire il ricollocamento con l’appoggio di privati cittadini e, in questo rispetto specifico, di diverse organizzazioni religiose. “Offriamo una prima risposta al dramma dei morti in mare che sta aumentando. Occorre fare qualcosa e farlo subito e le normative lo permettono”, ha detto Zucconi.
New York e l’ONU e’ stata la prima tappa di un “roadshow” che portera’ i “corridoi umanitari” all’attenzione della comunita’ internazionale. La prossima settimana a Bruxelles le tre Ong illustreranno l’iniziativa ai rappresnetanti della UE. Oltre a San Marino altri paesi come la Polonia, Francia e Spagna hanno espresso interesse. In Polonia la Conferenza Episcopale ha aperto a questo scopo negoziati con il governo. (@alebal)
New York - Per affrontare efficacemente la crisi delle migrazioni e’ innanzitutto necessario un cambio culturale. “Dobbiamo opporci alla narrativa della paura che il fenomeno delle migrazioni sembra generare in molti paesi e pubbliche opinioni”, ha detto il viceministro degli Esteri Mario Giro incontrando ambasciatori di Paesi ONU per illustrare una “soluzione italiana”: l’iniziativa dei “corridoi umanitari”.
“Coinvolgere la societa’ civile e’ cruciale. Ecco perche’ l’Italia attacca tanta importanza a questo programma”, ha detto Giro che nell’incontro nella sede della Rappresentanza Permanente italiana e’ stato affiancato da Cesare Zucconi, segretario generale della Comunita’ di Sant’Egidio.
I “corridoi” sono stati lanciati per aiutare migranti e profughi a trasferirsi da paesi come il Libano dove si trovano temporaneamente ospiti. L’Italia si e’ impegnata a accogliere mille persone prima del 2017, mentre gia’ 300 profughi sono arrivati a Roma da gennaio per essere ricollocati in varie regioni della Penisola. La scorsa settimana, per la prima volta, una famiglia siriana e’ stata accolta a San Marino. Altri paesi europei, si e’ detto fiducioso Giro, potrebbero seguirne l’esempio.
Il progetto e’ stato sviluppato, senza costi per il governo italiano almeno nella prima fase, da tre organizzazioni cristiane – la Comunita’ di Sant’Egidio, la Tavola Valdese e la Federazione delle Chiese Evangeliche – in collaborazione con Farnesina, Viminale, OIM e UNHCR. I “corridoi” attingono a riserve private e di comunita’ per consentire il ricollocamento con l’appoggio di privati cittadini e, in questo rispetto specifico, di diverse organizzazioni religiose. “Offriamo una prima risposta al dramma dei morti in mare che sta aumentando. Occorre fare qualcosa e farlo subito e le normative lo permettono”, ha detto Zucconi.
New York e l’ONU e’ stata la prima tappa di un “roadshow” che portera’ i “corridoi umanitari” all’attenzione della comunita’ internazionale. La prossima settimana a Bruxelles le tre Ong illustreranno l’iniziativa ai rappresnetanti della UE. Oltre a San Marino altri paesi come la Polonia, Francia e Spagna hanno espresso interesse. In Polonia la Conferenza Episcopale ha aperto a questo scopo negoziati con il governo. (@alebal)
Morire di speranza: preghiera in memoria di quanti perdono la vitaneiviaggi verso l'Europa
www.santegidio.org
Anche quest'anno, in occasione della Giornata mondiale del Rifugiato, la Comunità di Sant’Egidio, insieme a Associazione Centro Astalli, Caritas Italiana, Fondazione Migrantes, Federazione Chiese Evangeliche in Italia, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Acli, promuovono "Morire di Speranza", una veglia di preghiera, per ricordare tutti coloro che hanno perso la vita nei viaggi della speranza.
Durante la preghiera saranno letti i nomi e le storie di quanti hanno intrapreso questo viaggio e sono morti nel tentativo di raggiungere il nostro continente. Un'invocazione perchè nasca una cultura di accoglienza, e cessino le morti nel Mediterraneo.
Quest'anno la preghiera "Morire di Speranza" si terrà in diverse città italiane ed europee.
Anche quest'anno, in occasione della Giornata mondiale del Rifugiato, la Comunità di Sant’Egidio, insieme a Associazione Centro Astalli, Caritas Italiana, Fondazione Migrantes, Federazione Chiese Evangeliche in Italia, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Acli, promuovono "Morire di Speranza", una veglia di preghiera, per ricordare tutti coloro che hanno perso la vita nei viaggi della speranza.
Durante la preghiera saranno letti i nomi e le storie di quanti hanno intrapreso questo viaggio e sono morti nel tentativo di raggiungere il nostro continente. Un'invocazione perchè nasca una cultura di accoglienza, e cessino le morti nel Mediterraneo.
Quest'anno la preghiera "Morire di Speranza" si terrà in diverse città italiane ed europee.
mercoledì 22 giugno 2016
Papa Francesco: “La pena di morte è inammissibile
Blog Cites for Life
Con video messaggio Papa Francesco si rivolge a tutte le autorità, le associazioni, gli attivisti e la società civile presenti a Oslo in occasione del Congresso Mondiale contro la Pena di Morte
Con video messaggio Papa Francesco si rivolge a tutte le autorità, le associazioni, gli attivisti e la società civile presenti a Oslo in occasione del Congresso Mondiale contro la Pena di Morte
Ecco le sue parole:
“Spero che questo Congresso possa dare nuovo impulso all’impegno per l’abolizione della pena capitale”. È l’auspicio con cui Papa Francesco chiude il videomessaggio inviato al Congresso mondiale contro la pena di morte apertosi oggi nella capitale norvegese di Oslo. L’evento è promosso dalla Ong francese “Ensemble contre la peine de mort” e dalla “World Coalition Against Death Penalty”, di cui fanno parte circa 140 organizzazioni da tutto il mondo. La pena di morte, afferma il Papa, qualsiasi sia il reato, “è inammissibile”. Contro la pena di morte, nota Francesco, si registra una “crescente opposizione”, “anche come strumento legittimo di difesa sociale”.
Il Papa, riporta Radio Vaticana, “si congratula con organizzatori e partecipanti di ogni ordine e grado presenti a Oslo per il Congresso. Ed è diretto: uccidere un reo non ha niente a che vedere con la giustizia, perché in sostanza stimola a considerare un condannato con implacabile disumanità e quasi mai come qualcuno che possa riscattarsi”. Afferma, infatti, Francesco: “Oggi la pena di morte è inammissibile, per quanto sia grave il reato commesso dal condannato. È un affronto all’inviolabilità della vita e della dignità della persona umana che contraddice il disegno di Dio sull’uomo, la società e la sua giustizia misericordiosa (…). Essa non rende giustizia alle vittime, ma incoraggia la vendetta. Il comandamento ‘Non uccidere’ ha un valore assoluto e riguarda sia l’innocente sia il colpevole”.
Nell’Anno Santo della misericordia, il Papa riconosce “una buona occasione per promuovere nel mondo forme sempre più mature di rispetto per la vita e la dignità di ogni persona”, giacché – ribadisce – “il diritto inviolabile alla vita, dono di Dio, appartiene anche a chi ha commesso un crimine”: “Vorrei incoraggiare tutti a lavorare non solo per l’abolizione della pena di morte, ma anche per il miglioramento delle condizioni della detenzione, a rispettare pienamente la dignità umana delle persone private della libertà. ‘Fare giustizia’ non significa una pena fine a se stessa, ma che le pene hanno come scopo principale la riabilitazione del reo”. La questione, conclude Francesco, deve essere “inquadrata nell’ottica di una giustizia penale aperta alla speranza di reinserimento del reo nella società”: “Non c’è nessuna pena valida senza la speranza! Una pena chiusa in se stessa, che non porta alla speranza, è una tortura, non una pena”.
“Spero che questo Congresso possa dare nuovo impulso all’impegno per l’abolizione della pena capitale”. È l’auspicio con cui Papa Francesco chiude il videomessaggio inviato al Congresso mondiale contro la pena di morte apertosi oggi nella capitale norvegese di Oslo. L’evento è promosso dalla Ong francese “Ensemble contre la peine de mort” e dalla “World Coalition Against Death Penalty”, di cui fanno parte circa 140 organizzazioni da tutto il mondo. La pena di morte, afferma il Papa, qualsiasi sia il reato, “è inammissibile”. Contro la pena di morte, nota Francesco, si registra una “crescente opposizione”, “anche come strumento legittimo di difesa sociale”.
Il Papa, riporta Radio Vaticana, “si congratula con organizzatori e partecipanti di ogni ordine e grado presenti a Oslo per il Congresso. Ed è diretto: uccidere un reo non ha niente a che vedere con la giustizia, perché in sostanza stimola a considerare un condannato con implacabile disumanità e quasi mai come qualcuno che possa riscattarsi”. Afferma, infatti, Francesco: “Oggi la pena di morte è inammissibile, per quanto sia grave il reato commesso dal condannato. È un affronto all’inviolabilità della vita e della dignità della persona umana che contraddice il disegno di Dio sull’uomo, la società e la sua giustizia misericordiosa (…). Essa non rende giustizia alle vittime, ma incoraggia la vendetta. Il comandamento ‘Non uccidere’ ha un valore assoluto e riguarda sia l’innocente sia il colpevole”.
Nell’Anno Santo della misericordia, il Papa riconosce “una buona occasione per promuovere nel mondo forme sempre più mature di rispetto per la vita e la dignità di ogni persona”, giacché – ribadisce – “il diritto inviolabile alla vita, dono di Dio, appartiene anche a chi ha commesso un crimine”: “Vorrei incoraggiare tutti a lavorare non solo per l’abolizione della pena di morte, ma anche per il miglioramento delle condizioni della detenzione, a rispettare pienamente la dignità umana delle persone private della libertà. ‘Fare giustizia’ non significa una pena fine a se stessa, ma che le pene hanno come scopo principale la riabilitazione del reo”. La questione, conclude Francesco, deve essere “inquadrata nell’ottica di una giustizia penale aperta alla speranza di reinserimento del reo nella società”: “Non c’è nessuna pena valida senza la speranza! Una pena chiusa in se stessa, che non porta alla speranza, è una tortura, non una pena”.
Rendere più umane le carceri brasiliane con 100% di sovraffollamento
agccommunication.eu
Il Brasile cerca di "umanizzare" il proprio sistema carcerario, afflitto da sovraffollamento, violenza, mancanza di controllo istituzionale, con situazioni di estrema crudeltà per i detenuti. Il Brasile ha la quarta più grande popolazione carceraria al mondo dopo Stati Uniti, Cina e Russia.
Ad aggravare la situazione sta la gestione delle strutture da parte degli enti regionali, con politiche e risorse diverse, che si traduce in una grande varietà di condizioni nelle 1.420 sue carceri. A Rio de Janeiro, lo stato con la terza più grande popolazione carceraria, dopo San Paolo e Minas Gerais, si sta tentando un esperimento pilota a Bangu, ossia al Complejo Penitenciario de Gericinó, riporta Efe. Il sovraffollamento, secondo i più recenti dati ufficiali, continua ad essere il problema principale, con 47673 "ospiti" tra uomini e donne, 20457 dei quali in attesa di giudizio. Il dato è molto preoccupante perché il sistema carcerario dello Stato ha spazio solo per 27500 detenuti.
Il Brasile cerca di "umanizzare" il proprio sistema carcerario, afflitto da sovraffollamento, violenza, mancanza di controllo istituzionale, con situazioni di estrema crudeltà per i detenuti. Il Brasile ha la quarta più grande popolazione carceraria al mondo dopo Stati Uniti, Cina e Russia.
Ad aggravare la situazione sta la gestione delle strutture da parte degli enti regionali, con politiche e risorse diverse, che si traduce in una grande varietà di condizioni nelle 1.420 sue carceri. A Rio de Janeiro, lo stato con la terza più grande popolazione carceraria, dopo San Paolo e Minas Gerais, si sta tentando un esperimento pilota a Bangu, ossia al Complejo Penitenciario de Gericinó, riporta Efe. Il sovraffollamento, secondo i più recenti dati ufficiali, continua ad essere il problema principale, con 47673 "ospiti" tra uomini e donne, 20457 dei quali in attesa di giudizio. Il dato è molto preoccupante perché il sistema carcerario dello Stato ha spazio solo per 27500 detenuti.
La detenzione preventiva e in attesa di giudizio è il problema più grave perché molti, secondo i dati ufficiali, saranno assolti o condannati a pene inferiori rispetto al tempo della carcerazione preventiva.
L'esperimento prevede un lavoro anche con i tribunali per accelerare le udienze di conferma della detenzione, che potrebbero limitare fino al 50 per cento il numero di nuovi detenuti. Nello stato, poi, sono in costruzione quattro nuovi centri di detenzione e si stanno studiando nuove forme di pena come i servizi obbligatori alla comunità. Inoltre, la sovrappopolazione è aggravata dalla violenza delle bande presenti all'interno delle strutture, un dato che di fatto rende le carceri una fucina di nuovi criminali.
di Luigi Medici
di Luigi Medici
“Così sono sopravvissuta alla pena di morte in Uganda”
La Stampa
Kigula era stata condannata per omicidio: grazie a una petizione è riuscita a riconquistare la libertà e a cambiare la storia del suo Paese
Susan Kigula oggi non dovrebbe essere qui, a Oslo, a cercare di tenere a bada il vestito leggero che il vento non vuole lasciare in pace. Susan dovrebbe essere in Uganda, il suo Paese, appesa alla forca di Kampala con il «vestito degli impiccati», una tuta con decine di tasche riempite di sabbia per rendere più pesante il corpo quando si apre la botola. Sorride, sorride sempre Susan, e dice: «Vedi, io sono la testimonianza vivente che non bisogna mollare mai, che la morte non è la cosa peggiore che ti può capitare, la cosa peggiore è morire dentro mentre siamo ancora vivi». Susan ha passato 15 anni in carcere, accusata di aver ucciso il compagno. Nei lunghi anni passati nel braccio della morte è riuscita a cambiare la storia dell’Uganda, con una petizione (nota come la «Susan Kigula e gli altri 417») che ha portato la Corte a dichiarare incostituzionale la pena capitale obbligatoria per certi reati, tra cui l’alto tradimento, il terrorismo, la rapina aggravata e l’omicidio. È uscita dal carcere 5 mesi fa.
Oggi è una delle più importanti testimoni per l’abolizione della pena di morte.
«La pena capitale non serve, non funziona come deterrente. Lo vediamo in Uganda, così come negli Stati Uniti: aumentano le esecuzioni, ma non mi pare che i reati diminuiscano… Dubito che un marito violento pensi ai rischi che corre mentre picchia a morte la moglie, o un kamikaze eviti di farsi saltare in aria per paura».
In Uganda la sentenza viene eseguita per impiccagione, si riferisce a questo quando parla di metodi non umani?
«Mi ricordo ancora quando, dopo due anni di carcere, mi hanno condannata alla forca. Da allora, ogni istante è diventato l’ultimo. Ogni porta aperta, ogni passo, ogni rumore era quello del boia che veniva a prendermi. Se morire con il collo spezzato è inumano, vivere pensando che potrebbe succedere in ogni momento è indescrivibile. È come se lo Stato facesse le prove della tua esecuzione ogni giorno, ti spreme la vita fuori dal corpo come si spreme un pompelmo».
«Mi ricordo ancora quando, dopo due anni di carcere, mi hanno condannata alla forca. Da allora, ogni istante è diventato l’ultimo. Ogni porta aperta, ogni passo, ogni rumore era quello del boia che veniva a prendermi. Se morire con il collo spezzato è inumano, vivere pensando che potrebbe succedere in ogni momento è indescrivibile. È come se lo Stato facesse le prove della tua esecuzione ogni giorno, ti spreme la vita fuori dal corpo come si spreme un pompelmo».
A poche centinaia di metri da dove ci troviamo, Anders Breivik ha iniziato la carneficina che il 22 luglio 2011 ha portato alla morte di 77 persone. In pochi in Norvegia hanno invocato la pena di morte, ma in molti hanno criticato la condanna a 21 anni, il massimo previsto dalla legge. Cosa ne pensa?
«Penso che uccidere non sia mai la soluzione. Non lo è se lo fa lo Stato, perché diventa come gli assassini che condanna e ha il terribile sapore della vendetta. Ma ci tengo a dire una cosa: gli assassini sono dei criminali, ma nessuna persona sana di mente arriva ad ammazzare un suo simile. E soprattutto: la persona arrestata per omicidio non è la stessa persona condannata a morte. Il carcere cambia, il rimorso anche. Tutti hanno diritto a un’altra possibilità».
Lei è un’assassina?
«No. Non ho ucciso il mio compagno. Sono arrivati di notte, hanno tentato di sgozzare anche me. Vede questa cicatrice sul collo? È stata la mia prima condanna a morte, ma non ce l’hanno fatta a togliermi di mezzo, neanche quella volta, anche se ci sono arrivati vicino».
Come è riuscita a cambiare il suo destino e quello di decine di altri condannati a morte in Uganda?
«In carcere ho iniziato a studiare legge con l’aiuto dei Servizi carcerari ugandesi. Sono riuscita a laurearmi a distanza all’Università di Londra e così ho intuito quello che potevo fare, che dovevo fare: la mia unica speranza era di far cambiare la legge che rendeva obbligatoria la pena di morte in caso di omicidio. Ce l’ho fatta con l’aiuto della ong Fhri e di centinaia di persone che hanno firmato la petizione arrivata alla Corte».
Ora di cosa si occupa?
«Promuovo la riconciliazione contro la vendetta. Non ho rabbia, né rimpianti, quello che sono diventata lo devo anche al dolore subito. L’unica ferita è di aver dovuto abbandonare mia figlia durante gli anni del carcere. Io per fortuna avevo mia madre a occuparsi di lei, ma molti condannati non hanno nessuno, e i loro figli - dimenticati dallo Stato - finiscono per strada, cadono in mano ai criminali, alla fame e allo sfruttamento sessuale. Io mi occupo di loro, faccio in modo che abbiano una possibilità, che vadano a scuola e che capiscano che i genitori non li hanno abbandonati».
Susan Kigula oggi non dovrebbe essere qui, a Oslo, a cercare di tenere a bada il vestito leggero che il vento non vuole lasciare in pace. Susan dovrebbe essere in Uganda, il suo Paese, appesa alla forca di Kampala con il «vestito degli impiccati», una tuta con decine di tasche riempite di sabbia per rendere più pesante il corpo quando si apre la botola. Sorride, sorride sempre Susan, e dice: «Vedi, io sono la testimonianza vivente che non bisogna mollare mai, che la morte non è la cosa peggiore che ti può capitare, la cosa peggiore è morire dentro mentre siamo ancora vivi». Susan ha passato 15 anni in carcere, accusata di aver ucciso il compagno. Nei lunghi anni passati nel braccio della morte è riuscita a cambiare la storia dell’Uganda, con una petizione (nota come la «Susan Kigula e gli altri 417») che ha portato la Corte a dichiarare incostituzionale la pena capitale obbligatoria per certi reati, tra cui l’alto tradimento, il terrorismo, la rapina aggravata e l’omicidio. È uscita dal carcere 5 mesi fa.
Oggi è una delle più importanti testimoni per l’abolizione della pena di morte.
«La pena capitale non serve, non funziona come deterrente. Lo vediamo in Uganda, così come negli Stati Uniti: aumentano le esecuzioni, ma non mi pare che i reati diminuiscano… Dubito che un marito violento pensi ai rischi che corre mentre picchia a morte la moglie, o un kamikaze eviti di farsi saltare in aria per paura».
In Uganda la sentenza viene eseguita per impiccagione, si riferisce a questo quando parla di metodi non umani?
«Mi ricordo ancora quando, dopo due anni di carcere, mi hanno condannata alla forca. Da allora, ogni istante è diventato l’ultimo. Ogni porta aperta, ogni passo, ogni rumore era quello del boia che veniva a prendermi. Se morire con il collo spezzato è inumano, vivere pensando che potrebbe succedere in ogni momento è indescrivibile. È come se lo Stato facesse le prove della tua esecuzione ogni giorno, ti spreme la vita fuori dal corpo come si spreme un pompelmo».
«Mi ricordo ancora quando, dopo due anni di carcere, mi hanno condannata alla forca. Da allora, ogni istante è diventato l’ultimo. Ogni porta aperta, ogni passo, ogni rumore era quello del boia che veniva a prendermi. Se morire con il collo spezzato è inumano, vivere pensando che potrebbe succedere in ogni momento è indescrivibile. È come se lo Stato facesse le prove della tua esecuzione ogni giorno, ti spreme la vita fuori dal corpo come si spreme un pompelmo».
A poche centinaia di metri da dove ci troviamo, Anders Breivik ha iniziato la carneficina che il 22 luglio 2011 ha portato alla morte di 77 persone. In pochi in Norvegia hanno invocato la pena di morte, ma in molti hanno criticato la condanna a 21 anni, il massimo previsto dalla legge. Cosa ne pensa?
«Penso che uccidere non sia mai la soluzione. Non lo è se lo fa lo Stato, perché diventa come gli assassini che condanna e ha il terribile sapore della vendetta. Ma ci tengo a dire una cosa: gli assassini sono dei criminali, ma nessuna persona sana di mente arriva ad ammazzare un suo simile. E soprattutto: la persona arrestata per omicidio non è la stessa persona condannata a morte. Il carcere cambia, il rimorso anche. Tutti hanno diritto a un’altra possibilità».
Lei è un’assassina?
«No. Non ho ucciso il mio compagno. Sono arrivati di notte, hanno tentato di sgozzare anche me. Vede questa cicatrice sul collo? È stata la mia prima condanna a morte, ma non ce l’hanno fatta a togliermi di mezzo, neanche quella volta, anche se ci sono arrivati vicino».
Come è riuscita a cambiare il suo destino e quello di decine di altri condannati a morte in Uganda?
«In carcere ho iniziato a studiare legge con l’aiuto dei Servizi carcerari ugandesi. Sono riuscita a laurearmi a distanza all’Università di Londra e così ho intuito quello che potevo fare, che dovevo fare: la mia unica speranza era di far cambiare la legge che rendeva obbligatoria la pena di morte in caso di omicidio. Ce l’ho fatta con l’aiuto della ong Fhri e di centinaia di persone che hanno firmato la petizione arrivata alla Corte».
Ora di cosa si occupa?
«Promuovo la riconciliazione contro la vendetta. Non ho rabbia, né rimpianti, quello che sono diventata lo devo anche al dolore subito. L’unica ferita è di aver dovuto abbandonare mia figlia durante gli anni del carcere. Io per fortuna avevo mia madre a occuparsi di lei, ma molti condannati non hanno nessuno, e i loro figli - dimenticati dallo Stato - finiscono per strada, cadono in mano ai criminali, alla fame e allo sfruttamento sessuale. Io mi occupo di loro, faccio in modo che abbiano una possibilità, che vadano a scuola e che capiscano che i genitori non li hanno abbandonati».
Monica Perosino
martedì 21 giugno 2016
Siria - Ad Aleppo sono crollate le scuole si studia sui marciapiedi
Blog Diritti Umani - Huma Rights
Ad Aleppo la guerra ha distrutto case, ospedali, scuole. Chi è rimasto cerca di resistere. I giovani voglio continuare a studiare anche se la loro scuola è distrutta e la classe si ritrova a studiare sul marciapiede.
lunedì 20 giugno 2016
Una delegazione di Sant'Egidio al Congresso contro la pena di morte di Oslo
Blog - Città per la Vita
La Comunità di Sant'Egidio partecipa al VI Congresso Mondiale Contro la Pena di Morte con una delegazione da Italia, Congo, Belgio, Spagna, Germania e Indonesia.
Sant'Egidio porterà il suo contributo presentando il proprio modo di lavorare e di fare rete attraverso l'iniziativa "Città per la vita " e con il metodo adottato con i Congressi Internazionali dei Ministri della Giustizia.
La Comunità di Sant'Egidio partecipa al VI Congresso Mondiale Contro la Pena di Morte con una delegazione da Italia, Congo, Belgio, Spagna, Germania e Indonesia.
Quest'anno L'Associazione francese Ensemble Contre la Peine de Mort invita ad Oslo per il 6° evento di World Congress Against the Death Penalty che avrà luogo presso la Opera House di Oslo tra il 21 e il 23 giugno 2016.
Sono 1500 le persone iscritte, provenienti da oltre 80 paesi del mondo, tra loro 20 ministri, 200 diplomatici, parlamentari, accademici, avvocati, associazioni e membri della società civile.
Sant'Egidio porterà il suo contributo presentando il proprio modo di lavorare e di fare rete attraverso l'iniziativa "Città per la vita " e con il metodo adottato con i Congressi Internazionali dei Ministri della Giustizia.
Nell'intervista a Radio Vaticana Carlo Santoro spiega come la campagna “Cities for Life” promossa dalla Comunità di Sant’Egidio nel 2002 sia riuscita a portare diverse città internazionali a muoversi in rete per sostenere l’abolizione della pena di morte. La definisce una "globalizzazione della speranza" che permette alle città, ma anche alla società civile, alle Chiese locali e ad altre religioni, di unirsi alla campagna per abolizione della pena di morte.
Molti passi sono stati fatti negli ultimi 30 anni e molto si deve anche alla campagna "Cities for Life - Cities against the death penalty". E’ un’iniziativa straordinaria che negli anni ha riunito amministrazioni locali e società civili di ogni parte del mondo. Assieme alla Giornata Mondiale che si celebra ogni 10 ottobre, è la più estesa mobilitazione mondiale dell’anno contro la pena capitale, e oggi coinvolge più di 2000 città tra cui 80 capitali.
Molti passi sono stati fatti negli ultimi 30 anni e molto si deve anche alla campagna "Cities for Life - Cities against the death penalty". E’ un’iniziativa straordinaria che negli anni ha riunito amministrazioni locali e società civili di ogni parte del mondo. Assieme alla Giornata Mondiale che si celebra ogni 10 ottobre, è la più estesa mobilitazione mondiale dell’anno contro la pena capitale, e oggi coinvolge più di 2000 città tra cui 80 capitali.
La Giornata Internazionale “Città per la Vita, Città contro la pena di morte”, si celebra ogni 30 novembre su iniziativa della Comunità di Sant’Egidio, in ricordo dell’anniversario della prima abolizione per legge della pena capitale decisa da uno stato europeo, il Granducato di Toscana, nel 1786.
Nel pomeriggio del 23 giugno tra le 18 e le 19,30 la cerimonia di chiusura si terrà presso la sede del Comune di Oslo, lo spazio sarà dedicato particolarmente alla campagna Cities for Life alla presenza del Sindaco di Parigi e di alcuni Sindaci italiani per rappresentare il paese che nel 1786 per primo ha abolito la pena capitale.
Per quanto riguarda i Congressi dei Ministri della Giustizia, che sono ormai alla nona edizione e il cui titolo è “Non c’è giustizia senza vita”, a questi incontri prendono parte paesi abolizionisti e mantenitori. Il metodo è quello del confronto costruttivo. La struttura del Congresso prevede una parte pubblica e una privata, che permette di affrontare più approfonditamente le questioni della giustizia. Interessante la presenza nelle diverse edizioni di Ministri di Paesi come lo Sri Lanka, Vietnam, Cambogia, Mongolia, Zimbabwe, Senegal, Mozambico, Sudafrica, Centrafrica, Guinea, Bissau, Rwanda, Burundi, Niger, Filippine, Indonesia, Lesotho, Capoverde, Kenya, Somalia, Congo, Salvador, Costa Rica, Panama, Principe…
Per quanto riguarda i Congressi dei Ministri della Giustizia, che sono ormai alla nona edizione e il cui titolo è “Non c’è giustizia senza vita”, a questi incontri prendono parte paesi abolizionisti e mantenitori. Il metodo è quello del confronto costruttivo. La struttura del Congresso prevede una parte pubblica e una privata, che permette di affrontare più approfonditamente le questioni della giustizia. Interessante la presenza nelle diverse edizioni di Ministri di Paesi come lo Sri Lanka, Vietnam, Cambogia, Mongolia, Zimbabwe, Senegal, Mozambico, Sudafrica, Centrafrica, Guinea, Bissau, Rwanda, Burundi, Niger, Filippine, Indonesia, Lesotho, Capoverde, Kenya, Somalia, Congo, Salvador, Costa Rica, Panama, Principe…
Notevoli i passi avanti grazie alla realizzazione di questi incontri, come le affermazioni abolizioniste del Vice Presidente dello Zimbabwe, la partecipazione fino alla decisione di abolire la pena capitale da parte del Presidente della Mongolia, l'interesse a questi processi da parte del Vietnam, la posizione dello Sri Lanka, che dopo essersi astenuto dal voto per la moratoria afferma che voterà a favore nel 2016, la Guinea che si dice decisa ad avviare le politiche per abolire definitivamente la pena capitale.
Si tratta di strategie e azioni animate dall’interesse per l’essere umano, superano le leggi del diritto e dei sani principi, che non vi vengono eliminati, ma perfezionati.
Si tratta di strategie e azioni animate dall’interesse per l’essere umano, superano le leggi del diritto e dei sani principi, che non vi vengono eliminati, ma perfezionati.
Libia: sottoscritto a Sant'Egidio accordo umanitario fra tutti i gruppi politici ed etnici del Sud del Paese
www.santegidio.org
Per la prima volta sarà consentita la presenza della Cooperazione italiana, della Croce Rossa Internazionale e di alcune ONG nella regione del Fezzan, la zona di passaggio dell'immigrazione verso l’Europa.
Per la prima volta sarà consentita la presenza della Cooperazione italiana, della Croce Rossa Internazionale e di alcune ONG nella regione del Fezzan, la zona di passaggio dell'immigrazione verso l’Europa.
Nei giorni scorsi, a Sant’Egidio, si sono incontrati politici e attivisti del Fezzan, rappresentanti le varie tribù della regione meridionale della Libia. Il Fezzan è stato a lungo tempo dimenticato dalle autorità centrali libiche ed ancora oggi resta largamente marginalizzato all’interno del territorio nazionale. La sua composizione etnica complessa lo rende luogo di tensioni, come è avvenuto dopo il crollo del regime di Gheddafi e la diffusione del conflitto civile libico. Per la mancanza di stabilità e di controlli rappresenta un luogo privilegiato di transito per l’immigrazione verso l’Europa.
Il Fezzan è la cassaforte della Libia, sia per le risorse petrolifere e sia per l'acqua e conta circa 400.000 abitanti su un territorio molto esteso. Nel Fezzan si concentrano popolazioni in fuga da Niger, Mali, Sudan. La possibilità della comunità internazionale di entrare nel Fezzan contribuirà a diminuire la libertà di movimento dei trafficanti di esseri umani.
La Comunità di Sant’Egidio ha da tempo iniziato attività di dialogo politico e riconciliazione anche in questa parte del territorio libico, che ha portato, nel dicembre 2015, alla cessazione degli scontri nell'importante città di Obari; inoltre c’è stato, da parte degli stessi responsabili del Fezzan, un riconoscimento dell’autorità del presidente Serraj, passo importante per il rafforzamento del governo sostenuto dall’ONU e dall’Italia insieme a tutta la comunità internazionale.
L’accordo sulle questioni umanitarie firmato oggi riapre la possibilità di inviare aiuti di emergenza a strutture ospedaliere situate in tutte e cinque le provincie del Fezzan, che soffrono la mancanza di materiali di prima necessità, come anche di kit per le vaccinazioni dei bambini. Ovviamente riaprire le comunicazioni con questa parte della Libia è fondamentale per implementare il processo di ricostruzione dello Stato attualmente sostenuto dall’ONU.
I delegati del Fezzan hanno sottoscritto un accordo che permetterà l’invio e la distribuzione di aiuti umanitari nella zona, garantendo la presenza della Croce Rossa Internazionale, della Cooperazione Italiana e di altre ONG.
Il Fezzan è la cassaforte della Libia, sia per le risorse petrolifere e sia per l'acqua e conta circa 400.000 abitanti su un territorio molto esteso. Nel Fezzan si concentrano popolazioni in fuga da Niger, Mali, Sudan. La possibilità della comunità internazionale di entrare nel Fezzan contribuirà a diminuire la libertà di movimento dei trafficanti di esseri umani.
La Comunità di Sant’Egidio ha da tempo iniziato attività di dialogo politico e riconciliazione anche in questa parte del territorio libico, che ha portato, nel dicembre 2015, alla cessazione degli scontri nell'importante città di Obari; inoltre c’è stato, da parte degli stessi responsabili del Fezzan, un riconoscimento dell’autorità del presidente Serraj, passo importante per il rafforzamento del governo sostenuto dall’ONU e dall’Italia insieme a tutta la comunità internazionale.
L’accordo sulle questioni umanitarie firmato oggi riapre la possibilità di inviare aiuti di emergenza a strutture ospedaliere situate in tutte e cinque le provincie del Fezzan, che soffrono la mancanza di materiali di prima necessità, come anche di kit per le vaccinazioni dei bambini. Ovviamente riaprire le comunicazioni con questa parte della Libia è fondamentale per implementare il processo di ricostruzione dello Stato attualmente sostenuto dall’ONU.
I delegati del Fezzan hanno sottoscritto un accordo che permetterà l’invio e la distribuzione di aiuti umanitari nella zona, garantendo la presenza della Croce Rossa Internazionale, della Cooperazione Italiana e di altre ONG.